27 novembre 2007

Manifesto nuovo. No, anzi, vecchietto

La bioetica laica ferma all’Illuminismo
di Francesco D’Agostino
È un paradosso, ma non è certo per la sua novità che merita attenzione il 'nuovo' Manifesto di Bioetica Laica, che è stato presentato domenica a Torino nel Salone della Casa Valdese. Le argomentazioni su cui esso si fonda, infatti, sono quelle, obiettivamente un po’ vecchiotte, di una cultura laicista, che sembra essersi fermata alla lettura degli illuministi francesi e anglosassoni: tutto quanto è venuto dopo (il kantismo, l’idealismo, il marxismo, il personalismo e la tradizione del pensiero politico cattolico, il comunitarismo, il neocontrattualismo, le provocazioni di Habermas, ecc. ecc.) per i firmatari del Manifesto è come se non sia mai esistito. Si dirà: in un manifesto, per definizione sintetico, non si può dire tutto. Certamente; il problema è che quello che comunque vi viene detto è insopportabilmente semplicistico. Si richiama la libertà come valore supremo: questo principio lo condividiamo tutti. Sfugge però ai nostri firmatari che una cosa è la libertà come principio giuridico, altra la libertà come principio etico e politico. La libertà giuridica delinea l’ambito della liceità, la libertà etico­politica quello del bene (individuale o collettivo). È doveroso affermare che lo Stato deve rispettare tutte le scelte individuali, quando non siano socialmente dannose e che esattamente in questo consiste la sua laicità; altrettanto doveroso però (ma questo sfugge ai firmatari del Manifesto) è sostenere che lo Stato – una volta garantito il rispetto di tutti gli stili di vita non nocivi che possono darsi nella società – ha non solo l’interesse, ma il dovere di promuovere quegli stili di vita che potenziano il miglior ordine sociale, che arricchiscono la cultura e la scienza, che favoriscono la migliore conoscenza tra i popoli, che contribuiscono al diffondersi a livello mondiale di uno spirito di pace, anziché di competizione o peggio di conflitto. In breve: in uno Stato laico gli uomini 'egoisti' possono pur rivendicare l’insindacabilità della loro personale visione del mondo, ma non possono pretendere che sia considerata una violazione della laicità il fatto che lo Stato promuova e favorisca pratiche civili di carattere solidaristico. Se una qualche attenzione questo 'nuovo' Manifesto la merita, è perché ci fornisce un buon esempio di una bioetica 'ideologica', che si illude di trovare nel 'vietato vietare' il principio che possa risolvere 'laicamente' le questioni più scottanti in tema di aborto, eutanasia, procreazione eterologa, sperimentazione sugli embrioni, ecc. ecc... Non è così: quelle infatti che i firmatari del Manifesto denunciano come norme repressive non sono che l’altra faccia di quella solidarietà relazionale in cui si radicano tutti, ma proprio tutti i problemi bioetici. Dire di no all’aborto non è attentare all’autodeterminazione delle donne, ma prendere sul serio le spettanze del nascituro.
Limitare la procreazione assistita non è negare il diritto a un figlio, ma operare perché i figli nascano nel contesto familiare per loro ottimale.
Dire di no all’eutanasia non significa togliere al singolo il diritto di autodeterminarsi, ma combattere la deriva della burocratizzazione del morire che si sta imponendo nel nostro mondo.
Siamo tutti contro lo Stato etico e pretendiamo quindi tutti che non ci siano intromissioni pubbliche nella sfera privata degli individui; ma le questioni bioetiche (tranne alcuni rari casi) non sono mai questioni 'private', ma questioni 'relazionali' e la loro gestione non si risolve nel riduttivo confronto tra lo Stato e il singolo, ma nella ben più ampia dialettica Stato-società civile. Sono anni che queste tematiche sono discusse dai bioeticisti 'post-illuministi': possibile che non se ne trovi traccia in un Manifesto sottoscritto da tante firme, anche molto prestigiose?
«Avvenire» del 27 novembre 2007

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