06 novembre 2007

Da Orwell a Montale: quegli scrittori «politici» senza firmare appelli

Se l’energia della letteratura viene sopraffatta dall’intenzione, la poesia muore
di Paolo Di Stefano
Una serie di coincidenze ha riportato alla ribalta il tema dell’impegno degli scrittori. Argomento rispetto al quale il Piccolo Fratello non può certo rimanere indifferente visto che il suo creatore indiretto, George Orwell, è considerato tra i maggiori scrittori politici del Novecento. La discussione è stata aperta da Orhan Pamuk, secondo cui «mettersi al servizio di una causa distrugge la letteratura». Il giorno dopo, un altro premio Nobel, Doris Lessing ribadiva più o meno il concetto espresso da Pamuk, ma con maggiore prudenza: «Non ho mai pensato che un romanzo debba essere un manifesto politico». Ciò non ha impedito alla Lessing, nei giorni successivi, di proclamare il suo odio contro Blair e di ridurre il significato dell’11 settembre: «Ripercorrendo la storia dell’Ira, gli attentati delle Torri Gemelle non sono poi così tremendi». A proposito di letteratura e politica, sul Corriere sono poi intervenuti Pierluigi Battista e Claudio Magris. Quando si dice «scrittori politici», come nel caso di Orwell, si intende scrittori che hanno a che fare con la politica non perché si mettano a firmare appelli e manifesti o perché frequentino direttamente, fisicamente, la politica, ma perché finiscono per toccare nelle loro opere temi civili, sociali, politici anche quando hanno orrore della politica. Un bel saggio del belga Simon Leys si intitola quasi paradossalmente Orwell ovvero l’orrore della politica. Per capire che cosa significa quell’«orrore» per uno scrittore «politico» come Orwell basterebbe leggere il volume Diari di guerra, appena uscito da Mondadori. Vi si trova, tra l’altro, il celebre saggio Il leone e l’unicorno, in cui Orwell prova a tracciare le linee di un socialismo inglese in risposta alla minaccia nazista. L’incipit è da incorniciare: «Mentre io scrivo, esseri umani altamente civilizzati mi stanno volando sopra la testa cercando di uccidermi. Non nutrono alcuna inimicizia verso di me come individuo, né io verso di loro. Stanno "solo facendo il proprio dovere" (...). D’altro canto, se uno di loro riuscirà a farmi a pezzi con una bomba ben piazzata, non ne avrà il sonno rovinato». Orwell, si diceva, è considerato uno dei maggiori scrittori «politici». Chissà se Orhan Pamuk e Doris Lessing lo amano. Forse no, forse sì. Fatto sta che in quell’incipit, pur trattandosi di un saggio, miracolosamente leggiamo lo scrittore ben prima dell’analista politico. Nessun manifesto, nessuna causa da difendere. È impressionante come nello stesso giro d’anni un «impolitico» per eccellenza, come Eugenio Montale, abbia saputo dire, da poeta, lo stesso identico concetto. Basta aprire La bufera e soffermarsi su «Gli orecchini»: «Ronzano èlitre fuori, ronza il folle / mortorio e sa che due vite non contano». Era lo stesso Montale che avrebbe confessato con molta onestà: «Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neanche ho scritto poesie in cui quella pseudo-rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime di allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure se il rischio fosse stato minino o nullo». Sembra incredibile che due temperamenti così diversi come il «politico» Orwell e l’«impolitico» Montale possano mostrare la stessa sensibilità civile e umana, al punto da utilizzare un’immagine identica e parole molto simili. Il fatto è che in un caso e nell’altro l’energia della letteratura non viene mai sopraffatta dall’intenzione: quando ciò, viceversa, accade, la poesia muore. L’ha detto da par suo il grande critico Edmund Wilson a proposito di Hemingway: da quando cominciò a preoccuparsi di costruirsi, con i suoi libri, una personalità politica, da quando cominciò a cedere a «sogni fanciulleschi a occhi aperti» che piacevano molto al Cremlino, produsse solo opere «eccezionalmente sciocche».
«Corriere della sera» del 30 ottobre 2007

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