28 novembre 2007

E lo scienziato si arrese all’anima

di Andrea Lavazza
«Mi considero un neuroscienziato 'spirituale'. Nella mia prospettiva, l’anima si riferisce all’essenza 'non fisica' della persona che si manifesta come coscienza, pensiero, sentimenti e volontà. Questa parte spirituale dell’essere umano continua a esistere dopo la morte fisica del corpo». Mario Beauregard, ricercatore dell’Università di Montréal, ha appena pubblicato un libro divulgativo che già dal titolo ( The Spiritual Brain. A Neuroscientist’s Case for the Exi­stence of the Soul) sfida le convinzioni dif­fuse tra i suoi colleghi. E sta prepa­rando un volume rivolto agli addetti ai lavori contro la visione materialistica dell’uomo.
Perché la maggior parte dei neuro­scienziati nega l’esistenza dell’anima?
«Le neuroscienze sono lo studio del cervello nei suoi vari livelli di orga­nizzazione, con un’impostazione necessariamente materialistica e naturalistica. Perciò quasi tutti gli studiosi ritengono che la loro ricerca non abbia nulla a che fare con l’anima, perché essa rappresenta l’aspetto 'non materiale', mentre il materialismo costituisce la tesi metafisica di base. Di conse­guenza, le funzioni mentali superiori, la coscienza e il sé possono ridursi a processi neurochimici e neuroelettrici. E anche le esperienze religiose, spirituali e mistiche (Ersm) diventano sottoprodotti dell’attività cerebrale. In questa cornice ideologica, l’anima è semplicemente un’illusione».
Che cos’è allora il 'cervello spirituale' del titolo del suo libro?
«Sono le strutture e le reti cerebrali coinvolte in vari tipi di Ersm. Il concetto è legato alle 'neuroscienze spirituali', un nuovo ambito di ricerca all’incrocio tra psicologia, religione, spiritualità e neuroscienze. Il principale obiettivo è quello di esplorare le basi neuronali delle Ersm. È decisivo, però, sottolineare che la comprensione del substrato neuronale di tali esperienze non diminuisce, né svaluta il loro significato e il loro valore».
A questo proposito, Lei ha condotto ricerche su un gruppo di suore cattoliche...
«Abbiamo usato la risonanza magnetica funzionale per misurare l’attività cerebrale di alcune carmelitane durante lo stato soggettivo di unione mistica con Dio. Il punto di partenza era l’ipotesi, avvalorata da studi su persone epilettiche intensamente religiose, che il lobo temporale fosse la specifica area del cervello asso­ciata alle esperienze di fede. I nostri risultati dicono, al contrario, che sono attive almeno dodici zone diverse dell’encefalo durante le fasi di estasi mistica. Zone che normalmente vengono coinvolte in varie funzioni, dalla percezione alle emozioni alla rappresentazione corporea. Ciò contraddice l’idea di un’'area di Dio' specificamente localizzata».
Ci sono prove scientifiche dell’esistenza dell’anima?
«Non ancora. Tuttavia, esistono alcuni dati aneddotici relativi a casi di esperienze di quasi-morte (Nde). Quello della cantante americana Pam Reynolds è il più noto, e inspiegabile secondo la scienza materialistica. Nel 1991, le fu diagnosticato un grande aneurisma cerebrale inoperabile. Il neurochirurgo Robert Spetzler di Phoenix propose di tentare con la tecnica dell’arresto cardiaco ipotermico: alle basse tempe­rature agire sui vasi è più agevole, mentre i tessuti possono resistere più a lungo senza ossigenazione. La Reynolds accettò il rischio. Durante l’intervento, la si poteva considerare 'morta': il suo cuore fu fermato e il suo elettroencefalogramma divenne piatto. Il tronco encefalico, responsabile delle funzioni automatiche, e i suoi emisferi cerebrali non davano più risposte, mentre la temperatura corporea scese a 22 gradi. A quel punto, i medici aprirono il cranio con una sega speciale. Successivamente, Pam riferì che in quel preciso momento si sentì proiettata fuori del corpo e fluttuante sul tavolo operatorio. Ma la cosa più notevole è che raccontò nei dettagli l’intervento (che non conosceva) e quello che diceva l’équipe in azione. Infine, entrò in un tunnel, al cui termine vide una luce calda, e sperimentò un’unione della propria anima con Dio.
Il caso è importante perché tutto accadde mentre la paziente era 'clinicamente morta' e ciò era certificato da persone esperte dotate di strumenti precisi; inoltre, Pam raccontò fatti verificabili che non avrebbe potuto sapere se non fosse stata cosciente nel momento in cui avvenivano ».
Tutto ciò che cosa dimostrerebbe?
«Innanzitutto, indica che la mente, la coscienza e il sé possono prolungare la loro esistenza quando il cervello è totalmente 'spento' e si è in presenza di morte clinica. In secondo luogo, in quelle condizioni, si hanno comunque le Ersm. E ci si può perfino spingere ad affermare, sulla base di molti altri racconti diffusi in tutto il mondo e in tutte le culture, che abbiamo la possibilità di connetterci, a livello mentale, con una coscienza superiore, cosicché i nostri atti mentali diventano distinti dal cervello, sebbene osservabili per mezzo di esso».
Le neuroscienze che cosa possono dire sulla religione?
«Le tecniche di visualizzazione del cervello possono mostrarci che cosa avviene nel cervello – dal punto di vista chimico ed elettrico – durante le esperienze religiose, spirituali e mistiche. Tuttavia, queste informazioni non ci dicono nulla circa la fenomenologia di tali esperienze (la prospettiva di prima persona; l’oggetto cui si riferiscono). Inoltre, la realtà esterna di Dio non può essere né confermata né smentita dall’individuazione dei correlati neuronali delle Ersm. Ecco perché, a mio parere, non ha senso parlare di neuroteologia».
Ricapitolando, quali sono gli argomenti contro un’interpretazione strettamente materialistica della mente?
«La scienza che adotta questa prospettiva è costretta a negare o a respingere o a cerca­re di dissolvere tramite una spiegazione tutti i fenomeni che sfidano il materialismo. E si tratta di una mole crescente che, oltre alle esperienze di quasi-morte, comprende anche l’effetto placebo (modificazioni fisiologiche indotte dalla semplice credenza di aver assunto una sostanza,
ndr). Soltanto una prospettiva non materialistica può offrire spiegazioni scientifiche di questi fenomeni elusivi, che la ricerca attuale accantona».
«Avvenire» del 28 novembre 2007

Laïcité, si volta pagina

di Lorenzo Fazzini
Se non si rischiasse di passare per irriverenti, sarebbe ora di gridare – evangelicamente – sui tetti che il modello di netta separazione tra Stato e religioni deve essere superato da una 'benedetta ingerenza'. Il perché è presto detto: vi è chi autorevolmente sostiene che non sono le tradizioni religiose a «minacciare gli Stati (almeno in Occidente), perché sono proprio questi ultimi a manifestare gravi segnali di debolezza e di impotenza quando devono regolare i segni di violenza che non cessano di minacciare le nostre società, come le ingiustizie, le esclusioni, la crisi del sistema educativo, il saccheggio dell’ambiente». Detto con una metafora, devono esserci più ingredienti religiosi nel menù della politica contemporanea, se questa vuole districarsi nei meandri dell’attuale condizione attuale. E in tutto ciò il cristianesimo rappresenta un’anomalia feconda e un 'messaggio rivoluzionario' valido anche per il XXI secolo, perché lungi dall’esaurirsi nella distinzione tra le cose di Dio e gli affari di Cesare, esso offre un orizzonte di 'alterità' – riassumibile nel concetto dinamico di 'regno di Dio' – che libera la politica dalla ristrettezza dei propri riferimenti. A argomentare tale tesi è un pensatore di razza, Paul Valadier, gesuita francese, direttore degli Archives de philosophie, docente di Filosofia politica al prestigioso Centre Sèvres di Parigi. Valadier ha condensato queste riflessioni nel libro Détresse du politique, force du religieux ('Debolezza del politico, forza del religioso'), pubblicato di recente da Seuil (pagine 298, euro 22,00). Si tratta di un vigoroso saggio in cui la tematica del rapporto tra sfera politica e dimensione religiosa viene tratteggiata in quella modalità innovativa ormai assodata negli Stati Uniti, ma che nel Vecchio Continente fatica ancora ad affermarsi. È singolare che la proposta di Valadier provenga dalla Francia, la République patria di una laicità spesso scivolata nel laicismo.
Già, perché annota il nostro, il rischio attuale non è l’ingerenza delle fedi nella res publica, quanto – la storia del Novecento lo dimostra con ampiezza di testimonianze – il predominio tirannico ieri, oggi relativista, della politica: «Al contrario del XVI secolo, la fonte della violenza nel XX secolo è venuta da parte degli Stati, tra i quali alcuni, mossi dall’ideologia, erano dominati da una forma di oppressione totalitaria molto peggiore di quella che le religioni hanno mai introdotto nella storia». Ma è all’oggi che Valadier – attraverso un excursus filosofico che partendo da Platone e Agostino, e passando per Machiavelli e Locke, approda ad Habermas – volge l’attenzione. Appunto per 'difendere' la politica dalla propria assolutizzazione, che scadrebbe in una democrazia puramente procedurale, il gesuita invoca il ritorno in campo di quella 'saggezza religiosa' che può diventare prezioso pungolo verso una dimensione pienamente umanistica della politica. Un esempio? Ecco «l’universalismo cristiano», il quale per Valadier è apportatore di «un’unità essenziale del genere umano che proviene da un legame religioso fondamentale, propri quando si stanno imponendo tutta una serie di differenze (razziali, etniche, sessuali, politiche, culturali…)». Con un riferimento trascendente – a questo aspetto è dedicata l’ultima sezione del libro, inesauribile 'miniera' di interessanti spunti intellettuali – la politica può vincere la tentazione del relativismo culturale. Per rifarsi all’esempio precedente, l’universalismo cristiano «obbliga a considerare l’umanità come un corpo solidale con la creazione. Le conseguenze politiche ed etiche sono ben chiare se si oppone questa visione all’universalismo livellatore che, dimenticando tutte le diversità, non vede per nulla le differenze tra l’umanità e le altre speciale animali o la natura». Valadier snocciola ulteriori dimensioni sociali in cui questo nuovo legame tra religioni e politica deve esplicarsi.
Affronta il tema dell’educazione, che deve liberarsi da quella visione statalista (e un po’ 'totalitaria') in cui l’aveva relegata la laicité alla francese, secondo il modello dell’ex presidente transalpino Jacques Chirac, secondo il quale «l’educazione è il santuario della Repubblica»: «Il legame tra scuola e Repubblica ha bloccato la scuola su se stessa e l’ha tagliata fuori rispetto alla società civile», denuncia Valadier. Ma è soprattutto nel rapporto con i sistemi democratici che le tradizioni religiose hanno ancora – argomenta l’intellettuale parigino – un incarico significativo: «Il ruolo delle religioni è di mantenere aperta la trascendenza. Il cristianesimo, rivolgendosi alla libertà che esso costruisce, la stimola e la provoca ponendo in primo piano la legge della carità e l’invito al rispetto dell’uomo nella sua interezza, in modo particolare il più povero».
«Avvenire» del 28 novembre 2007

27 novembre 2007

A chi non piacciono le staminali riprogrammate?

Mentre il Times parla di "scoperta rivoluzionaria", i nostri giornali preferiscono relegare la notizia in posizione defilata
di Marina Corradi
È strano. La notizia delle due ricerche che in Giappone e in America hanno prodotto cellule staminali pluripotenti, molto simili a quelle embrionali, senza distruggere embrioni ma partendo invece da tessuti adulti, per il Times di ieri valeva l’apertura della prima pagina: «Cellule staminali, un passo avanti», titola a tutta pagina. E i giornali italiani cosa hanno fatto? Repubblica, un titolino schiacciato in basso in prima, per il resto chi vuole vada a pagina 23, se gliene resta il tempo dopo tre pagine fitte di cronaca sull’arresto del quarto uomo di Perugia, cui va anche il titolone di prima. Il Corriere ha scritto di staminali domenica, e basta, abbiamo già dato. La Stampa infila la notizia nell’inserto di Scienze, cioè a dire dove si mettono in genere le comete, e le migrazioni dei pinguini, temi interessantissimi ma senza immediata ricaduta sulla nostra quotidianità.
L’Unità piazza la scoperta a pagina otto, in basso, in gergo giornalistico 'a piede', ma almeno la mette. Per il compassato Times quello delle staminali è un «breakthrough», una conquista da prima pagina. Le Ips – Induced pluripotential cells – ottenute facendo regredire cellule adulte potrebbero un giorno essere riprogrammate per formare 200 tipi di tessuto diverso, senza i problemi derivanti dal rigetto, giacché proverrebbero dall’organismo dello stesso paziente. Senza clonare e distruggere embrioni. Una miniera di pezzi di ricambio, forse l’inizio della cura per malattie di cui non c’è, oggi, alcuna cura. Ma i giornali italiani non si scompongono. Pagina 23, o inserto scienze, assieme alle comete.
È strano, davvero. Certo, la tecnica giap­ponese è lontana dall’applicazione terapeutica, perché per fare regredire la cellula adulta si sono usati retrovirus cancerogeni. D’altra parte, anche le staminali embrionali 'autentiche' con la loro totipotenza ponevano forti rischi proliferativi, ciò che non ha impedito di investirci, di sperare e di titolare a ripetizione, senza avere ottenuto una sola applicazione terapeutica in 10 anni. Se uno come Ian Wilmut, già autorizzato dalla Hfea britannica a clonare embrioni umani per la sua ricerca, dice 'grazie, ma io cambio strada', una ragione deve averla. Forse ne ha più di una: la scarsa reperibilità degli ovociti femmili necessari a questa ricerca – solo in Roma­nia le donne sono disposte a donare ovuli in cambio di un pezzo di pane – a fronte della facilità del reperimento di tessuti adulti. La speranza, grande, di avere un giorno tessuti naturalmente compatibili con quelli del malato. Di avere i 'pezzi' giusti per ogni paziente – senza toccare embrioni.
Dice bene il Times, una conquista. Ma gli stessi giornali che prima del referendum del 2005 ripetevano ossessivamente, e ignorando del tutto le obiezioni di autorevoli ricercatori, che per sconfiggere le malattie neurodegenerative occorreva usare gli embrioni, sulla svolta di oggi fanno understatement. Gli editorialisti che avvertivano severi che perdere la corsa dei brevetti sulle staminali embrionali avrebbe affossato la ricerca scientifica in Italia, ora non scrivono.
Come mai è più franco nel dichiarare il cambio di rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché è uno scienziato, e, preso atto di una strada più promettente e facilmente praticabile, nel confronto con la realtà cambia idea. Chi è ideologico, invece, non guarda alla realtà: ha un suo schema cui deve restar fedele, anche se ciò che accade lo contraddice (Hannah Arendt: «L’ideologia è ciò che non vede la realtà»).
Fra degli anni, forse, con le Ips derivate dalla ricerca giapponese e mirate sui nostri tessuti nervosi bucati dall’Alzheimer cureranno noi, o i nostri figli. Sotto la storia del quarto uomo del delitto di Perugia, sui giornali del 21 novembre 2007 c’era una grande notizia, però non quella giusta. Una notizia fuori linea. «Un piede, pagina otto», disse il caporedattore.
«Avvenire» del 22 novembre 2007

Manifesto nuovo. No, anzi, vecchietto

La bioetica laica ferma all’Illuminismo
di Francesco D’Agostino
È un paradosso, ma non è certo per la sua novità che merita attenzione il 'nuovo' Manifesto di Bioetica Laica, che è stato presentato domenica a Torino nel Salone della Casa Valdese. Le argomentazioni su cui esso si fonda, infatti, sono quelle, obiettivamente un po’ vecchiotte, di una cultura laicista, che sembra essersi fermata alla lettura degli illuministi francesi e anglosassoni: tutto quanto è venuto dopo (il kantismo, l’idealismo, il marxismo, il personalismo e la tradizione del pensiero politico cattolico, il comunitarismo, il neocontrattualismo, le provocazioni di Habermas, ecc. ecc.) per i firmatari del Manifesto è come se non sia mai esistito. Si dirà: in un manifesto, per definizione sintetico, non si può dire tutto. Certamente; il problema è che quello che comunque vi viene detto è insopportabilmente semplicistico. Si richiama la libertà come valore supremo: questo principio lo condividiamo tutti. Sfugge però ai nostri firmatari che una cosa è la libertà come principio giuridico, altra la libertà come principio etico e politico. La libertà giuridica delinea l’ambito della liceità, la libertà etico­politica quello del bene (individuale o collettivo). È doveroso affermare che lo Stato deve rispettare tutte le scelte individuali, quando non siano socialmente dannose e che esattamente in questo consiste la sua laicità; altrettanto doveroso però (ma questo sfugge ai firmatari del Manifesto) è sostenere che lo Stato – una volta garantito il rispetto di tutti gli stili di vita non nocivi che possono darsi nella società – ha non solo l’interesse, ma il dovere di promuovere quegli stili di vita che potenziano il miglior ordine sociale, che arricchiscono la cultura e la scienza, che favoriscono la migliore conoscenza tra i popoli, che contribuiscono al diffondersi a livello mondiale di uno spirito di pace, anziché di competizione o peggio di conflitto. In breve: in uno Stato laico gli uomini 'egoisti' possono pur rivendicare l’insindacabilità della loro personale visione del mondo, ma non possono pretendere che sia considerata una violazione della laicità il fatto che lo Stato promuova e favorisca pratiche civili di carattere solidaristico. Se una qualche attenzione questo 'nuovo' Manifesto la merita, è perché ci fornisce un buon esempio di una bioetica 'ideologica', che si illude di trovare nel 'vietato vietare' il principio che possa risolvere 'laicamente' le questioni più scottanti in tema di aborto, eutanasia, procreazione eterologa, sperimentazione sugli embrioni, ecc. ecc... Non è così: quelle infatti che i firmatari del Manifesto denunciano come norme repressive non sono che l’altra faccia di quella solidarietà relazionale in cui si radicano tutti, ma proprio tutti i problemi bioetici. Dire di no all’aborto non è attentare all’autodeterminazione delle donne, ma prendere sul serio le spettanze del nascituro.
Limitare la procreazione assistita non è negare il diritto a un figlio, ma operare perché i figli nascano nel contesto familiare per loro ottimale.
Dire di no all’eutanasia non significa togliere al singolo il diritto di autodeterminarsi, ma combattere la deriva della burocratizzazione del morire che si sta imponendo nel nostro mondo.
Siamo tutti contro lo Stato etico e pretendiamo quindi tutti che non ci siano intromissioni pubbliche nella sfera privata degli individui; ma le questioni bioetiche (tranne alcuni rari casi) non sono mai questioni 'private', ma questioni 'relazionali' e la loro gestione non si risolve nel riduttivo confronto tra lo Stato e il singolo, ma nella ben più ampia dialettica Stato-società civile. Sono anni che queste tematiche sono discusse dai bioeticisti 'post-illuministi': possibile che non se ne trovi traccia in un Manifesto sottoscritto da tante firme, anche molto prestigiose?
«Avvenire» del 27 novembre 2007

L’amore per la cultura ai tempi del profitto

Le esigenze economiche possono coniugarsi con la crescita civile. La sfida delle banche
Di Giovanni Bazoli

Si intitola «Finanza e cultura. Il ruolo delle banche nei confronti del patrimonio culturale » l’intervento del presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, letto ieri nella giornata di apertura dell’anno accademico 2007-2008 dello Iulm, Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano. Ne pubblichiamo uno stralcio.

A partire dagli Anni Novanta una serie di scelte operate dal legislatore - si pensi al venir meno della specializzazione funzionale degli intermediari, alla creazione delle fondazioni di origine bancaria, alle conseguenti privatizzazioni - hanno profondamente modificato la fisionomia delle banche italiane; soprattutto, hanno contribuito all'affermarsi di una logica imprenditoriale imperniata sulla ricerca del profitto e del massimo incremento di valore per gli azionisti. Alla luce di tali radicali trasformazioni, sorge spontaneo un interrogativo: la grande tradizione degli interventi a favore della cultura ha ancora ragione di essere? Esiste ancora uno spazio per gli interventi a sostegno e tutela del patrimonio culturale?
Dev'essere assolutamente chiaro che la piena equiparazione delle banche alle imprese - con le implicazioni che ne derivano in tema di assunzione dei rischi e di allargamento degli spazi di libertà e di concorrenza - costituisce un approdo necessario, raggiunto perfino tardivamente nel nostro Paese. Si va tuttavia affermando una tendenza che del passato potrebbe cancellare non solo gli aspetti negativi, ma anche alcune caratteristiche feconde: mi riferisco alla propensione a negare ogni peculiarità distintiva delle imprese bancarie rispetto a ogni altra azienda.
Derivano da qui alcuni diffusi orientamenti che non tengono conto della natura complessa dell'attività creditizia e degli interessi generali che a essa si collegano: orientamenti che possono indurre a considerare in modo meramente strumentale elementi in passato compenetrati alla creazione di utili economici, quali i legami con il territorio, il valore delle tradizioni e, più in generale, il perseguimento di obiettivi di ordine civile.
In un'ottica di massimizzazione del profitto, l'unica via che sembra ammessa per dare risposta alle istanze del territorio e della società civile pare essere quella delle sponsorizzazioni: un fenomeno che può essere, a seconda dei punti di vista, apprezzato o criticato. Certo, la scelta dei beni da restaurare risulta spesso influenzata dall'idea del monumento o del quadro-simbolo e gli interventi sono apparsi talora occasionali, non supportati da una adeguata analisi e pianificazione degli obiettivi. Solo in tempi recenti si è potuto riscontrare un affinamento della sensibilità, grazie a un più stretto rapporto tra aziende e Soprintendenze e a un ascolto più avvertito dei bisogni del territorio. A parte queste considerazioni, la forma della sponsorizzazione incontra però un limite importante nel fatto che la scelta degli investimenti da finanziare dovrebbe rispondere esclusivamente al metro del cosiddetto «ritorno in termini economici».
Ma è fondato credere che importanti e costosi investimenti nel settore culturale possano giustificarsi esclusivamente in base a motivazioni di immagine? Quali altre ragioni possono altrimenti legittimare un istituto di credito a farsene carico? A questo punto il discorso dovrebbe spaziare ben oltre il settore bancario per considerare le problematiche poste dalla vorticosa crescita dei sistemi economici che ubbidiscono alla logica imperiosa del mercato. È cioè il tema delle criticità e dei rischi di involuzione che il mercato comporta, se lasciato a sé stesso e alle sue dinamiche utilitaristiche. Di conseguenza, è un'esigenza di etica, di equità, di attenzione a tutti i soggetti coinvolti nell'attività economica, che si impone all'interno dello stesso processo produttivo.
Oggi, peraltro, si sta facendo strada la consapevolezza che occorra innestare nel processo economico altri valori. È un'esigenza che si pone per tutte le aziende, ma in modo tutto particolare per quelle bancarie. Io ritengo infatti che alle banche debba riconoscersi certamente natura di imprese, ma con caratteristiche speciali e che alle stesse spetti una responsabilità maggiore verso la società civile e la comunità di appartenenza: la responsabilità di far crescere intorno a sé stesse un'economia sostenibile.
E qui ritorno a un tema prima solo sfiorato, ossia al ruolo civile e culturale svolto dalle banche che sono confluite nel gruppo Intesa San Paolo. Le origini di queste istituzioni muovevano dalla sensibilità verso l'interesse generale: sostenendo o realizzando iniziative culturali e di utilità comune, contribuendo al benessere non solo materiale della collettività, in un contesto fortemente caratterizzato sul piano del mutualismo. Si intravedevano sin da allora i primi sintomi di quella che attualmente viene definita come Corporate Social Responsibility (responsabilità sociale d'impresa), che identifica nella crescita sostenibile del sistema imprenditoriale il postulato della gestione aziendale.
In più di un'occasione ho avuto modo di sostenere - l'ultima volta con riferimento all'opera di Giordano Dell’Amore, indimenticato presidente della Cariplo, come l'interesse generale fosse conciliabile con quello aziendale. In questa sede voglio richiamare il medesimo concetto, anche alla luce di un recente saggio su Raffaele Mattioli. Da tale saggio emerge una figura di Mattioli per certi versi inedita e sorprendente; quella di un banchiere che, nei suoi distinti campi d'azione (quello della banca, quello dei rapporti con il mondo politico e quello dei suoi interventi nel mondo della cultura) si faceva guidare proprio dal concetto di interesse generale. Questo non sta a significare che egli disdegnasse la categoria del profitto, dato che ha sempre e dichiaratamente applicato a una banca pubblica come la Comit dei normali criteri «privatistici». Egli era pienamente convinto che il conseguimento del profitto e un bilancio in utile fossero condizioni necessarie per ogni sana gestione d'impresa.
Ma tutto questo, pur se necessario, non era sufficiente. Colpiscono le parole indirizzate a Togliatti, in una lettera del 1947 nella quale Mattioli riteneva indispensabile che il Partito comunista tornasse al governo (cosa poi non accaduta) partecipando all'opera di risanamento. Il banchiere suggeriva al politico che «la sana finanza non è un interesse reazionario..., è un interesse nazionale - di tutta la nazione - e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige, e che più devono tenere a che finalmente, dopo i lunghi anni di trattenimenti vari sulla loro pelle, lo Stato sia amministrato in modo tale da tutelare le loro riserve ed esigenze vitali».
Credo che anche oggi le banche debbano privilegiare una modalità di gestione improntata a grande sensibilità e attenzione nei confronti del territorio vivo in cui operano, dimostrando che le esigenze di ordine tecnico ed economico dell'impresa possono ben coniugarsi con le istanze di crescita civile e culturale delle comunità. In altre parole io sono convinto che un'impostazione aperta, vorrei dire generosa, del rapporto con il contesto sociale - che non coincide necessariamente con il mondo della clientela - risulti per una banca più produttiva e feconda, nel tempo, rispetto a una gestione del credito esclusivamente improntata alla ricerca del massimo valore per gli azionisti.
La sfida per le banche è quella di dimostrare che c’è spazio non solo per scelte più generose nella redistribuzione degli utili, ma anche per aperture coraggiose all’interno della tradizionale attività bancaria di erogazione del credito: come, ad esempio, quella appena avviata di una banca interamente dedicata al mondo delle imprese sociali (una banca cioè creata per sostenere con il credito le migliori iniziative non profit e, tra queste, esplicitamente anche la diffusione della cultura e la fruizione e la protezione dell’ambiente e dell’arte).
«La Stampa» del 23 novembre 2007

Giù le mani dai Re magi!

di Franco Cardini
Rieccoci al tormentone natalizio. Sia ricerca dello scoop sensazionalistico, sia nuovo sussulto del diavoletto agnostico-laicista, tutti gli anni la buona vecchia tradizione cristiana viene insidiata da 'sensazionali' scoperte che la minerebbero alle radici: e che poi si rivelano, sistematicamente, o scoperte dell’acqua calda o vere e proprie bufale. È quest’anno di scena un articolo della rivista Focus-Storia, che chiama in causa due illustri studiosi, Mauro Pesce (studioso di storia del cristianesimo che dovrebb’essere noto anche al grande pubblico per ben altri meriti che non quello di aver cofirmato un libro con Corrado Augias) e Francesco Scorza Barcellona, raffinatissimo conoscitore della problematica degli apocrifi evangelici. Sostiene quindi la rivista divulgativa diretta da Sandro Boeri che i 're' magi, noti dal racconto evangelico di Matteo, 2, 1-2, non sarebbero forse mai esistiti: l’evangelista Matteo è l’unico dei quattro testi 'canonici' a parlarne; il contesto del racconto di Matteo sembrerebbe indicare piuttosto un «artificio letterario­propagandistico », un messaggio lanciato ai non-ebrei (i quali potevano essere attratti dal fatto che il tanto atteso Messia si fosse rivelato a degli astrologi-sacerdoti pagani prima e piuttosto che non agli ebrei stessi) e al tempo stesso sforzarsi di far quadrare la notizia dell’avvenuta nascita del Messia con le profezie dei tributi che gli sarebbero stati recati 'dall’Arabia' (e si vedano Salmi, 72/71, 10-11, 15 e Isaia, 60, 6). Da dove derivano quindi, conclude lo scoop, tutti i dettagli e le cianfrusaglie della tradizione: che i magi fossero 're', che fossero tre, che avessero dei nomi precisi, che viaggiassero in carovana eccetera? La risposta – e qui gli studi di Scorza Barcellona sono fondamentali – è evidente: dai tardivi, fantasiosi vangeli apocrifi (cioè di dubbia tradizione e, per la Chiesa, di non accertata ispirazione divina), che la tradizione cristiana, tanto latina quanto greca e orientale, ha sempre tenuto a debita distanza e che sono sovente frutto di elaborazione ereticale (soprattutto monofisita e nestoriana). Anche la povera cara stella cometa riceve la sua porzione di mazzate: non se ne parla nemmeno; il corpo celeste che per brillantezza ha la maggior probabilità di sostenere quella parte è la cometa di Halley, che però apparve nell’87 e poi nel 12 a.C.
per tornar visibile solo nel 66 d.C.
Insomma, se Focus-Storia avesse ragione, sarebbe una bella batosta per noialtri cristianucci che ci apprestiamo a fare il presepio. Ma allegri: niente paura. Siamo solo a metà strada tra la scoperta dell’acqua calda e la bufala assoluta. Anzitutto, che i magi di Matteo non fossero re, che non fossero tre, che non avessero nomi precisi eccetera, lo sapevamo da tempo. Si tratta di tradizioni stratificatesi grosso modo tra VIII e XII secolo d.C. Il fatto è che i vangeli apocrifi, emarginati dalla tradizione ecclesiale, erano noti e molto diffusi, anche a livello di racconto orale. La maggior parte delle nostre conoscenze tradizionali sui Magi deriva da due fonti: la translatio delle loro supposte reliquie da Milano a Colonia, voluta da Federico Barbarossa nel 1164, e il testo del domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova alla fine del Duecento e autore di quel meraviglioso zibaldone agiografico ch’è la Leggenda aurea. Da queste due fonti primarie dipende la tradizione popolare occidentale, radicatasi dal Cinquecento per il tramite iberico anche in America latina, e alla quale è auspicabile si resti tutti affettuosamente fedeli: salvo poi la doverosa distinzione, all’interno di essa, di quel ch’è storicamente e filologicamente verificabile da quel ch’è invece leggenda. E veniamo alla cometa.
Nessuno scrive che fosse tale: né Matteo, né gli apocrifi. I magi di Matteo vengono ap’anatoloù, nel testo greco: ed è lì che hanno visto la 'stella', un corpo che almeno apparentemente si muove ma che non ha code di sorta. Fu poi Giotto, impressionato dalla cometa di Halley da lui vista nel 1301, che se ne ricordò allorché, fra 1305 e 1310, l’affrescò nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Da allora, quella che nella Bibbia vulgata era semplicemente « stella Eius in oriente » venne abitualmente raffigurata come una cometa. Prima, sarebbe stato impossibile: tra l’altro, secondo la tradizione astronomico­astrologica già ellenistica e poi medievale, la cometa annunziava sì mutamenti, ma in genere di segno negativo. Però, fenomeni celesti verificatisi esattamente negli anni della supposta nascita effettiva di Gesù, vale a dire tra il 7 e il 4 a.C. circa, ce ne furono parecchi. Lo stesso Keplero segnalò che nel 7 a.C i due pianeti Giove e Saturno si congiunsero per tre volte consecutive, causando un effetto ottico di straordinaria brillantezza; nel febbraio del 6 a.C.
si registrano le congiunzioni di Giove con la Luna e di Marte con Saturno nella costellazione dei Pesci. Gli astronomi cinesi segnalarono nel 5 a.C. un fenomeno astrale di grande lucentezza nelle costellazioni dell’aquila e del Capricorno: esso rimase visibile una settantina di giorni. Si trattava di una nova, una specie di esplosione nucleare causata dall’accumulo d’idrogeno che produce un 'lampo' di breve durata, poi visibile magari molti anni luce dopo l’esplosione effettiva. Oggi, gli astronomi parlano di nove o addirittura di supernove. Se i magi, assistendo da qualche parte della Persia al fenomeno registrato in Cina nel febbraio-marzo del 5 d.C., mossero più o meno allora verso occidente seguendone il corso apparente, dovettero arrivare in Giudea verso la fine della primavera. Ciò entra in conflitto con la data tradizionale della nascita del Cristo (il 6 gennaio per le Chiesa orientali, il 25 dicembre per quella romana).
Ma sappiamo bene che le due date tradizionali del natale sono state ricavate, rispettivamente, da un’antica festa isiaca delle acque (da qui la liturgia dell’Epifania) e da una festa solare dell’Urbe. In realtà, visto che all’atto della nascita c’erano attorno a Betlemme (quindi a circa ottocento metri sul livello del mare) dei pastori, i quali secondo le tradizioni della transumanza si trasferiscono in alto durante i mesi caldi, si direbbe più probabile che Gesù sia nato appunto tra la primavera e l’autunno piuttosto che non in inverno, quando nell’Alta Giudea fa freddo. Resta la tesi della citazione dei magi, in Matteo, per 'gettare' in qualche modo un ponte ai gentili. Un’idea audace, tanto che gli altri evangelisti canonici non l’hanno raccolta. Matteo è l’unico a parlarne: e lo fa, dobbiamo sottolinearlo, soprattutto in un contesto preciso, quello stesso che gli ha imposto di cominciare il suo testo con la declinazione genealogica di Gesù, quindi con la prova della sua discendenza dal re David e della Sua legittimità, pertanto, come Rex Iudaeorum secondo il testo di Michea, 5, 1-3.
Infine, un appunto va pur fatto a tutto l’impianto del discorso sostenuto da Focus-Storia. I magi non sono personaggi di fantasia. È vero che in tutto l’Oriente, al tempo di Gesù, si chiamavano correntemente magoi gli astrologhi girovaghi, i ciarlatani, insomma i 'magi randagi' a dirla col film di Sergio Citti del 1996. Ma i magi veri c’erano, eccome: erano gli astrologi-sacerdoti d’origine meda, custodi dell’antica sapienza della religione mazdea riformata nel VI secolo a.C. da Zarathustra.
Una religione ancora viva tra l’Iran e l’India attuali, e che la rivoluzione islamica khomeinista ha rispettato, trattando i mazdei come ahl al-Kitab, 'popolo del Libro' detentore della Rivelazione divina affidata al testo dell’Avesta.
È nella loro tradizione che si parla del Saosihans, del 'Soccorritore' nato da una Vergine, annunziato da una stella lucente e destinato a salvare il mondo. Matteo però, povero pubblicano galileo, dei magi mazdei non doveva saper un bel niente o quasi: com’è che con tanto sostanziale esattezza ha mostrato reminiscenze di tradizioni che noi conosciamo soltanto dall’Avesta, giuntoci peraltro attraverso redazioni tardive e non anteriori comunque al III secolo d.C.?
«Avvenire» del 27 novembre 2007

Europa sospesa fra Socrate e il divino

di Giorgio De Simone
Se è vero, come credo, che tornare ogni tanto a Socrate non può che far bene, la sollecitazione a farlo viene oggi da un libro, «Vita tragicomica di Socrate» (Salani, pagine 160, euro 10) di Pietro Emanuele, ordinario di filosofia all’università di Messina. Opera tra il serio e il faceto, vi si ribadisce che, a partire dal suo contemporaneo Aristofane, di Socrate si può dire tutto: che fu un predicatore cervellotico, un furbacchione, un ficcanaso, probabilmente anche un filosofo nonché l’amico, in ogni senso, di Alcibiade e non solo. Così Emanuele del grande ateniese disegna meglio il rovescio che il dritto tanto da farci domandare: ma allora fu vera gloria? Prendiamo il processo. Siamo nel 399, Socrate ha settant’anni e si ritrova inopinatamente portato davanti ai giudici da un imprenditore di pelli, Anito, un retore, Licone, e un poeta fallito, Meleto. Formalizzata da quest’ultimo, l’accusa ha due capi d’imputazione: empietà e corruzione di giovani. Due 'addebiti' che, combinati, possono portare alla condanna a morte. Naturalmente se l’imputato rinuncia, di fatto, a difendersi. Che è quanto fece Socrate esaltando la propria 'missione', rifiutando il sostegno di un retore del peso e del valore di Lisia, non dichiarandosi pentito di nulla. Quando gli fu chiesto che pena ritenesse adeguata per le proprie colpe rispose di voler essere mantenuto dalla collettività per il resto dei suoi giorni al Pritaneo. Per orgoglio e ambizione, secondo quello che ne pensava Indro Montanelli, Socrate decise un comportamento che gli avrebbe dato gloria imperitura e non prese in considerazione nessuna delle alternative che lo potevano salvare. In ogni caso per noi stupefacente resta l’accusa di empietà. Un uomo le cui ultime parole furono «Ricordatevi che dobbiamo un gallo ad Asclepio», un uomo che sull’anima aveva passato la vita a interrogare se stesso e i discepoli, un uomo che non negava l’aldilà e aveva elevato il proprio 'dàimon', sorta di nostro angelo custode, a sua guida spirituale, quest’uomo fu accusato di negare l’esistenza degli dèi (e dunque di contestare la natura sacra delle leggi). Religione e cittadinanza erano allora ritenute un 'unicum' e l’ateismo era ufficialmente condannato, sicché visto qui e ora, in un’Europa che di divinità non vuole sentir parlare e dove la laicità è il valore più grande, un verdetto di condanna per empietà fa impressione. Siamo abituati a decantare quella ateniese come la più grande democrazia del mondo antico e ci sembra impossibile che chi, in quello straordinario contesto, veniva accusato a torto o a ragione di non credere negli dèi potesse finir male. Ce lo vediamo oggi in un qualsiasi angolo del nostro continente (nei paesi islamici è, ovviamente, tutt’altro discorso) qualcuno incriminato perché non crede in Dio o perché insegna o predica sui giornali che Dio non esiste? A noi è difficile dire quanto una persona razionale potesse, nella Grecia antica, credere negli dèi. Ma ci viene facile affermare che per gli intellettuali e i puri pensatori di oggi refrattari a ogni idea di divino, credere in Gesù Cristo sia molto più difficile di quanto non fosse per i loro omologhi dell’antica Grecia confidare in Zeus e nel suo fantasmagorico Pantheon.
Avvenire del 27 novembre 2007

08 novembre 2007

L'Agesc: le casse pubbliche risparmiano 6 miliardi di euro

Un risparmio di sei miliardi e 200 milioni di euro
di Enrico Lenzi
A tanto ammonta, secondo un dossier realizzato dall'Associazione genitori delle scuole cattoliche (Agesc), il «mancato esborso» dalle casse dello Stato in campo educativo, dovuto proprio alla presenza degli istituti paritari. Un costo che lo Stato dovrebbe accollarsi interamente «se le nostre scuole dovessero improvvisamente chiudere e il milione di studenti, dalla scuola dell'infanzia alle superiori, si iscrivesse negli istituti statali», sottolinea Maria Grazia Colombo, presidente nazionale dell'Agesc. Cifre che stonano rispetto alle incredibili accuse di presunti favori economici verso la scuola paritaria, quella cattolica in particolare. «Abbiamo preso in esame gli stanziamenti fatti per la paritaria dal 1996 al 2006 – spiega ancora la presidente –, dunque con la copertura di due legislature con governi di diverso colore. I dati dimostrano che l'operato delle diverse maggioranze succedutesi al governo del Paese è stato ampiamente insufficiente». La situazione di partenza vedeva due capitoli di spesa nel 1996: uno per le scuole materne (intorno ai 100 milioni di euro) e uno per le elementari parificate (una trentina di milioni di euro), per uno stanziamento totale di circa 134 milioni. Nel 2000 venne approvata la legge numero 62 sulla parità scolastica, che aumentò l'importo complessivo di 179 milioni di euro, di cui 144,6 per le materne, 30,9 per le elementari e 3,6 per l'integrazione degli alunni disabili. Nella Finanziaria 2001, l'ultima del governo di centrosinistra, i contributi arrivarono a 473 milioni di euro, di cui 349 per le materne, 118 per le elementari, 5,5 alle secondarie e 3,6 per l'integrazione dei disabili. Dopo aver governato per i successivi cinque anni, il centrodestra portò il bilancio complessivo (Finanziaria 2006) a 532 milioni di euro (più 59). Cifra salita, nell'ultima Finanziaria 2007 del governo Prodi a 566,8 milioni con la seguente distribuzione: 355 alle materne, 160 alle elementari, 6,9 alle secondarie, 10 per l'integrazione dell'handicap, 4,5 per la legge 440 sulle secondarie paritarie e 30 del bonus dei genitori per l'anno scolastico 2005/06. E proprio partendo dalle cifre 2007, il dossier dell'Agesc fa i conti in tasca allo Stato. A cominciare da quanto spende per ogni singolo studente. Si scopre così che un bambino della materna statale costa 6.116 euro, un alunno della primaria 7.366, uno studente delle medie 7.688 e uno delle superiori 8.108. Nello stesso tempo lo Stato, attraverso i contributi erogati in bilancio, spende per uno studente iscritto alla paritaria: 584 euro alla materna, 866 alla primaria, 106 alla media e 51 euro alle superiori. Facile a questo punto fare la differenza tra le due cifre, tenendo conto che stiamo parlando di scuole appartenenti all'unico sistema scolastico pubblico integrato, come recita l'articolo 1 della legge 62 del 2000. L'Agesc ha così calcolato che per un bambino iscritto alla materna paritaria lo Stato risparmia 5.532 euro, che diventano 6.500 alle elementari, 7.582 alle medie e raggiungono gli 8.057 alle superiori. Ma i «contabili» dell'associazione sono andati oltre quantificando anche il risparmio complessivo che ottiene lo Stato non gestendo il milione di studenti degli istituti paritari: 3,436 miliardi di euro alle materne, 1,202 miliardi nelle elementari, 496 milioni per le medie e 1,110 miliardi alle superiori. Totale: 6 miliardi e 245 milioni di euro che le casse dello Stato non devono sborsare. Sei miliardi di risparmio a fronte di un investimento di 566 milioni. Le cifre parlano da sole, «evidenziando la convenienza della nostra esistenza per lo Stato – commenta la presidente dell'Agesc –. Un'evidenza così chiara che non si comprende come non passi l'idea che occorra evitare l'estinzione di questa realtà educativa », se non altro per motivi economici. E dopo aver fatto legittimamente i conti in tasca allo Stato, l'Agesc passa alla fase propositiva, rivolgendo un appello bipartisan: «Offriamo il nostro contributo affinché possa costituirsi una ampia maggioranza politica trasversale fra gli schieramenti, capace di fornire risposte concrete alle problematiche delle scuole paritarie e delle famiglie che le scelgono per i propri figli». Un auspicio che si concretizza nella richiesta di un «incremento di 233,5 milioni di euro, in modo da portare l'investimento complessivo in Finanziaria 2008 a 800 milioni di euro, di cui 440 alle materne, 250 alle elementari, 40 a medie e superiori e 70 all'integrazione per i disabili». Un aumento che corrisponde «al 3,7% di quanto lo Stato risparmia con la mancata frequenza delle scuole statali da parte degli studenti delle scuole paritarie». Del resto, sottolinea il dossier dell'Agesc, «le risorse destinate alle materne sono ferme, se non addirittura diminuite, già da quattro esercizi finanziari, a fronte di un incremento dell'utenza». Nelle elementari «occorre superare l'esiguità dei fondi che porta ad avere istituti paritari con convenzioni e altri privi, proprio perché i fondi non coprono tutte le realtà». Una scarsità di fondi ancora più evidente nel ciclo superiore, «dove bisogna passare dagli attuali 7 ad almeno 40 milioni per assegnare davvero fondi a tutti gli istituti». Spetta ora al mondo politico e al governo dare una risposta.

INCREDIBILE MA VERO. COSTI PER LO STATO:
- un bambino della materna statale 6.116 euro, 584 euro se alla paritaria;
- un alunno della primaria statale 7.366 euro, 866 euro se della paritaria;
- uno studente delle medie statali 7.688 euro, 106 euro se di una paritaria;
- uno delle superiori statali 8.108 euro, 51 euro se in una paritaria
«Avvenire» dell’11 ottobre 2007

06 novembre 2007

La pillola abortiva che uccide

Sulla Ru486 troppa disinformazione in Italia. Mentre i media stranieri già la definiscono horror-pill.

di Eugenia Roccella

Sono in maggioranza italiane, e più istruite delle media, le donne che scelgono la Ru486.
Lo sottolinea con soddisfazione l’assessorato alla Sanità dell’Emilia Romagna, presentando la relazione annuale sull’aborto. Come a dire: chi sceglie la pillola abortiva non è una poveretta qualsiasi, magari straniera, magari munita di una semplice licenza elementare, ma una persona informata, che vuole per sé il meglio che c’è sul mercato.
Bisognerebbe però aggiungere che questa convinzione è frutto di una intensa e spregiudicata campagna propagandistica a favore dell’aborto chimico. Sul Corriere e su Repubblica nessuno ha mai raccontato di Holly Patterson, la diciottenne californiana uccisa dalla 'kill pill' (è da allora che negli Usa la pillola viene definita così), né della straordinaria e tenace battaglia condotta del padre, che ha permesso la scoperta di altre morti, e ha squarciato il velo di silenzio sull’orrore dell’aborto con la Ru486.
Nessuna trasmissione televisiva ha spiegato che l’aborto chimico è una procedura che richiede almeno 15 giorni, il cui esito è incerto fino alla fine, che avviene in solitudine, tra nausee e crampi dolorosi (in sostanza, un piccolo parto), che costringe la donna a controllare continuamente il flusso emorragico e quindi a vedere, nella maggioranza dei casi, l’embrione abortito.
Chi crede che la Ru486 sia un metodo sicuro e indolore dovrebbe leggere la stampa straniera: scoprirebbe così che il New York Times ha ampiamente informato sulle morti e gli eventi avversi provocati dal farmaco, mentre l’inglese Times, solo 15 giorni fa, ha pubblicato un articolo dal titolo significativo La brutale verità sull’aborto chimico, in cui ha definito la Ru486 horror-pill.
Il motivo di tante censure e bugie, qui da noi, è chiarissimo: l’obiettivo non è offrire alle donne una scelta in più, come molti sostengono. Se così fosse, dovremmo vedere schiere di assessori, governatori regionali, parlamentari che si battono strenuamente per il parto naturale e la difesa della maternità, con lo stesso accanimento e le stesse dichiarazioni infuocate spese per promuovere la pillola abortiva.
Introdurre in Italia la Ru486 – l’abbiamo detto e ripetuto – serve in realtà a taluni come strumento per smontare la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, seguendo il percorso che è già stato sperimentato con successo in Francia. Abolire le garanzie offerte dall’assistenza sanitaria pubblica, riportare l’aborto tra le mura domestiche, in una forma legale di clandestinà, lavarsene finalmente le mani, evitando qualunque intervento di prevenzione: è questo che davvero si vuole.
Una volta diffusa l’abitudine all’aborto fai-da-te si potrà modificare la legge, come hanno fatto i francesi, e come forse faranno gli inglesi. Del resto, perché il sistema sanitario pubblico dovrebbe occuparsi delle donne che abortiscono? Perché lo Stato dovrebbe impegnare risorse per aiutare le donne che il figlio vorrebbero tenerlo, ma hanno bisogno di un minimo di sostegno economico e morale?
La Exelgyn, che produce la Ru486, ha comunicato che a novembre chiederà la registrazione del prodotto in Italia.
Ci auguriamo che il compito dell’Aifa, l’ente di controllo dei farmaci, non si limiti a un burocratico passaggio di carte, ma a un vero esame della documentazione scientifica e dei dati offerti dall’azienda. Ma soprattutto ci auguriamo che il ministro della Salute Livia Turco voglia applicare integralmente, come ha sempre affermato, la 194 e le garanzie che essa pure contiene, evitando ulteriori distorsioni e peggioramenti.
La Ru486 annichilisce infatti ogni forma di prevenzione. Dopo tante accuse ai cattolici, adesso si vedrà con chiarezza chi davvero attacca la 194, infischiandosene della salute delle donne.

« Avvenire 31 ottobre 2007»

Il confine della tolleranza

di Edoardo Castagna
Prima di disquisire di tolleranza, è indispensabile piantare qualche paletto. E definire ciò che in nessun caso si può tollerare. Tzvetan Todorov, il linguista, storico e filosofo franco­bulgaro che ieri a Milano ha partecipato al faccia a faccia «Ricordare» – con Edoardo Boncinelli al Teatro Dal Verme, per il ciclo «La parola contesa»–, non è tipo da rifugiarsi negli oliati meccanismi delle frasi fatte e del politicamente corretto. E precisa: «La sola possibilità di avere tolleranza è che ci sia un qualche accordo su ciò che è intollerabile. Senza un tale accordo, tolleranza significa indifferenza».
In questi giorni in Italia si assiste a una diffusa insofferenza contro alcune minoranze – i Rom di passaporto romeno, soprattutto – in seguito a gravi crimini commessi da alcuni loro esponenti...
«La legge deve essere applicata. Se una persona commette un crimine, la cosa non può essere affrontata in termini di tolleranza. Per quel che riguarda quanto sta avvenendo in Italia, credo che in questi casi ogni Stato ha non solo il diritto, ma anche il dovere di difendere i suoi cittadini e tutti i residenti sul suo territorio. D’altra parte, anche al di là della sfera criminale non ogni comportamento umano è sempre ritenuto tollerabile. Mi viene in mente un altro caso di cronaca italiana, quello del padre pachistano che ha ucciso la figlia perché troppo 'occidentalizzata': ecco un chiaro esempio di intolleranza verso qualcosa che non è nemmeno lontanamente criminale. È importante che i migranti in tutto il mondo accettino un principio: che la legge si impone al di sopra dei costumi. Per fortuna, di norma è così: è la tradizione delle grandi religioni, dall’ebraismo all’islam, ad affermare come si debbano rispettare le leggi del Paese in cui si vive».
Tutto si riduce a un problema di legalità, allora?
«Non solo. Certo, va sempre ribadito che le leggi non si transigono. Ma non basta. A volte dobbiamo essere attenti anche a non urtare i sentimenti delle persone: senza per questo essere criminali, alcune azioni possono ferire gli altri, soprattutto le umilianti insinuazioni contro certi gruppi. Anche questo non può essere tollerato: non perché la legge lo proibisce, ma perché è meglio per la vita comunitaria dell’intera società».
Lei ha spesso invoca un «ritorno dei Lumi». È compatibile con il risorgere del senso del sacro che stiamo osservando in Occidente?
«È in atto un’evidente ricerca di spiritualità, sia in Europa sia negli Stati Uniti – anche se in forme diverse. Non credo che un essere umano possa vivere senza un riferimento a una dimensione spirituale, e in questo senso si tratta di una necessità. Ma una necessità che non si oppone affatto a quella di un nuovo Illuminismo, che non è per nulla anti-religioso, bensì a favore della libertà di coscienza. Questi nuovi Lumi si limitano a indicare alcuni valori che sono validi per gli uomini anche se si riferissero esclusivamente a se stessi, senza necessariamente richiamarsi al trascendente sopra di sé. D’altra parte, questa stessa possibilità è stata preparata dalla dottrina cristiana, che frequentemente – per esempio, nelle Lettere di san Paolo – ha ribadito che amare Dio non è altro che amare il proprio prossimo».
Ma che ruolo ha ancora la memoria, nel mondo moderno?
«Oggi la memoria è più importante che mai, perché senza memoria non esiste identità, sia individuale che collettiva. Se un individuo è privato della sua memoria, la sua identità è distrutta. E noi non possiamo vivere senza identità».
E questo vale anche per l’identità nazionale?
«In questo caso si tratta di un’identità mobile, costantemente ricostruita perché le nazioni si rimodellano continuamente – solo le civiltà scomparse rimangono sempre identiche a se stesse. È un principio difficile da adottare, e spesso si assiste a tentativi di 'difendere' la propria identità nazionale. Ma io non credo che sia difendibile: occorre accettare il fatto che è mutevole. Dall’inizio del XX a quello del XXI secolo l’identità italiana, francese o tedesca sono cambiate enormemente, e continuano a cambiare. Il che è un segnale di buona salute».
Possiamo sperare nella nascita di un’identità europea, paragonabile a quella degli Stati-nazione?
«Noi abbiamo bisogno di un’identità europea, ma non sarà affatto simile a quella nazionale. E questo perché l’identità nazionale non scomparirà all’interno di un’identità europea: noi rimarremo italiani, francesi o tedeschi, oltre che europei. L’identità europea sarà un modo di accettare la pluralità. Vivere insieme in modo differente: è questo ciò che costituirà l’identità europea. È una cosa nuova, perché nessun altra grande potenza mondiale fonda se stessa sull’accettazione della differenza. Così l’Europa ha la grande opportunità di mostrare al resto del mondo che questo è possibile».
«Avvenire» del 6 novembre 2007

Commissioni d’inchiesta Dove la «verità politica» dipende dalle maggioranze

di Pierluigi Battista
Come andrà a finire (l’eventuale) istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul G8 di Genova? Nel modo più ovvio e scontato. Se al momento delle conclusioni in Parlamento dovesse prevalere una maggioranza di centrosinistra si stabilirà in nome del popolo italiano che la polizia si è comportata in modo deplorevole, che nel luglio 2001 l’Italia ha conosciuto una condizione «cilena», che Carlo Giuliani è stato assassinato con predeterminazione, che l’estintore rosso era un giocattolo, che i black block erano in contatto con i servizi segreti ovviamente deviati, e che la scuola Diaz è stato il teatro di una macelleria messicana voluta e deliberata dal governo del Polo. Se invece subentrasse una maggioranza di centrodestra si stabilirà, sempre in nome del popolo italiano, che la polizia non ha fatto che difendersi, che i disordini sono stati preordinati, che la possibilità di qualche marginale errore deve imputarsi alla preparazione difettosa di un evento mondiale pur sempre organizzato dall’ultimo governo di centrosinistra prima dell’avvento berlusconiano del 2001, e che nella scuola Diaz, occupata dai militanti più violenti della manifestazione, le forze dell’ordine sono state accolte da sassi e bastonate. Non è una previsione, è una certezza ricavata dalla nozione stessa di «verità politica». La «verità giudiziaria» si basa sulla logica dei riscontri fattuali, delle responsabilità individuali, delle prove che dovrebbero dimostrare l’eventuale consumazione di un reato o riconoscere l’innocenza di chi non lo ha commesso. L’esito processuale non è scontato. Le sue regole prevedono l’indipendenza e la mancanza di accanimento politico di chi indaga e soprattutto di chi giudica. La «verità politica» è governata da una logica di segno rovesciato. I giudici sono esponenti politici a tutti gli effetti. Non è previsto che votino in contrasto con i risultati auspicati dallo schieramento cui appartengono. Hanno familiarità con le tendenze, il disegno complessivo, il giudizio politico ma non con i fatti, i dettagli, le responsabilità effettive dei singoli. Anzi, si sa già in partenza quale sia la loro valutazione sui fatti presi in considerazione dalla commissione parlamentare. Inoltre, la «verità politica» è essa stessa un concetto implicitamente polemico con la «verità giudiziaria», sospetta che nelle aule dei tribunali non si faccia «piena luce», che la giustizia vera sia cosa troppo delicata per lasciarla nelle mani dei giudici anziché dei parlamentari illuminati dal genio dell’intuizione politica. Le commissioni parlamentari hanno agito sempre così, inchinandosi al feticcio della «verità politica». E’stato il caso della commissione sulle stragi, laboriosissima ma incapace di pervenire a qualsiasi risultato. Della commissione P2, le cui conclusioni politiche sono state regolarmente smentite da quelle giudiziarie. Di quella antimafia, che costruì il teorema politico dell’incriminazione di Andreotti, anch’esso intaccato dai notori esiti giudiziari. Della commissione Telekom Serbia, che inscenò una gazzarra politica con l’ausilio di personaggi screditati se non addirittura grotteschi. Della commissione Mitrokhin, che voleva ricostruire la storia d’Italia su un paradigma dietrologico di nuovo conio, dove il Kgb avrebbe dovuto sostituire la Cia come matrice di ogni male e di ogni nefandezza. Ogni volta la verità «politica» ha prevalso a maggioranza, con la forza dei numeri parlamentari e non dei fatti. Adesso, dopo lo stravagante dietrofront di Di Pietro, si ricomincia con Genova. Solidarietà ai giudici, quelli veri, che giudicano nei tribunali. Quelli con la targhetta politica sulla casacca, non ne hanno bisogno.
«Corriere della sera» del 5 novembre 2007

Darwin: i seguaci più ortodossi smentiti dalla natura

Le ultime scoperte «smontano» la teoria dell’evoluzione
di Massimo Piattelli Palmarini
Meravigliose istituzioni, le grandi università americane. Ciascuna ha la sua stazione radio di musica classica, come quelle che conosco, di Harvard e dell’Arizona: amano trasmettere brani di compositori i cui nomi ignoro assolutamente, benché per tutta la vita io abbia ascoltato musica classica. Per esempio, oggi, nel giorno in cui scrivo, la seconda ha trasmesso musiche di Charles Tournemire, Johann Heinicken, Miguel Bernal e Arnold Bax. Bruttine, ammettiamolo pure. Spesso cambio sintonizzazione, ma mi sono anche sforzato di ascoltare questi minori. Non si sa mai, potrei fare qualche scoperta folgorante. Il punto è che ciò non è mai, per ora almeno, avvenuto. I compositori minori e sconosciuti lo sono, direi, per buoni motivi. Lungo secoli e decenni il gusto musicale internazionale ha selezionato opere di Beethoven, Bach, Brahms, Wagner e altri giganti, ma non quelle di Tournemire o Bax. Le ore di ascolto sono quello che sono, non tante. Le risorse materiali delle case discografiche e delle sale da concerto sono limitate, quindi esiste una lotta per la sopravvivenza anche in questo campo piuttosto etereo. Ed è inevitabile che vincano i migliori. Una selezione di tipo darwiniano o qualcosa del genere. È una banalità dirlo, perché vale un principio generalissimo, quasi una verità di pura ragione, secondo il quale, in popolazioni di entità che si auto-riproducono nel tempo (come i batteri, le api e i ratti) o vengono riprodotte da qualcosa o qualcuno (come le sinfonie, le automobili, i jeans e la pizza), alla lunga, i portatori di caratteri che accelerano, per un motivo qualunque, il loro proprio tasso di riproduzione, si diffonderanno, a scapito di coloro che non li portano. Potranno addirittura, in certe condizioni, diventare gli unici che si riproducono. Questo principio è talmente universale e irrefutabile che i neo-darwiniani sfoderano, per così dire, il revolver non appena qualcuno si permette di criticarlo. O meglio, non di criticare questo principio in quanto tale, il che sarebbe insensato, ma la tesi neo-darwiniana che questo principio basti da solo (ripetiamolo pure, da solo) a spiegare tutte le forme viventi e le loro intricate relazioni. Si sentono, allora, investiti da un ruolo assoluto: quello di proteggere la razionalità scientifica. Questo è successo puntualmente anche la scorsa settimana al filosofo cognitivo americano Jerry Fodor, integralmente ateo e integralmente razionalista, che ha osato pubblicare nella «London Review of Books» un articolo giudiziosamente anti-darwiniano, intitolato «Perché i porci non hanno le ali». Centinaia di lettere di insulti e tre dettagliate critiche accademiche si sono accumulate nel suo computer. Di sfuggita, Fodor annuncia un libro che lui ed io insieme stiamo progettando: ho ricevuto, di rimbalzo, già due inviti a convegni, due offerte di pubblicazione da parte di editori americani e una dozzina di lettere perplesse da parte di colleghi. Eppure, la parte che mi riprometto di svolgere in una sezione di quel libro consiste semplicemente nell’allineare e organizzare dati e considerazioni sviluppate dai più qualificati biologi e genetisti negli ultimi anni. Fodor, da filosofo della mente, mostra che il neo-darwinismo ortodosso è minato dall’interno, da nozioni che, per funzionare come si vorrebbe, presuppongono ciò che pretendono di spiegare. Per esempio, la nozione «selezionato per» («il cuore è stato selezionato per pompare il sangue») importata dall’ingegneria, dal progettare umano, quella corrispondenza tra organi e funzioni che la cieca opera evoluzionistica non può da sola fornire. Il principio darwiniano, generalissimo, non si lascia, infatti, calare nei dettagli: perché un dato organo o tratto (per esempio la monogamia in alcune specie, la poligamia in altre) sarebbero stati selezionati. La forcella indesiderabile di opzioni alla quale Fodor vede costretti i neo-darwiniani è quella di scegliere tra l’attribuzione di un qualche micro-progetto, una micro-intenzione, alla natura, oppure tirare a indovinare, a lume di naso, i risultati della selezione naturale. La biologia contemporanea ha offerto una panoplia di processi evolutivi che si sommano alla classica selezione del più adatto. Quest’ultima esiste, ma è una fonte marginale delle architetture biologiche. Esistono «geni maestri», fondamentalmente gli stessi dal moscerino all’uomo, organizzati in complesse reti, che hanno sotto controllo lo sviluppo e il funzionamento di organi svariatissimi nello stesso individuo (per esempio, nei mammiferi, corteccia cerebrale, fegato, gonadi e reni, oppure cresta neurale, fegato, orecchi, occhi e colonna vertebrale). Una qualsiasi selezione per una qualsiasi di queste funzioni si trascina dietro ineluttabilmente cambiamenti in tutte le altre. Come il genetista Edoardo Boncinelli ha sottolineato, è facile credere di spiegare selettivamente un certo cambiamento nel cervello umano, quando ciò che è stato selezionato è magari il funzionamento dei reni imposto dalla stazione bipede. E una corteccia più sviluppata è venuta in sovrappiù. Un’altra scoperta importante è stata quella del trascinamento di organi e connessioni, indotto da una mutazione che colpisce un diverso organo. Nel fringuello, per esempio (uccello tanto caro a Darwin) una mutazione che altera la forma della metà superiore del becco si trascina dietro cambiamenti congrui nelle ossa del cranio, la parte inferiore del becco, i muscoli del collo e i nervi. Un caso tra tanti, che ribadisce la coordinazione tra le diverse parti di un organismo vivente, il «dialogo tra i tessuti viventi», secondo l’espressione felice di Marc Kirschner, capo del dipartimento di biologia dei sistemi a Harvard. Tutto questo e tanto altro cospira contro la possibilità, per il gioco cieco della natura, di selezionare e affinare separatamente ogni organo, tratto, meccanismo, e per noi di spiegare la loro forma e funzione uno ad uno, attraverso trasparenti storielle di adattamento progressivo. Infine, non va trascurato il ritorno massiccio delle leggi della forma, cioè di fattori di ottimizzazione globale, comuni a specie diversissime e dovuti alla fisica più che alla biologia. Ne bastino due. La densità di connessioni nervose e la distribuzione dei gangli nervosi, dall’umilissimo verme di terra (il nematode) al macaco (e a noi) è ottimale, tra decine di milioni di possibili varianti esaminate pazientemente al computer da Christopher Cherniak all’Università del Maryland. Migliore anche della connettività pazientemente ingegnerizzata nelle migliori microchip oggi ottenibili industrialmente. Cherniak sottolinea che si tratta di processi innati di ottimizzazione, ma non specificati, in quanto tali, dai geni. La seconda straordinaria ottimizzazione naturale è quella dei circa centomila chilometri di vene, arterie e capillari che ciascuno dei nostri corpi contiene. West, Brown ed Enquist (al Santa Fe Institute) hanno dimostrato matematicamente che l’organizzazione di tutti questi vasi di trasporto, nel più piccolo mammifero come nella balena, segue la legge particolare dei cosiddetti frattali perfetti. In parole semplici la rete minimizza i costi di trasporto e ottimizza gli scambi. Queste soluzioni ottimali del mondo biologico non sono certo state selezionate darwinianamente a partire da tentativi a casaccio. Non ci sono state decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello ha tentato a casaccio tutte le soluzioni possibili. La selezione ha dovuto essa stessa seguire dei binari stretti, imposti dalla fisica e da principi generali di ottimizzazione. Come ama dire Antonio Coutinho, immunologo dell’Institut Pasteur, i sassi cadono in terra per la forza di gravità, non perché la selezione naturale ha eliminato tutti quelli che tendevano ad ascendere in alto. Il titolo del libro di Fodor e mio, per ora provvisorio, potrebbe, quindi, ben essere «evoluzione senza adattamento».
Al festival della Scienza «Ripensare l’evoluzione: ciò che Darwin non poteva sapere» è il titolo della conferenza che Massimo Piattelli Palmarini terrà domani alle 18 nel Palazzo Ducale, Sala del Minor Consiglio, piazza Matteotti, a Genova. Il suo intervento, che svilupperà il tema delineato dall’autore in questa pagina, si situa nel quadro del Festival della Scienza, presieduto da Manuela Arata. Massimo Piattelli Palmarini è ordinario di Scienze Cognitive all’Università dell’Arizona e professore all’Università San Raffaele di Milano. Introdurrà la sua conferenza Vittorio Bo.
Lo scienziato Charles Darwin (1809-1882) è il padre della teoria dell’evoluzione. Il suo saggio più famoso, scritto nel 1859, è intitolato «Sull’origine delle specie»
«Corriere della sera» del 4 novembre 2007

Occhi chiusi sui poligami d’Italia

Leggi violate
di Magdi Allam
Nell’attesa che prendesse il via la cerimonia del «Premio Penisola Sorrentina Arturo Esposito», svoltasi a Piano di Sorrento il 31 ottobre e in cui mi è stata conferita la Targa d’Argento del Presidente della Repubblica, mi si avvicina un giovane sindaco di un paesino della zona per salutarmi. «Da noi ci sono tanti immigrati perfettamente integrati - mi dice - problemi con loro non ne abbiamo mai avuti, è tutta brava gente e noi diamo loro anche la casa popolare». «Bene - ribatto io - il Meridione si conferma essere la terra migliore per la felice convivenza con gli stranieri». Il sindaco annuisce ma, quasi a volermi fare una confidenza aggiunge: «C’è solo un caso che mi sta creando qualche problema. Si tratta di un marocchino. Gli abbiamo dato la casa popolare ma è tornato al Comune e mi ha chiesto di attribuirgli un secondo appartamento. Ma come, gli ho detto io, un secondo appartamento? Sì, mi ha spiegato, perché sono tornato in Marocco, mi sono risposato secondo il rito islamico. La mia seconda moglie avrà dei figli e voglio che anche loro abbiano una loro casa». Il sindaco mi guarda un pò perplesso: «Gli ho risposto che no, non è possibile, la nostra legge non lo consente. Poi mi sono consultato con il mio consigliere di fiducia e lui mi ha detto che forse è meglio venirgli incontro per prevenire l’insorgere di tensioni con la comunità marocchina». E allora che cosa fa il nostro giovane sindaco? «L’ho convocato in Comune e gli ho detto. Senti, un secondo appartamento proprio non te lo posso dare perché sarebbe contro la legge. Però fai così. Mandami tuo fratello e digli di presentare lui la domanda per avere l’appartamento. Io a lui l’appartamento glielo posso dare. Poi chi ci mettete dentro sono fatti vostri». Il sindaco alza gli occhi per scoprire quale sarebbe stata la mia reazione e mi domanda: «Lei dottor Allam cosa ne pensa? Ho fatto bene?». La mia risposta deve essergli suonata come un micidiale pugno nello stomaco: «Lei sa bene che in Italia la bigamia è un reato penale punibile da uno a cinque anni di carcere. Lei come rappresentante delle istituzioni dovrebbe essere tenuto a denunciare un reato penale. Si rende conto che se è lo Stato stesso a violare le proprie leggi, andremo dritti dritti verso il suicidio della nostra civiltà?». Il sindaco mi guarda sconcertato e imbarazzato: «Sì è vero, ma non è facile». Non è facile? Non è facile per le istituzioni dello Stato far rispettare le leggi dello Stato? Perché siamo arrivati al punto in cui un sindaco si trova costretto ad essere connivente con un poligamo e corresponsabile di un atto che scardina il fondamento della nostra società e civiltà, ovvero la famiglia monogamica che implica la pari dignità tra uomo e donna? Già, la dignità della persona. Recentemente si è rivolta a me una donna italiana che ha scoperto che il marito egiziano aveva una seconda moglie il giorno in cui, dopo aver richiesto un certificato di stato di famiglia, a fianco del nome suo e di quello del marito è comparso quello di una neonata che non era sua figlia. Il marito non aveva avuto remore a farla registrare all’anagrafe italiana, dopo essersi risposato con il solo rito islamico in Egitto e aver portato la seconda moglie in Italia con un visto turistico, senza neppure informare la moglie italiana. Ebbene sapete come finiranno queste due storie? Il poligamo marocchino avrà il suo secondo appartamento per la sua seconda moglie e il poligamo egiziano potrà tranquillamente continuare a risiedere in Italia con la sua seconda moglie indipendentemente dal comportamento della prima moglie italiana. E sapete perché? Perché di fatto nessuna legge è stata violata dal momento che il matrimonio islamico, assolutamente valido nei paesi musulmani, è considerato nullo dallo Stato italiano e quindi senza effetti civili. Alla fine saranno contenti tutti i maschi: il giovane sindaco meridionale e i mariti poligami. Quanto alle donne poligame, nulla da fare per loro. E le conseguenze per la nostra società e civiltà? Facciamo finta di niente, l’importante è il rispetto formale delle leggi anche se sono del tutto in contrasto con la verità dei fatti, il bene comune e l’interesse nazionale.
«Corriere della sera» del 3 novembre 2007

Perché le donne amano i mascalzoni

Singolare esperimento di ricercatori inglesi
Di Roberta Salvadori
Merito dell’irresistibile mimica facciale
Perché mai tante donne si innamorano di uomini che si comportano da mascalzoni? Secondo uno studio britannico è colpa della mimica facciale. Un sorriso, un’alzata del mento, un movimento di ciglia possono avere una tale carica di seduttività per l’interlocutrice, che il contenuto dei discorsi di lui può finire col passare inosservato, anche se questi esprime concetti negativi e di forte carica antisociale, che dovrebbero metterla in guardia. Per giungere a queste conclusioni, psicologi dell’Università di Bristol, in Gran Bretagna, hanno messo a punto un curioso esperimento, volto a verificare l’importanza dell’espressività facciale durante il corteggiamento, come fonte di informazione fra possibili partner. Gli studiosi hanno selezionato 28 bei ragazzi e li hanno filmati, eliminando la colonna sonora, mentre parlavano di vari argomenti in modo che potessero esprimersi sia con espressioni dolci, controllate, rassicuranti, sia con atteggiamenti disinvolti, disinibiti, seduttivi. Per rendere più sinteticamente decodificabile le espressioni del volto hanno creato un disegno animato ottenuto con un semplice tratto lineare dei visi e ne hanno standardizzato le forme incrociando le fattezze dei vari soggetti. Alle animazioni sono state poi accoppiate scritte di dichiarazioni socialmente corrette e decisamente antisociali. Per esempio, accanto ai filmati di volti dolci, gli esperti hanno scritto frasi virgolettate gentili, come "cerco di aiutare chi ha meno di me", o "rispetto chi è diverso". Al contrario, sotto le immagini più fascinose, comparivano frasi di forte carica antisociale, come "gli anziani sono un peso per la società", "odio gli immigrati" e così via. Filmati e animazioni sono stati poi presentati a molte donne che hanno selezionato i visi che trovavano più attraenti nell’eventualità di scegliere l’uomo adatto per una relazione a breve o a lungo termine. Risultato: in genere le donne interessate a un rapporto di lunga durata hanno dichiarato di preferire gli uomini che facevano dichiarazioni socialmente corrette. Mentre quelle disponibili a un rapporto a breve hanno preferito gli uomini più seduttivi, indipendentemente dalle dichiarazioni loro attribuite, dimostrando così di essere disposte a innamorarsi di una "canaglia", anche a rischio di doversene poi pentire amaramente. «La classica canaglia, non importa se simpatica o no, affascina molte donne per la sua trasgressività, per il suo atteggiamento di sfida. In fondo, poi, lei non crede che lui sia così cattivo come sembra, e pensa: "io ti salverò"», commenta la psicoterapeuta della coppia Gianna Schelotto. Andrew Clark, portavoce del gruppo di ricerca, spezza però una "lancia biologica" a favore delle donne pronte a lasciarsi affascinare: «Un uomo più seduttivo e evidentemente interessato al sesso, anche se poco serio, mostra più vigore e disinvoltura sociale, ambedue atteggiamenti rilevatori di "buoni geni", utili per la procreazione, anche in rapporti brevi» dichiara. Questo tipo di interpretazione che punta sull’inconsapevole tendenza biologica dell’individuo a scegliere i partner più adatti alla procreazione è alla base di molte ricerche. Studi dell’Università della California di Los Angeles hanno dimostrato che in genere la donna, quando è vicina ai giorni del ciclo in cui è fertile, preferisce l’uomo con espressione del volto lineamenti e odore più maschi. «Ma in questo settore - osserva Chiara Simonelli, psicosessuologa dell’Università La Sapienza di Roma - le interpretazioni genetiche sono spesso esasperate, mentre si trascura l’importanza dell’esperienza accumulata da ciascuno fin dalla nascita». E a proposito degli studi, prevalentemente americani, su mimica e sessualità, Alberto Oliverio, psicobiologo della stessa Università, sottolinea:«Più che per la biologia evoluzionista queste ricerche possono essere utili per il business. Le conclusioni scientifiche possono servire ai creatori di immagine per rendere più attraente anche dal punto di vista sessuale l’espressione dei modelli che pubblicizzano questo o quel prodotto: una carta vincente per indurre il consumatore all’acquisto».
«Corriere della sera» del 4 novembre 2007

I Turchi si scordino l’impero

Turchi, Curdi, Armeni
Di Christopher Hitchens
Nel secolo appena trascorso, le vittime del genocidio o del tentato genocidio sono state - per la stragrande maggioranza - gli armeni, gli ebrei e i curdi. Durante quest’ottobre, gli avvenimenti e la politica sembrano essersi alleati per attizzare la conflittualità esistente fra i tre popoli. Che cosa possiamo imparare da questo fallimento dell’umanità? Per ricapitolare: al solo suggerimento che la Camera dei rappresentanti americana potrebbe accogliere una risoluzione che riconosce i massacri in Armenia del 1915 come un’azione pianificata di «sterminio razziale» (era questa la definizione dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau in un’epoca in cui la parola genocidio non era stata ancora coniata), le autorità turche hanno ribadito la minaccia di invadere le province autonome curde nel Nord dell’Iraq. E molti ebrei americani si sono sentiti lacerati tra la solidarietà verso questo popolo oppresso e martoriato e il loro sostegno agli interessi nazionali di Israele, che mantiene una collaborazione strategica con la Turchia, e in particolar modo con le forze armate turche, fortemente politicizzate. Per illustrare questo quadro sconsolante, si potrebbe cominciare con alcune distinzioni. Nel 1991, nel Nord dell’Iraq, dove aleggiava ancora l’odore del gas nelle cittadine e nei villaggi del Kurdistan colpiti da Saddam, avevo sentito dire da Jalal Talabani, dell’Unione patriottica del Kurdistan, che i curdi dovevano chiedere scusa agli armeni per l’appoggio dato agli Ottomani all’epoca del genocidio. Talabani, che ha spesso ripetuto questa affermazione, è oggi il presidente dell’Iraq. (Considero questa dichiarazione spontanea come prova determinante, dato che i popoli più fieri non sono inclini a offrire scuse per crimini vergognosi che non hanno commesso). Di conseguenza, è ovvio che Talabani si è visto puntare addosso armi e missili turchi, in quanto leader iracheno e curdo. E qui occorre fare un’ulteriore distinzione: molti di noi, pur sostenendo con convinzione i diritti e le aspirazioni dei curdi, nutrono seri dubbi sul cosiddetto Partito dei lavoratori del Kurdistan, ovvero il Pkk. Si tratta di un’organizzazione stalinista, simile a Sendero Luminoso. Il tentativo messo in atto da questa fazione ribelle per sfruttare la nuova zona di libertà rappresentata dal Kurdistan iracheno è parecchio irresponsabile e si presta direttamente al gioco di quegli elementi dell’esercito turco che sono pronti a riportare in vita il nazionalismo kemalista contro il governo del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, giudicato troppo morbido nei confronti delle richieste avanzate dai curdi. E qui rileviamo un paradosso, in quanto i satrapi in uniforme che pretendono di difendere il secolarismo turco sono spesso più reazionari del Partito per la giustizia e lo sviluppo, di ispirazione islamista. I generali hanno posto il veto a un incontro all’inizio di quest’anno tra Abdullah Gül - oggi presidente della Turchia ma allora ministro degli Esteri - e il governo regionale curdo in Iraq. Basta questo a dimostrare che vogliono sfruttare la questione dei confini e del Pkk come argomento divisorio di politica interna. La situazione è assai complessa, ma il Congresso e il suo ramo esecutivo l’hanno trattata con spaventosa disinvoltura. La risoluzione armena è una vecchia storia. Ricordo ancora quando venne sollevata dal senatore Bob Dole e bloccata dall’allora presidente Bill Clinton. Peccato non averla affrontata con fermezza anni fa. Oggi il Congresso e la Casa Bianca, intimoriti persino davanti alla parola curdo, fanno di tutto per non attentare all’orgoglio nazionale turco. E di conseguenza, per farla breve, sono proprio gli Stati Uniti e i loro alleati a ricevere le pressioni di Ankara, anziché il contrario. E questa è una situazione francamente indegna. Nel 2003 le autorità turche, che avevano sfruttato per decenni il sostegno americano e della Nato, hanno rifiutato alle basi americane in Turchia il permesso di entrare in azione su un «fronte del Nord» nell’invasione dell’Iraq, a meno che non fosse consentito alle loro forze armate di seguire gli americani fin nel Kurdistan iracheno. L’amministrazione Bush giustamente si rifiutò di accettare questo baratto. Il danno provocato dall’orgoglio ferito della Turchia si rivelò enorme: nessuno ne parla, ma se la coalizione avesse attaccato Bagdad da due direzioni, molte aree sunnite avrebbero compreso sin dal primo momento che il cambiamento di regime era ormai irreversibile. La presenza dei ribelli del Pkk in quei giorni non rappresentava una questione prioritaria, anche se la Turchia puntava semplicemente a prevenire l’instaurarsi di qualsiasi forma di autonomia nel Kurdistan iracheno che avesse potuto rappresentare un incitamento o un appoggio alla minoranza curda presente sul suo territorio. Occorre pertanto mettere in chiaro alcune cose. L’Unione Europea, alla quale la Turchia vorrebbe aderire con l’appoggio entusiastico degli americani, insiste affinché vengano riconosciuti i diritti linguistici e politici dei curdi all’interno della Turchia. E’il minimo che si possa chiedere. Se i turchi preferiscono invece continuare a diffondere menzogne ufficiali su quello che accadde agli armeni, non possiamo accontentarli facendo lo stesso, e certamente dovremmo respingere e condannare ogni minaccia contro l’America e i suoi alleati che la Turchia potrebbe sollevare qualora il Congresso si decida ad affermare la verità. Resta ancora aperta la questione di Cipro, dove la Turchia mantiene una forza di occupazione che è stata a più riprese condannata da un’infinità di risoluzioni dell’Onu sin dal 1974. Non dobbiamo acconsentire che la nostra condotta venga condizionata dall’arroganza turca. Faremo anzi un favore alla democratizzazione e modernizzazione di quel Paese se sapremo insistere che vengano ritirate le truppe da Cipro e dai confini dell’Iraq, che la Turchia affronti una volta per tutte la verità storica sull’Armenia, e che la smetta di comportarsi come se il potere fosse ancora nelle mani dell’Impero Ottomano.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007

Vivere inseguendo l’amore lontano

Il romanzo di Paola Mastrocola
di Giorgio De Rienzo
Lidia, protagonista narrante del nuovo libro di Paola Mastrocola Più lontana della luna (Guanda, pagine 296, 16), abita in un ex podere reale di Stupinigi, con il padre operaio alla Fiat e la madre che vende al mercato frutta e verdura. Nel «niente» della sua vita la ragazzina attende qualcosa che la ravvivi da quel «cadavere» che è. Ha solo la terza media, ma un giorno le capita di leggere la poesia di un antico «trovatore», di cui viene a sapere che per tutta l’esistenza amò una principessa da lontano, senza averla vista mai. Quell’«amore da lontano» diventa per lei un’idea fissa, che non mette bene a fuoco, ma l’affascina. Inizia così la ricerca. Vuole «trovare» questo amore a ogni costo, perché lei si sente un «trovatore» come il poeta. Parte il 25 ottobre del 1970 all’avventura: può andare intanto a cercare a Milano Diego, un ragazzo conosciuto al mare, che le ha mandato una cartolina. Ma non sarà lui di certo l’uomo della vita: potrebbe un «trovatore» vivere i suoi sogni con «uno dei tanti, grigio e con l’aria di lavoro»? No, che non può. Lidia perciò torna a casa e avrà altre esperienze fallimentari: immagina d’amare un pittore che è invece un avvocato; si fidanza con un ingegnere e sta per sposarsi, ma, presa dal panico, scappa di nuovo. Parte ora in sella a un cavallo: da «trovatore» si trasforma in «cavaliere» e vaga per l’Italia fino a quando, galoppando in un «immenso prato verde», vede la figura di un uomo vestito di bianco che lei si figura come un «guerriero». Ma scopre presto che è un impiegato alla posta con la passione dell’aikido: un uomo banale che non si può amare da lontano. Risale allora in sella e va a Pisa dove, per puro caso, incontra un grande illusionista, da cui è attratta magneticamente. Forse è la volta buona. L’uomo che fa sparire e ricomparire cose e persone dal nulla è un giramondo. Si chiama Micael ed è molto vecchio. Le insegna che «vedere e non vedere le cose» (nonché la vita) è «solo questione di luce» e prospettiva. Lidia trascorre qualche giorno con lui «infelicemente felice». Ha la «sensazione vaga» di «aver trovato finalmente un amore perfetto: appena nato e già finito, ma anche non finito, perché era come se non fosse mai cominciato. Un amore fermo, che non aveva un tempo e dunque non nasceva e non moriva, da tenere soltanto nella mente, da coltivare intatto come un sempreverde». La Mastrocola è una scrittrice così: allegramente strampalata, narra storie sognanti che piacciono ai lettori, con un linguaggio minimale sempre a rischio di cadute, appena si sposta dalla sua semplificazione estrema: «Il tempo, andando a cavallo, si sfilaccia, diventa lungo e un po’bianchiccio». Così capita che nel dire si possano mettere «mille puntini di sospensione nella voce». Non solo. La Mastrocola non costruisce una struttura narrativa, va avanti e indietro un po’a caso, riempie le pagine con diversivi. E qui, giacché il racconto è ambientato negli anni Settanta e Ottanta, infila notizie di cronaca tremende (Calabresi e Pinochet, Pasolini e Moro), solo per dire che a tutto ciò la sua stralunata protagonista è indifferente.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007

I veri bulli? Sono i genitori La scuola raccontata dai prof

In «Mal di scuola» le voci, la rabbia, e le speranze degli insegnanti
di Sergio Rizzo
«A metà febbraio il preside Ugo Castorina fa sequestrare undici cellulari ad altrettanti studenti di una terza classe e appena rientrato in ufficio scrive una circolare per proibirli durante le ore di lezione. All’uscita i genitori dei ragazzi marciano inferociti per riprendersi i telefonini dei figli. La macchina del preside viene bloccata e circondata, volano insulti e manate. Un assedio, con i carabinieri che si devono mettere fisicamente in mezzo per evitare il linciaggio». Il preside si salva, ma ancora non può immaginare quello che succederà dopo qualche giorno. «Il 3 marzo, è un sabato, quando suona la campanella insieme agli scolari entrano anche il padre e il nonno di un ragazzo di seconda. Vogliono ritirare una pagellina, che sanno già non essere delle migliori. Castorina dice loro di aspettare nella sala d’attesa. Il nonno replica in modo poco conciliante: "Vieni fuori che ti dobbiamo ammazzare". Il padre non apre bocca, parte con una testata, pure il nonno si dedica con zelo alla missione. Intervengono professori e bidelli, una insegnante si prende un pugno in faccia, Castorina finisce invece al pronto soccorso...». Succede anche questo, nelle scuole italiane. E non succede soltanto a Bari, nel quartiere San Paolo, dove passa la frontiera fra civiltà e degrado. Perché «un San Paolo esiste in quasi ogni città». La storia di Castorina è raccontata insieme ad altre undici in un libro che esce oggi in libreria. Si intitola, semplicemente: «Mal di scuola». L’ha scritto per la Rizzoli Marco Imarisio, inviato del Corriere, che ha raccolto in tutta Italia le testimonianze del disagio. Il male profondo, sempre più radicato, ha trasformato la scuola italiana, essa stessa, nel territorio di frontiera. Perché se «un San Paolo esiste in quasi ogni città», non è detto che il disagio sia sempre frutto del degrado. Per esempio a Cagliari, scrive Imarisio, «la risposta va cercata sotto gli ombrelloni del Lido, lo stabilimento più esclusivo del Poetto, la spiaggia che per quattro mesi diventa l’agorà di Cagliari». Dove «tra un bagno di sole e uno in acqua i genitori degli aspiranti liceali o maturandi si informano su parole, opere e omissioni dei professori. Se bocciano, se sono severi, quali sono i buoni e quali i difficili». Testimonianza di Valeria Meili, professoressa di Lettere al Giovanni Maria Dettori, il liceo classico che a Cagliari è considerato più che un’istituzione: «E una volta che i figli sono dentro, si comportano di conseguenza. Ci sono alcuni genitori che riducono la partecipazione alla vita scolastica a una mera ingerenza. Al non voler accettare che i figli possano subire delle sconfitte». Non sono casi isolati, anzi. «Valeria dice che è lecito preoccuparsi perché questa tipologia di genitori è in continuo aumento». Con conseguenze che la professoressa di Cagliari giudica devastanti: «Disconoscono quella poca autorità che ci resta. Ci mettono al livello dei loro figli, come fossimo compagni di classe e non insegnanti. Contestano ogni valutazione e trasmettono ai ragazzi la convinzione che non ci sia differenza fra loro e il docente». E allora, conclude Valeria Meili, «perché dovrei fregiarmi del mio titolo di professoressa, che suona a questo punto vuoto e privo di significato, quando per molti genitori non sono che una carta di quel castello che essi costruiscono intorno ai figli, fatto di abiti griffati, cellulari, viaggi giusti e scooter?». Non che fra gli insegnanti manchi qualche mela marcia, come dimostrano altre piccole storie tratte dai verbali degli ispettori chiamati a verificare casi di cattiva gestione didattica che nel libro «Mal di scuola» separano un capitolo dall’altro. In un grande liceo scientifico del Nord il preside aveva imposto questa linea: «Comunque promuovere». Si era così arrivati al risultato storico (quanto assurdo) del cento per cento di ammissioni all’esame di maturità, compreso l’alunno T.D., che a scuola non si era quasi mai fatto vedere. «Più che assente, era da considerarsi latitante», sottolinea Imarisio. Il preside aveva avuto anche il coraggio di presentare trionfalmente alla stampa questo risultato, prova «del livello di assoluta eccellenza raggiunto dal suo istituto». In un altro liceo, questa volta tecnico professionale, gli ispettori avevano invece scoperto una specie di gioco al massacro fra un professore di discipline economico-aziendali e il dirigente scolastico. Un gioco del quale gli unici a fare le spese erano gli studenti, sottoposti a un’autentica doccia scozzese con il voto: prima un diluvio di otto, poi una valanga di due. Ma alla fine, spunta dal nulla Ciro Naturale. Trentadue anni, abita in una strada del quartiere napoletano di Barra dove nemmeno i taxi vogliono entrare. È nato lì, con «vicini di casa che si sedevano in cortile e oliavano i loro kalashnikov davanti a tutti». Aveva contro il mondo intero. All’esame delle medie nemmeno lo volevano interrogare, tanta era la fretta «di levarselo di torno. Lui invece aveva studiato, in geografia aveva preparato l’Argentina per via di Maradona». Così, racconta Imarisio, quando gli dissero «Naturale può andare», Ciro «si mise a urlare, che Naturale non andava da nessuna parte, se volevano che andasse, prima dovevano fargli almeno qualche domanda». Ciro Naturale si è laureato. Adesso fa l’educatore, lavora anche dodici ore al giorno per una manciata di euro al mese sulla base di progetti finanziati dalla Regione. «Una volta un ragazzo disse che sembrava una guardia giurata». Il suo compito è cercare di sottrarre i ragazzi di Barra dal destino dei loro padri. Qualche volta ci riesce, molte altre no. Vive in sedici metri quadrati con la moglie e due figlie, lo pagano quando capita ma lui da Barra non se ne va. «Per capire che la scuola ha davvero bisogno di uno come lui, basterebbe entrare a casa sua. Guardare il frigorifero sul quale c’è un televisore vecchio e scassato che quasi tocca il soffitto. Basterebbe questo per avere un’idea della forza che ci vuole. Fidarsi, di Ciro Naturale». E sono le ultime parole del libro.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2007

«In Cina nel 2006 10 milioni di aborti»

Per la prima volta svelati i dati sulle interruzioni delle nascite
di Fabio Cavalera
Il governo ammette: «Emergenza nazionale»
Il quotidiano governativo China Daily riporta, fra le righe di un commento pubblicato in una pagina interna, un dato preoccupante e nuovo: nell’ultimo anno ci sono stati «almeno dieci milioni di aborti». Il numero è elevatissimo e se la fonte non fosse ufficiale ci sarebbe da dubitare. Invece, questa è la realtà presentata con giustificato allarme dai ginecologi cinesi e dagli esperti di pianificazione demografica e di controllo delle nascite. Il caso non ha nulla a che vedere con la «one child policy», la politica del figlio unico, e con la determinazione precoce del sesso che è una consuetudine vietata ma ugualmente molto diffusa nelle aree rurali, avendo lo scopo odioso di sopprimere il feto femmina in quanto il lavoro nei campi ha bisogno di braccia forti. Parliamo di altro. È possibile confondere e sommare due questioni - il cosiddetto «aborto selettivo» e l’aborto effettuato per totale negazione del desiderio di maternità e paternità o per colpevole ignoranza - che hanno come denominatore comune l’assenza di un sostegno pubblico alla modernizzazione della cultura familiare, rigidamente patriarcale, strutturata autoritariamente attorno alla figura maschile e poco disposta per tradizione a condividere e trasmettere la conoscenza di una sessualità dolce e matura. L’articolo del China Daily affronta una diversa «emergenza». L’interruzione volontaria della gravidanza è la faccia nascosta di un problema sociale che sta emergendo ovunque, nelle campagne povere quanto nelle città mediamente benestanti e istruite, e che riguarda soprattutto i giovani: l’assenza di una efficace e puntuale educazione sulla contraccezione che pure è indicata come strumento primario per la programmazione dei trend di crescita della popolazione. L’intimità, per gli adolescenti cinesi, è un passaggio della vita che viene esplorato senza che prima vi sia da parte dei padri e delle madri, della scuola e tanto meno delle strutture sanitarie un intervento o un supporto utile alla loro consapevole appropriazione dell’eros. Si viola il mistero nel più incosciente e anche nel più rischioso dei modi. Con la conseguenza che ragazze ancora minorenni si ritrovano costrette a subire, non una ma addirittura due o tre volte, l’intervento con le gravi ricadute di carattere psicologico che ciò determina. Due ricerche sono state condotte per approfondire la comprensione del fenomeno. A Pechino su 8846 donne, che avevano abortito in dieci ospedali della capitale e avevano accettato di rispondere al test, il 36 per cento ha ammesso di avere interrotto la gravidanza in più occasioni. A Shanghai un numero verde, istituito per offrire un aiuto di base, ha fugato qualsiasi perplessità: sono arrivate 20 mila telefonate, quasi tutte di studentesse, fra i 15 e 20 anni, rimaste incautamente incinte perché a digiuno - al pari dei loro partner - di una minima conoscenza del cosa fare e come fare. «Il microcosmo di una questione nazionale». Il commento del China Daily, apparso ieri senza firma dunque approvato dalle autorità, titola: l’educazione sessuale è necessaria. «Sebbene le ragioni dietro agli aborti differiscano, il fattore principale è la mancanza di conoscenza sull’"autoprotezione" e una educazione insufficiente, specie fra i giovani». Poi due ammissioni che sono una fotografia drammatica: ragazzi e ragazze «affrontano la tematica dell’aborto come se dovessero trattare un raffreddore», inoltre molte ragazze ammettono di «avere avuto relazioni con maschi dei quali ignoravano persino il nome, amicizie nate semplicemente via internet» e morte nel giro di brevissimo tempo dopo qualche incontro fugace. La conclusione è: «Il Paese e la società devono porre rimedio a questa situazione perché minaccia la salute delle donne e provoca problemi sociali». È dunque indispensabile che le scuole facciano della educazione sessuale una loro priorità. Non vi è dubbio che la consapevolezza di una «emergenza nazionale» sia già un segnale positivo per la sua gestione. Ma quali ne sono le cause? Il commento del China Daily va in una direzione precisa, forse scontata: è colpa dei «contenuti volgari che da Internet entrano nei cervelli» dei giovani. Come se il male fosse sempre e solo uno.
«Corriere della sera» del 28 ottobre 2007