12 ottobre 2007

Prima del Signore degli Anelli: il prologo della saga che Tolkien non scrisse

Draghi, incesti, combattimenti e tentazioni sataniche: esce in Italia, rielaborata dal figlio, la parte mancante del celebre libro
di Luigi Offeddu
Muore Glaurung, il dragone dalle 7 lingue di fuoco. E «come ogni essere che muore», rivela la verità a chi gli sta accanto: «Salve Nienor, figlia di Hurin, ci incontriamo per l’ultima volta. Sei felice, alla fine hai ritrovato tuo fratello. E ora scoprirai chi è: un sicario che colpisce nell’ombra, un traditore degli amici, una maledizione per la sua stessa stirpe: lui, Turin, progenie di Hurin! Ma il peggiore di tutti i suoi lasciti, lo troverai dentro te stessa». Un figlio nato dall’incesto, è questo il «lascito» che lei si porta nel grembo e che mai vedrà la luce, perché la povera Nienor, appresa la verità, si getterà da una rupe: il figlio concepito con Turin, suo fratello. Turin, colui che aveva voluto chiamarsi Turambar, «Padrone dell’Ombra e del Destino», e che dal proprio destino è stato invece beffato e straziato. Fino al suicidio, chiesto alla sua spada: «Spada della morte, non ti tirerai indietro? Mi trafiggerai in un guizzo?» «Sì, berrò il tuo sangue...». Sembra - fatte le debite distinzioni di stile, profondità e potenza - l’universo tragico di Edipo e Medea, Amleto e Jago. O quasi. Ma questo è l’universo di J.J.R.Tolkien, ben prima che vi domini il Signore degli Anelli. Siamo all’inizio di tutto, nell’«inverno dei tempi» o «Prima Età del Mondo», nei «Giorni antichi» della Terra di Mezzo. Cieli cupissimi, profezie di sciagura. Mancano 6.500 anni al giorno dell’alleanza fra Uomini ed Elfi: i giocondi Hobbit, proprio come il Signore degli Anelli, non sono ancora comparsi. Tutto è immerso in un’ombra arcaica: è il «prologo», la genesi del mito fiabesco. E perché il mito sia tanto tenebroso, in queste sue origini, lo spiega forse la biografia dell’autore: era il 1918, e Tolkien era appena tornato dagli orrori della Grande Guerra, quando mise mano per la prima volta a questo magma onirico e poetico. Passava notti insonni, ricordi sanguinosi lo tormentavano, dalle trincee si era portato dietro le malattie del fante. Ma aveva l’ossessione di raccontare ai suoi lettori il «prima», le radici della grande saga. Vi lavorò a lungo, e alla fine lasciò perdere, trascinato da altre storie. Gli appunti, centinaia di fogli, rimasero nei cassetti, seppure riaffacciandosi qui e là in qualche brano della trilogia. Finché, morto lo scrittore, li riprese il terzo figlio di Tolkien, Christopher: altri 20-30 anni di rielaborazione, ed ecco I figli di Hurin, libro annunciato presto in uscita anche per l’Italia. Personaggi e trame sono, almeno nella sostanza, quelli di Tolkien padre. La mano che ha ricucito insieme il tutto, è quella del figlio. Risultato: un’epopea assai più tenebrosa di tutte le altre tolkeniane, incesto, suicidi, gelosia e tradimento; libro da vietare ai minori, secondo alcuni critici inglesi, soprattutto se diverrà un film; nuovo, possibile incanto di poesia secondo altri (in Italia Rocco Buttiglione lo ha descritto come il suo libro delle vacanze). Al centro del racconto, «in un tempo inconcepibilmente remoto», è appunto la stirpe di Hurin, «l’Uomo». «Deciso, sanguigno, allegro», come lo descrive Christopher Tolkien, Hurin non teme nessuno: combatte valorosamente nella «Battaglia delle innumerevoli lacrime», e viene catturato dal dio più maligno, «colui che è da prima che fosse il mondo», Morgoth, il Nemico Nero, archetipo non troppo mascherato di Satana. Che minaccia il suo prigioniero: «Dimmi dove si trova il regno segreto degli Elfi, il regno di Gondolin. Dimmelo, o sarai perduto». Hurin si rifiuta, e Morgoth lo maledice: «Su quelli che tu ami graverà il mio pensiero come nube di sventura, ovunque essi andranno, trascinandoli nella disperazione». Hurin viene poi legato su un trono di pietra, da dove potrà vedere ciò che accadrà ai suoi cari. Una figlia, l’eterea Urwen soprannominata «Lalaith» o «Risatina», gli è già morta da piccola. Ma a casa è rimasta la moglie, Morwen «coraggiosa e fiera», che sta per partorire ancora. E Turin, il primogenito, «dai capelli corvini come la madre: non era mai allegro, parlava poco... era facile alla pietà e la sofferenza dei viventi lo commuoveva fino alle lacrime». Nel giro di pochi mesi, Turin partirà alla ricerca del padre. E così non conoscerà Nienor o «Pianto», la sorellina che nascerà poco dopo. Fra bande di fuorilegge, e in terre stregate, molti altri personaggi si affacciano al racconto, e sono quasi tutti personaggi tragici. C’è, per esempio, il nano Mim: «Sono vecchio, e povero. Sono solo un nano, non un orco. Non lasciare che mi uccidano senza ragione, come farebbero appunto gli orchi». E c’è Beleg, elfo che come nessun altro sa maneggiare l’arco e le frecce. Egli ha per Turin una vera adorazione, ma proprio questo affetto diviene la sua condanna: una notte, durante una tempesta, trova infatti il suo amico che gli Orchi hanno legato a un albero; e lo libera, tagliando con Anglachel, la sua spada, le corde che lo avvincono. Ma nell’agitazione, con quella stessa spada, Beleg ferisce Turin a un piede. Turin è confuso, stordito, non riconosce quell’ombra, crede che sia uno degli Orchi tornati a tormentarlo: così, con un grido, ghermisce la spada dalle mani dell’altro e lo uccide. Uccide il suo salvatore. In quell’attimo, un lampo illumina il cielo, «e Turin restò muto e pietrificato davanti a quella morte spaventosa, comprendendo ciò che aveva fatto». Passano gli anni, altre avventure. Turin torna alla sua casa deserta, abbandonata. Ma non trova pace: gli hanno detto che la madre è andata via, insieme con la sorellina nata nel frattempo. E il destino chiama: il destino «truccato» malvagiamente da Morgoth. Così, l’eroe riparte. E poco dopo, incontra quella tal ragazza bellissima: i due non sanno nulla l’uno dell’altro, si innamorano, si sposano, concepiscono un figlio. Nonostante i moniti di Brandil, un cugino innamorato anch’egli di Nienor («Aspetta, aspetta un poco...»). E nonostante i presagi di sventura: Turin, spinto da chissà quale angoscia, ribattezza la sua bella Niniel, o «Madre delle Lacrime». Su tutto prevalgono ancora e sempre gli inganni di Morgoth, che confonde le menti. E si compie la sua maledizione. Alla fine, dei fratelli incestuosi e suicidi resta solo il nome dato alla loro terra: «Sarch nia Chin hurin», «Tomba dei figli di Hurin». Meno male che, 6.500 anni più tardi, arriveranno i sorrisi degli Hobbit.
J. R. R. Tolkien (1892 -1973) si dedicò a I figli di Hurin nel 1918, prima di scrivere i suoi capolavori, Lo Hobbit (1937) e Il signore degli anelli (1954-55). Alcuni brani degli appunti sono inseriti in altre opere come Il Silmarillion.
Il figlio Christopher Tolkien ha trasformato gli appunti del padre nel volume I figli di Hurin, uscito in Gran Bretagna da Harper Collins. In Italia, illustrato da Alan Lee, esce il 10 ottobre da Bompiani che pubblica tutte le opere di Tolkien
«Corriere della sera» del 17 agosto 2007

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