02 ottobre 2007

L’affaire Gramsci

I diritti d’autore sono stati gestiti dall’Istituto fondato dal Pci. Giuseppe Vacca: avevamo il consenso della famiglia
di Antonio Carioti
Copyright sulle opere, la denuncia degli eredi Il nipote: «Fino al ‘96 non ricevemmo nulla»
Il titolo era «Così hanno fatto morire mio padre». La firma: Antonio Gramsci. Era il nipote dell’omonimo leader comunista che, sull’Unità del 28 luglio scorso, denunciava le condizioni pessime in cui si era trovato a Mosca il padre, Giuliano Gramsci, nei suoi ultimi giorni di vita (è scomparso il 23 luglio), alle prese con una sanità russa degradata e indifferente verso i cittadini. Se ne deduceva tra l’altro che i discendenti del pensatore sardo non vivono certo in condizioni floride, se hanno dovuto rivolgersi a strutture così poco affidabili in una situazione tanto delicata. Eppure - viene da pensare - i diritti d’autore sulle opere di Antonio Gramsci, un grande classico politico del Novecento tradotto in tutto il mondo, avrebbero dovuto assicurare ai suoi eredi la tranquillità economica. In realtà nel 1996 Giuliano Gramsci, intervistato da Repubblica (21 gennaio) e dall’Espresso (2 febbraio), sosteneva di non aver mai visto un quattrino di quelle somme. E non era soddisfatto neppure della soluzione data in seguito al problema, tanto è vero che si era rivolto a un avvocato di Carpi, Anna Maria Sgarbi, per chiarire la situazione. Questa signora ha frequentato Giuliano Gramsci a partire dal settembre 2003 e con lui ha realizzato un libro (non ancora uscito), di cui Ettore Mo ha scritto sul Corriere del 27 aprile: «Lo conobbi - ricorda - mentre ero a Mosca per concludere dei contratti. A presentarmelo fu il mio interprete, Alexander Makhov, che era stato suo compagno di scuola. Giuliano venne a trovarmi in albergo ed ebbi subito l’impressione di una persona che viveva in dignitosa ristrettezza economica. Mi colpì la storia di quel figlio che non aveva mai conosciuto il padre, se non attraverso lettere in cui, a Giuliano e al fratello Delio (scomparso nel 1982), Antonio Gramsci, dal carcere, scriveva pietose bugie. Raccontava che stava molto bene, si trovava in un bellissimo castello e così via». Nacque così l’idea di un volume composto da lettere nelle quali il figlio del leader comunista si rivolgesse idealmente al padre. Però Giuliano pose una condizione: «Mi chiese quasi uno scambio di favori. Avrei scritto il libro con lui, ma voleva che mi occupassi della questione dei diritti d’autore relativi alle opere del padre». La faccenda, come già ricordato, era emersa nel 1996: la pubblicazione di un’edizione delle Lettere gramsciane da parte di Elvira Sellerio, a cura di Antonio Santucci, aveva suscitato la reazione polemica dell’Istituto Gramsci, con tanto di un seguito giudiziario. «Sellerio - ricorda Antonio Gramsci jr. al telefono dalla Russia - ci offrì circa ventimila dollari per il copyright delle Lettere. Noi avevamo intenzione di accettare, ma poi intervenne l’Istituto Gramsci: ci dissero che Sellerio stava commettendo una scorrettezza e ci chiesero di concludere un accordo per la ripartizione dei diritti d’autore». Quindi la situazione mutò: «Da quel momento - spiega l’avvocato Sgarbi - Giuliano aveva cominciato a ricevere una modesta somma annuale, intorno ai quattromila euro, dall’Istituto Gramsci. Ma a lui non bastava: voleva capire esattamente che diffusione aveva avuto l’opera di suo padre, quali profitti aveva prodotto per gli editori e quanto spettava agli eredi». Diverso il quadro dipinto dal presidente dell’Istituto Gramsci, Giuseppe Vacca, il quale innanzitutto smentisce che la famiglia Gramsci non abbia ottenuto nulla fino al 1996: «Nel 1938 la vedova di Gramsci, Julia Schucht, condivise la tesi del Comintern che le lettere e i quaderni del marito, morto l’anno prima, venissero considerati parte integrante dell’archivio storico del Pci, al quale le carte furono affidate. Palmiro Togliatti scelse per la pubblicazione l’editore Einaudi, che ha tuttora la gestione dei relativi diritti, ad esempio per le traduzioni all’estero. Fino al 1996, i proventi del copyright vennero ripartiti in misura eguale tra l’Istituto Gramsci e la famiglia dell’autore, la metà per uno». Comunque sia, anche a prescindere dal fatto che nell’Urss del 1938 (al culmine del Grande Terrore) sarebbe stato piuttosto imprudente sollevare obiezioni su una tesi del Comintern, è chiaro che si trattava di una prassi dalle basi legali piuttosto fragili, specie dopo la morte di Julia Schucht, avvenuta nel 1980. Di qui la svolta del 1996, determinata dall’iniziativa di Sellerio. «La materia - spiega Vacca - fu allora regolata con un contratto che estendeva anche al cinquantennio precedente il riconoscimento, da parte degli eredi, della Fondazione istituto Gramsci come gestore dei diritti a loro nome, essendo stati trasferiti dal Pci all’Istituto dopo la prima edizione dei Quaderni e cioè alla metà degli anni Cinquanta. Si decise con quell’atto anche una nuova suddivisione di quanto si ricavava dal copyright: 80 per cento alla famiglia e 20 per cento all’Istituto». D’altronde, prosegue Vacca, i diritti d’autore degli scritti gramsciani non hanno mai fruttato somme rilevanti: «Negli ultimi tempi la cifra complessiva era intorno ai diecimila euro annuali: l’Istituto ne tratteneva duemila, mentre quattromila andavano a Giuliano e altrettanti agli eredi di suo fratello Delio. Si può controllare sui nostri bilanci, cui sono allegati i rendiconti dell’Einaudi. D’altronde anche nel passato le opere gramsciane non hanno mai realizzato grandi tirature, come si evince dalla nostra pubblicazione Togliatti editore di Gramsci. Vendettero alcune decine di migliaia di copie: i Quaderni intorno alle 30-40 mila, le Lettere qualcosa di più». Insomma, le difficoltà economiche degli eredi del leader comunista non dovrebbero stupire. Il fatto è che sul contratto del 1996 le versioni coincidono, mentre su quanto avvenuto prima il figlio di Giuliano contraddice Vacca e conferma le dichiarazioni del padre: «Fino a quell’accordo - ripete Antonio - non abbiamo ricevuto proprio nulla, mentre per esempio gli eredi di Boris Pasternak, pur vivendo in Urss, incassavano dall’estero le somme relative ai diritti d’autore per le opere del padre. Si diceva in famiglia che mia nonna Julia avesse ceduto i diritti al Pci, ma era una specie di leggenda, non suffragata da alcun atto scritto. Quanto meno l’Istituto Gramsci non ci ha mai mostrato alcun documento del genere». Anna Maria Sgarbi insiste sull’aspetto giuridico della vicenda: «Si tratta di sapere a che titolo i diritti d’autore sono stati versati all’Istituto Gramsci: ovviamente la base non può non essere quella di contratti che presuppongono la proprietà di tutte le lettere e degli altri scritti di Antonio Gramsci. Giuliano ha sempre sostenuto che la sua famiglia, prima del 1996, non aveva ceduto nulla. Inoltre Makhov, che continua a seguire la vicenda a Mosca, mi ha comunicato che, in una recente pubblicazione uscita in Russia, si faceva riferimento a una lettera in cui Julia Schucht si rivolgeva al ministero degli Esteri italiano, chiedendo che fossero tutelate le opere del marito, anche in relazione agli interessi dei figli. Io credo che la questione del copyright vada chiarita fino in fondo, se non altro per un debito morale nei riguardi di Giuliano Gramsci».
«Corriere della Sera» del 13 agosto 2007

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