27 novembre 2007

L’amore per la cultura ai tempi del profitto

Le esigenze economiche possono coniugarsi con la crescita civile. La sfida delle banche
Di Giovanni Bazoli

Si intitola «Finanza e cultura. Il ruolo delle banche nei confronti del patrimonio culturale » l’intervento del presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, letto ieri nella giornata di apertura dell’anno accademico 2007-2008 dello Iulm, Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano. Ne pubblichiamo uno stralcio.

A partire dagli Anni Novanta una serie di scelte operate dal legislatore - si pensi al venir meno della specializzazione funzionale degli intermediari, alla creazione delle fondazioni di origine bancaria, alle conseguenti privatizzazioni - hanno profondamente modificato la fisionomia delle banche italiane; soprattutto, hanno contribuito all'affermarsi di una logica imprenditoriale imperniata sulla ricerca del profitto e del massimo incremento di valore per gli azionisti. Alla luce di tali radicali trasformazioni, sorge spontaneo un interrogativo: la grande tradizione degli interventi a favore della cultura ha ancora ragione di essere? Esiste ancora uno spazio per gli interventi a sostegno e tutela del patrimonio culturale?
Dev'essere assolutamente chiaro che la piena equiparazione delle banche alle imprese - con le implicazioni che ne derivano in tema di assunzione dei rischi e di allargamento degli spazi di libertà e di concorrenza - costituisce un approdo necessario, raggiunto perfino tardivamente nel nostro Paese. Si va tuttavia affermando una tendenza che del passato potrebbe cancellare non solo gli aspetti negativi, ma anche alcune caratteristiche feconde: mi riferisco alla propensione a negare ogni peculiarità distintiva delle imprese bancarie rispetto a ogni altra azienda.
Derivano da qui alcuni diffusi orientamenti che non tengono conto della natura complessa dell'attività creditizia e degli interessi generali che a essa si collegano: orientamenti che possono indurre a considerare in modo meramente strumentale elementi in passato compenetrati alla creazione di utili economici, quali i legami con il territorio, il valore delle tradizioni e, più in generale, il perseguimento di obiettivi di ordine civile.
In un'ottica di massimizzazione del profitto, l'unica via che sembra ammessa per dare risposta alle istanze del territorio e della società civile pare essere quella delle sponsorizzazioni: un fenomeno che può essere, a seconda dei punti di vista, apprezzato o criticato. Certo, la scelta dei beni da restaurare risulta spesso influenzata dall'idea del monumento o del quadro-simbolo e gli interventi sono apparsi talora occasionali, non supportati da una adeguata analisi e pianificazione degli obiettivi. Solo in tempi recenti si è potuto riscontrare un affinamento della sensibilità, grazie a un più stretto rapporto tra aziende e Soprintendenze e a un ascolto più avvertito dei bisogni del territorio. A parte queste considerazioni, la forma della sponsorizzazione incontra però un limite importante nel fatto che la scelta degli investimenti da finanziare dovrebbe rispondere esclusivamente al metro del cosiddetto «ritorno in termini economici».
Ma è fondato credere che importanti e costosi investimenti nel settore culturale possano giustificarsi esclusivamente in base a motivazioni di immagine? Quali altre ragioni possono altrimenti legittimare un istituto di credito a farsene carico? A questo punto il discorso dovrebbe spaziare ben oltre il settore bancario per considerare le problematiche poste dalla vorticosa crescita dei sistemi economici che ubbidiscono alla logica imperiosa del mercato. È cioè il tema delle criticità e dei rischi di involuzione che il mercato comporta, se lasciato a sé stesso e alle sue dinamiche utilitaristiche. Di conseguenza, è un'esigenza di etica, di equità, di attenzione a tutti i soggetti coinvolti nell'attività economica, che si impone all'interno dello stesso processo produttivo.
Oggi, peraltro, si sta facendo strada la consapevolezza che occorra innestare nel processo economico altri valori. È un'esigenza che si pone per tutte le aziende, ma in modo tutto particolare per quelle bancarie. Io ritengo infatti che alle banche debba riconoscersi certamente natura di imprese, ma con caratteristiche speciali e che alle stesse spetti una responsabilità maggiore verso la società civile e la comunità di appartenenza: la responsabilità di far crescere intorno a sé stesse un'economia sostenibile.
E qui ritorno a un tema prima solo sfiorato, ossia al ruolo civile e culturale svolto dalle banche che sono confluite nel gruppo Intesa San Paolo. Le origini di queste istituzioni muovevano dalla sensibilità verso l'interesse generale: sostenendo o realizzando iniziative culturali e di utilità comune, contribuendo al benessere non solo materiale della collettività, in un contesto fortemente caratterizzato sul piano del mutualismo. Si intravedevano sin da allora i primi sintomi di quella che attualmente viene definita come Corporate Social Responsibility (responsabilità sociale d'impresa), che identifica nella crescita sostenibile del sistema imprenditoriale il postulato della gestione aziendale.
In più di un'occasione ho avuto modo di sostenere - l'ultima volta con riferimento all'opera di Giordano Dell’Amore, indimenticato presidente della Cariplo, come l'interesse generale fosse conciliabile con quello aziendale. In questa sede voglio richiamare il medesimo concetto, anche alla luce di un recente saggio su Raffaele Mattioli. Da tale saggio emerge una figura di Mattioli per certi versi inedita e sorprendente; quella di un banchiere che, nei suoi distinti campi d'azione (quello della banca, quello dei rapporti con il mondo politico e quello dei suoi interventi nel mondo della cultura) si faceva guidare proprio dal concetto di interesse generale. Questo non sta a significare che egli disdegnasse la categoria del profitto, dato che ha sempre e dichiaratamente applicato a una banca pubblica come la Comit dei normali criteri «privatistici». Egli era pienamente convinto che il conseguimento del profitto e un bilancio in utile fossero condizioni necessarie per ogni sana gestione d'impresa.
Ma tutto questo, pur se necessario, non era sufficiente. Colpiscono le parole indirizzate a Togliatti, in una lettera del 1947 nella quale Mattioli riteneva indispensabile che il Partito comunista tornasse al governo (cosa poi non accaduta) partecipando all'opera di risanamento. Il banchiere suggeriva al politico che «la sana finanza non è un interesse reazionario..., è un interesse nazionale - di tutta la nazione - e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige, e che più devono tenere a che finalmente, dopo i lunghi anni di trattenimenti vari sulla loro pelle, lo Stato sia amministrato in modo tale da tutelare le loro riserve ed esigenze vitali».
Credo che anche oggi le banche debbano privilegiare una modalità di gestione improntata a grande sensibilità e attenzione nei confronti del territorio vivo in cui operano, dimostrando che le esigenze di ordine tecnico ed economico dell'impresa possono ben coniugarsi con le istanze di crescita civile e culturale delle comunità. In altre parole io sono convinto che un'impostazione aperta, vorrei dire generosa, del rapporto con il contesto sociale - che non coincide necessariamente con il mondo della clientela - risulti per una banca più produttiva e feconda, nel tempo, rispetto a una gestione del credito esclusivamente improntata alla ricerca del massimo valore per gli azionisti.
La sfida per le banche è quella di dimostrare che c’è spazio non solo per scelte più generose nella redistribuzione degli utili, ma anche per aperture coraggiose all’interno della tradizionale attività bancaria di erogazione del credito: come, ad esempio, quella appena avviata di una banca interamente dedicata al mondo delle imprese sociali (una banca cioè creata per sostenere con il credito le migliori iniziative non profit e, tra queste, esplicitamente anche la diffusione della cultura e la fruizione e la protezione dell’ambiente e dell’arte).
«La Stampa» del 23 novembre 2007

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