15 ottobre 2007

L’orrendo fascino che non muore mai

di Stefano Zecchi
Una Storia della bruttezza (Bompiani, pagg. 455, euro 35) raccontata attraverso cose belle: questo è il paradosso del libro a cura di Umberto Eco. L’autore è molto esplicito: se è possibile sapere ciò che in una determinata cultura si considera brutto, è grazie alla sua rappresentazione artistica che giunge sino a noi. Per esempio, nel capitolo VI del libro, La bruttezza della donna tra Antichità e Barocco, per illustrare l’argomento è riportato il quadro di Giorgione, La vecchia. Immagine indiscutibilmente brutta, non perché deforme o disgustosa, ma perché l’artista veneto riesce a sprigionare attraverso lo sguardo, la pelle, i capelli della donna l’essenza stessa del brutto: un’opera bellissima.
Per esempio, nel capitolo II, «La passione, la morte, il martirio», la bruttezza è testimoniata dal quadro di Pieter Bruegel il Vecchio Trionfo della morte. Corpi squartati o devastati dalla malattia, scheletri che camminano, uomini fustigati, impiccati: un orrore. Un quadro bellissimo.
Sembra che la bruttezza possa essere raccontata e descritta solo attraverso la bellezza delle opere d’arte. Ma il libro non si limita alle testimonianze della pittura: per documentare la storia della bruttezza, Eco raccoglie anche testi letterari, riflessioni filosofiche tutte molto belle, che diventano ancora più belle tra le immagini dei singoli capitoli. Un esempio è il brano di Kafka, tratto da Nella colonia penale, assolutamente inaspettato, che Eco con grande sensibilità e arguzia inserisce tra quadri raffiguranti streghe, sabba, orge.
In questo accostamento del testo letterario al quadro si coglie un’altra difficoltà che presenta la storia della bruttezza, e, quindi, il modo in cui Eco intende superarla. Mentre una storia della bellezza (ce ne sono in quantità e anche fatte bene) si sviluppa facilmente attraverso lo sguardo delle epoche storiche, l’analisi della bruttezza può prevedere una scansione storica? No; un mostro è sempre un mostro nel Medioevo come nel Romanticismo, un corpo deforme è brutto nel mondo classico come nel mondo romantico. E infatti il libro è suddiviso per capitoli che confondono le epoche della nostra cultura con temi specifici, come il Diavolo, la stregoneria, la donna, il mostro. E, anche se Eco ci avvisa che «il brutto è relativo ai tempi e alle culture», è anche vero che una cosa orribile resta orribile: ciò che cambia è, appunto, la nostra disponibilità percettiva, il sentimento del disgusto e dell’orrore. Una volta si poteva essere terrorizzati dall’immagine di un Diavolo che mangia un peccatore, oggi ci fa sorridere. Lo spiegava bene Bertolt Brecht, osservando una maschera di legno antico appesa di fronte alla sua scrivania: «Quanto è difficile», diceva, «rappresentare oggi il brutto e il cattivo!».
Arriviamo alla contemporaneità, «al trionfo del brutto» scrive Eco in uno degli ultimi capitoli del libro. La documentazione dell’argomento ci è sempre fornita da opere d’arte importanti: un ritratto di Man Ray, un quadro di Boccioni o di Carrà, di Salvador Dalí o di Francis Bacon. Ma in questi capolavori non si assiste al trionfo del brutto, bensì al fatto che la bellezza non è più una categoria usata nel giudizio estetico. Generalmente è sostituita con quella di sperimentazione formale.
Oggi, conclude Eco, «ci viene ripetuto da molte parti che si convive con modelli opposti perché ormai l’opposizione brutto/bello non ha più valore estetico: brutto e bello sarebbero due opzioni possibili da vivere in modo neutro». E a dimostrazione di ciò sono descritte le manifestazioni cyborg, splatter, quelle dei «morti viventi». E se fossero solo mode enfatizzate dai mass media? si chiede Eco. «Nella vita quotidiana», egli dice, «siamo circondati da spettacoli orribili... Bambini muoiono di fame, ridotti a scheletri dalla pancia gonfia... Donne stuprate dagli invasori... corpi umani torturati... Ciascuno sa che queste cose sono brutte, non solo in senso morale, ma in senso fisico». È il brutto che apre alla pietà, come è testimoniato da una bellissima pagina di Italo Calvino che Eco riporta a conclusione del suo lavoro. Dimenticando però che c’è una bruttezza che non può ispirare pietà ma sdegno, che esprime un’ignoranza voluta, scientificamente e politicamente, dei principi elementari di una cosa bella: perché Eco non riporta una, una sola fotografia di una periferia urbana progettata da celebri architetti?
Di fronte allo Zen di Palermo, al Gratosoglio di Milano, al Corviale di Roma, a Punta Perotti si possono avere incertezze, si può dire che il brutto è soggettivo e relativo, si può ancora dire che «brutto e bello sarebbero due opzioni possibili da vivere in modo neutro»?
«Il Giornale» del 15 ottobre 2007

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