18 ottobre 2007

Il Paradiso non c'è, ma siamo destinati alla felicità

Nel nuovo libro, «Oltrepassare», il filosofo lancia la provocazione: la morte non esiste
di Armando Torno
Emanuele Severino disegna uno scenario ultraterreno alternativo a ogni fede
Che cosa angoscia l'uomo da sempre? La risposta è semplice: la morte. Lo sapevano già egizi, babilonesi ed ebrei, lo compresero magnificamente i greci, a Roma Lucrezio spiegò le conseguenze mondane e religiose di questa paura. Ma forse tali caratteristiche le ebbe (le ha) quella morte che non lascia una possibilità di salvezza. Il nulla che ci avvolge, per dirla in parole semplici. Giacché siamo fatti della stessa sostanza di cui sono composti i sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno: così, almeno, scrisse ne La Tempesta il sommo Shakespeare.
Emanuele Severino ha mostrato in Gloria (Adelphi, 2001) come la salvezza da questo concreto nulla non sia una semplice possibilità ma una vera e propria necessità, perché «l'uomo è atteso dalla terra che salva». In altri termini, anche se non lo sa o non se ne accorge o non ci crede, ognuno di noi è in cammino verso un immenso che non immagina. E ora il discorso, che si dipana attraverso scenari a dir poco sconvolgenti, è affrontato da Severino in un'altra opera, che esce in questi giorni e alla quale ha lavorato negli ultimi anni: Oltrepassare (Adelphi). In essa un messaggio forte e sintetico colpisce il lettore: noi siamo destinati alla felicità, per necessità e non come premio. E la vita eterna non è quella di cui parlano le religioni. Per talune tematiche il libro è, rispetto a Gloria, «rischiaramento e sviluppo», il medesimo autore lo considera come la seconda parte e la naturale conclusione (p. 30); tuttavia in questa nuova opera si mostra come «la terra che salva» sia «infinitamente più ampia, cioè più salvatrice».
Non soltanto: in Oltrepassare il senso autentico del divenire rivela una «complessità che in Gloria non viene ancora indicata». Insomma, pagine ricchissime di spunti, da meditare, che portano alle estreme conclusioni quel discorso che il maestro italiano avviò nel 1958 con La struttura originaria. Severino ha filosofato partendo dalle istanze iniziali del pensiero occidentale e ha sempre tenuto presente il principio di non contraddizione insegnato da Aristotele. Anzi, egli ha via via indicato i punti deboli di molti edifici abitati dal nostro sapere. In un colloquio ci ha fatto notare che all'alba della sapienza greca si è cercato un linguaggio che non potesse essere smentito né dagli uomini né dagli dei, meno che mai da variazioni epocali o catastrofi o da qualsiasi innovazione dell'anima. Eraclito di Efeso, sei secoli prima della nostra era, raccomandava di non ascoltare lui ma il Logos, vale a dire qualcosa da cercarsi oltre le opinioni. Severino ha sempre percorso tale via sino a giungere a Oltrepassare: con questa opera apre scenari che parlano di «attesa e gloria della gioia», invitando il lettore in quella costellazione dove «l'essenza dell'uomo, che ora è contesa dal destino e dalla terra morta, è destinata alla più ampia arcata d'immenso».
La domanda che ha accompagnato la sua instancabile ricerca — che cosa si apre al di là della contraddizione? — ora trova requie in una risposta che si confonde con il nostro sorriso. Detto in soldoni, a noi sembra che il messaggio di Oltrepassare sia la conferma per il pensiero di Severino che «l'estrema delle follie», vale a dire la persuasione che le cose e l'uomo «sporgano provvisoriamente dal nulla», rappresenti il più terribile degli equivoci. Ci confida: «La gran ventura è rendersi conto che c'è un sapere non smentibile, più radicale di quello scientifico, che afferma l'eternità di ogni cosa, situazione, stato del mondo». Tale sapere è il «destino». Qualcuno ha trovato una corrispondenza tra codesti temi e la teoria della relatività, per la quale tutte le cose— le passate e le future, non meno delle presenti— sono fotogrammi che esistono già, eterni, prima dello loro proiezione. Ma questa metafora deve essere abbandonata, giacché ci può aiutare ma non ci consente di entrare nell'ultima fase rappresentata in Oltrepassare. Si può essere d'accordo o no con Severino, comunque gli va riconosciuta una coerenza estrema nel linguaggio e nel metodo.
Gli abbiamo chiesto di sintetizzare il suo percorso, in modo da offrirlo senza equivoci al lettore. Ha risposto: «Ne La Gloria si mostra che l'ombra della Notte, cioè della follia, da cui "il destino" è nascosto, è qualcosa che tramonterà ed è necessariamente "oltrepassata": con essa finiranno anche le opere, le civiltà e le epoche ad essa appartenenti. Si fa innanzi il Giorno che salva dalla Notte. In Oltrepassare si mostra che il Giorno è lo stesso apparire in noi della totalità infinita e concreta dell'essere ». Parlare con Severino è una continua sorpresa. Mentre risponde, alcune sue frasi si ficcano come spilli nella memoria. Inoltre Oltrepassare conduce in scenari a dir poco affascinanti, per i quali vale la seguente regola: «Il linguaggio che testimonia il destino della verità indica qualcosa che sta al di là di ogni sapienza dei mortali». Attraverso queste pagine si comprende come «il cambiamento — il divenire — non può essere la creazione e l'annientamento delle cose, che sono eterne »; anzi ogni mutare si dovrebbe intendere come «il sopraggiungere mai compiuto degli eterni nell'eterna luce dell'uomo».
Di più, ribadisce nel nostro colloquio, sillabando: «Nel sopraggiungere gli eterni sono oltrepassati e insieme totalmente conservati. Tutta questa nostra vita è destinata a essere oltrepassata e conservata in ognuno di noi». Chi scrive, più semplicemente, rivede in Oltrepassare un foglietto volante inserito nella dispensa dell'Università Cattolica di Ritornare a Parmenide. In esso le ultime righe — che poi non saranno riprese ne L'essenza del nichilismo — recitavano: «Tutte le vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che ho deciso o decido, l'ho già eternamente deciso...». Ora ci accorgiamo che quelle parole erano l'inizio di un'odissea alla ricerca di quanto si svela in questo ultimo libro, nel quale, tra l'altro, Severino affronta il tema dello «smembramento del Dio», atto essenziale perché «se ne mangino le carni e se ne beva il sangue». Ma qui il discorso si fa ampio: occorre evocare il mito, comprendere la violenza e l'isolamento delle cose, il loro divenire altro. Accanto a questi e a ulteriori scenari, troverete alcune commoventi riflessioni sulla nostra fine. Con una conclusione che in molti giudicheranno paradossale: la morte, così come la intendiamo, non esiste. Ma non si tratta di un'affermazione assurda, se vista nella luce che si apre dopo il tramonto della follia attuale dell'uomo.
«Corriere della sera» del 18 ottobre 2007

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