06 novembre 2007

Pil, il metro impossibile della felicità

Un saggio mette in discussione il primato assoluto della crescita materiale come indicatore del benessere
Di Giovanni Mariotti
La dittatura del Grande Contabile, dal dopoguerra a oggi
Il Pil è un po’più giovane di me, ma non tanto. Nacque nell’immediato dopoguerra. Da allora continua a crescere (a volte, è vero, in maniera un po’stentata). Mi chiedo dove voglia arrivare. Di lui si parla con rispetto, compunzione e timore. Soprattutto se ne parla troppo. Confesso che la cosa mi infastidisce. Non credo che si tratti semplicemente di invidia per un quasi coetaneo che ha fatto una carriera un po’immeritata. La questione è più grave. Lo prova l’inquietante titolo che l’economista Pierangelo Dacrema ha dato a un suo recente pamphlet: La dittatura del Pil (Marsilio). Credo che il primo, squillante grido d’allarme sui pericoli del Pil sia stato lanciato quasi quarant’anni fa, il 18 marzo 1968, da Robert Kennedy, nelle aule dell’Università del Kansas. Ecco, trascritto da un sito Internet, un brano del suo discorso: «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il Pil comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Contabilizza le serrature speciali per le porte delle nostre case e le prigioni per coloro che cercano di forzarle... Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche le ricerche per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago... Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere e l’onestà dei pubblici dipendenti. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione né la devozione al Paese. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». Bellissimo squarcio di eloquenza «liberal», forse un po’datato (oggi la domanda di antifurti, porte blindate, carceri e sicurezza è molto alta e magari giustificata... ma non è detto che si tratti di un sintomo di buona salute, per la società), non per questo vacuo. Pronunciato dal cadetto della Nuova Frontiera quando il Pil aveva manifestato solo in parte la sua natura di gramigna virulenta e altamente infestante. Pochi ne parlavano, nel 1968. Non si poteva certo dire che fosse al centro di tutte le campagne elettorali e di tutti i battibecchi televisivi (come sarebbe accaduto in seguito); né era prevedibile quanto fu deciso a Maastricht quasi un quarto di secolo dopo: che l’appartenenza a una grande famiglia di Stati come l’Unione Europea dipendesse da una contabilità che ruotava tutta intorno ai Pil. Eppure Robert Kennedy seppe intravedere la fosca ambizione del Grande Contabile (chiamiamolo così): quella di accamparsi al centro della scena, pretendendo di offrire agli abitanti dei singoli Paesi una misura non solo della ricchezza prodotta anno per anno, ma anche del benessere, del successo o dell’insuccesso delle classi dirigenti, o addirittura, per una deriva ridicola, dei progressi della pubblica felicità. Non sono un economista, e mai ho avuto col Pil rapporti davvero intimi. Più che altro parlerei di antipatia istintiva. Da qui la simmetrica simpatia per l’affilata requisitoria contro il Pil scritta da Pierangelo Dacrema, professore di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Dacrema non è il solo nemico del Pil apparso in questi anni. Mi vengono in mente i nomi di Serge Latouche, autore del volume Come sopravvivere allo sviluppo (bestseller in Francia, edito in Italia da Bollati Boringhieri), e di due italiani, Marino Badiale e Massimo Bontempelli, che hanno firmato un manifesto Contro lo sviluppo. A differenza di Dacrema, Latouche, Badiale e Bontempelli sono impegnati a elaborare un’ideologia della decrescita, un po’«verde» e un po’«rossa». Ma rinunciare a una difettosa e fuorviante misurazione dello sviluppo non significa necessariamente rinunciare allo sviluppo, e cioè ai frutti debordanti dell’inventiva e dell’operosità umane. Giustamente Dacrema afferma: «Sono convinto che un’ampia disponibilità di beni materiali sia un frutto apprezzabile della civiltà. Credo che la ricchezza, o anche l’opulenza, non abbiano niente di peccaminoso, e che la povertà, nel senso più intuitivo del termine, rappresenti tuttora un’urgenza scandalosa per vaste aree del pianeta». Come aveva notato Robert Kennedy, il Pil è indifferente a ogni considerazione di qualità (qualità dei prodotti, e in ultima analisi qualità della vita). Incapace «di capire, cogliere e sentire il valore delle cose e dei fatti». Estraneo a quelle attività, a quelle iniziative, a quegli aspetti dell’esistenza umana che per loro natura non approdano a una movimentazione finanziaria (come il lavoro casalingo o il volontariato). Apparentemente limitato alle singole nazioni, ma in realtà presente, con funzioni intimidatorie o scoraggianti, nelle classifiche di un mondo globalizzato. Prigioniero infine del denaro... della sua struttura «lieve e soffocante». Il libro di Dacrema non è tanto un’invettiva contro il Pil (entità riprovevole solo se gli si permette di trasformarsi in ossessione) quanto la critica di un discorso economico e politico che del Pil si è fatto schiavo. Questa «servitù volontaria» appare abbastanza misteriosa, ma forse può essere spiegata. Aggrapparsi a un semplice numero che pretende di rappresentare en masse il prodotto di un Paese è un alibi comodo per evitare (almeno in parte) i problemi relativi agli usi e alla distribuzione della ricchezza, sempre un po’spinosi. Le cause che rendono oggi così debole e impopolare la comunicazione politica sono senza dubbio numerose. Non è detto che la sudditanza nei confronti del Pil sia una delle meno importanti. Credo che chi desidera ricominciare qualcosa da capo (che so, dar vita a un nuovo partito...) farebbe bene a tener conto di quell’utile prontuario di igiene mentale che è il libro di Pierangelo Dacrema.

Il libro dell’economista Pierangelo Dacrema «La dittatura del Pil. Schiavi di un numero che frena lo sviluppo (pagine 96, 10) è edito da Marsilio Un altro testo importante su questi temi è «Come sopravvivere allo sviluppo» dello studioso francese Serge Latouche (nella foto), edito da Bollati Boringhieri

Ma lo «sviluppo umano» si può misurare
Di Antonio Carioti

La più nota alternativa al Pil è l’Indice di sviluppo umano (Hdi è la sigla inglese), elaborato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990, che considera fattori diversi dalla crescita della produzione di beni e servizi. Questo parametro, sulla base del quale il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) stila ogni anno dal 1993 una classifica dei vari Paesi, tiene conto di dati come il reddito medio pro capite a parità di valore d’acquisto, il tasso di scolarizzazione dei bambini e il livello d’istruzione degli adulti, l’aspettativa di vita media. Si cerca così di fornire una valutazione che esprima l’effettivo benessere della popolazione, al di là dell’indicatore rappresentato dalla ricchezza monetaria. Il rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano del 2006 (elaborato su dati riguardanti il 2004) vede al primo posto nella graduatoria la Norvegia, seguita dall’Islanda e dall’Australia. Gli Stati Uniti sono all’ottavo posto e l’Italia si trova al diciassettesimo, subito dopo la Francia e seguita a ruota dalla Gran Bretagna. Le ultime posizioni sono occupate dai Paesi africani più poveri: Niger, Mali, Sierra Leone. Il rapporto sullo sviluppo umano 2007 sarà diffuso il prossimo 27 novembre, ma intanto prosegue la ricerca di nuovi e più efficaci criteri per misurare il benessere, riferendosi anche alle condizioni dell’ambiente e della sicurezza. Nel suo libro Dacrema cita il Genuine progress indicator (Gpi), che distingue le spese positive da quelle negative, «come i costi relativi alla criminalità, all’inquinamento, agli incidenti stradali».

«Corriere della sera» del 27 ottobre 2007

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