06 novembre 2007

Il confine della tolleranza

di Edoardo Castagna
Prima di disquisire di tolleranza, è indispensabile piantare qualche paletto. E definire ciò che in nessun caso si può tollerare. Tzvetan Todorov, il linguista, storico e filosofo franco­bulgaro che ieri a Milano ha partecipato al faccia a faccia «Ricordare» – con Edoardo Boncinelli al Teatro Dal Verme, per il ciclo «La parola contesa»–, non è tipo da rifugiarsi negli oliati meccanismi delle frasi fatte e del politicamente corretto. E precisa: «La sola possibilità di avere tolleranza è che ci sia un qualche accordo su ciò che è intollerabile. Senza un tale accordo, tolleranza significa indifferenza».
In questi giorni in Italia si assiste a una diffusa insofferenza contro alcune minoranze – i Rom di passaporto romeno, soprattutto – in seguito a gravi crimini commessi da alcuni loro esponenti...
«La legge deve essere applicata. Se una persona commette un crimine, la cosa non può essere affrontata in termini di tolleranza. Per quel che riguarda quanto sta avvenendo in Italia, credo che in questi casi ogni Stato ha non solo il diritto, ma anche il dovere di difendere i suoi cittadini e tutti i residenti sul suo territorio. D’altra parte, anche al di là della sfera criminale non ogni comportamento umano è sempre ritenuto tollerabile. Mi viene in mente un altro caso di cronaca italiana, quello del padre pachistano che ha ucciso la figlia perché troppo 'occidentalizzata': ecco un chiaro esempio di intolleranza verso qualcosa che non è nemmeno lontanamente criminale. È importante che i migranti in tutto il mondo accettino un principio: che la legge si impone al di sopra dei costumi. Per fortuna, di norma è così: è la tradizione delle grandi religioni, dall’ebraismo all’islam, ad affermare come si debbano rispettare le leggi del Paese in cui si vive».
Tutto si riduce a un problema di legalità, allora?
«Non solo. Certo, va sempre ribadito che le leggi non si transigono. Ma non basta. A volte dobbiamo essere attenti anche a non urtare i sentimenti delle persone: senza per questo essere criminali, alcune azioni possono ferire gli altri, soprattutto le umilianti insinuazioni contro certi gruppi. Anche questo non può essere tollerato: non perché la legge lo proibisce, ma perché è meglio per la vita comunitaria dell’intera società».
Lei ha spesso invoca un «ritorno dei Lumi». È compatibile con il risorgere del senso del sacro che stiamo osservando in Occidente?
«È in atto un’evidente ricerca di spiritualità, sia in Europa sia negli Stati Uniti – anche se in forme diverse. Non credo che un essere umano possa vivere senza un riferimento a una dimensione spirituale, e in questo senso si tratta di una necessità. Ma una necessità che non si oppone affatto a quella di un nuovo Illuminismo, che non è per nulla anti-religioso, bensì a favore della libertà di coscienza. Questi nuovi Lumi si limitano a indicare alcuni valori che sono validi per gli uomini anche se si riferissero esclusivamente a se stessi, senza necessariamente richiamarsi al trascendente sopra di sé. D’altra parte, questa stessa possibilità è stata preparata dalla dottrina cristiana, che frequentemente – per esempio, nelle Lettere di san Paolo – ha ribadito che amare Dio non è altro che amare il proprio prossimo».
Ma che ruolo ha ancora la memoria, nel mondo moderno?
«Oggi la memoria è più importante che mai, perché senza memoria non esiste identità, sia individuale che collettiva. Se un individuo è privato della sua memoria, la sua identità è distrutta. E noi non possiamo vivere senza identità».
E questo vale anche per l’identità nazionale?
«In questo caso si tratta di un’identità mobile, costantemente ricostruita perché le nazioni si rimodellano continuamente – solo le civiltà scomparse rimangono sempre identiche a se stesse. È un principio difficile da adottare, e spesso si assiste a tentativi di 'difendere' la propria identità nazionale. Ma io non credo che sia difendibile: occorre accettare il fatto che è mutevole. Dall’inizio del XX a quello del XXI secolo l’identità italiana, francese o tedesca sono cambiate enormemente, e continuano a cambiare. Il che è un segnale di buona salute».
Possiamo sperare nella nascita di un’identità europea, paragonabile a quella degli Stati-nazione?
«Noi abbiamo bisogno di un’identità europea, ma non sarà affatto simile a quella nazionale. E questo perché l’identità nazionale non scomparirà all’interno di un’identità europea: noi rimarremo italiani, francesi o tedeschi, oltre che europei. L’identità europea sarà un modo di accettare la pluralità. Vivere insieme in modo differente: è questo ciò che costituirà l’identità europea. È una cosa nuova, perché nessun altra grande potenza mondiale fonda se stessa sull’accettazione della differenza. Così l’Europa ha la grande opportunità di mostrare al resto del mondo che questo è possibile».
«Avvenire» del 6 novembre 2007

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