19 ottobre 2007

Chiusi, onesti, pieni di meschinità celtica. Odiano i meridionali senza averne la forza

«Se preferisci l’Ariosto a una maniglia d’ottone ti credono pazzo»
Di Carlo Emilio Gadda
I Rusconi non fumavano: non si sa bene perché non fumassero, forse per igiene, forse per economia. Ma certo le sigarette con quello stemma d’Italia non erano cosa che doveva entrare nelle loro grazie: associavano l’idea delle Macedonia a quella delle guardie di finanza, della Regìa, dello Stato Italiano, dello Stato dei meridionali. Comperare delle Laurens, o delle Capstain non gli era passato mai per il cervello: buttare in fumo tanti denari. Compatti, orgogliosi, borghesi, avevano dei celti il morboso culto della propria supposta intelligenza, non il franco eroismo dei celti: brontolavano contro i meridionali, ma nessuno di loro avrebbe mai osato contrastare ai dettami d’un meridionale, anche perché non ne avevano il potere o la forza o l’ingegno: appartenevano a quella stirpe chiusa, onesta, che può essere simboleggiata, in biologia, dal grosso topo detto «pantegana» da noi, che corre i fossi e sbuca subito di tra il folto delle urtiche e subito si rintana, sapiente nella sua cotenna e codardo. Appartenevano a quella gente che sorride di pietà e di superiorità quando parla del governo, ma che è assente da tutte le attività del governo: assente dall’amministrazione, dalla magistratura, dall’esercito, dalla marina, dall’insegnamento. Non esistono milanesi della classe colta e «dirigente» che siano generali, ammiragli, giudici, ingegneri del genio civile, ufficiali del genio navale, o professori di università. La ricca borghesia milanese sorride di commiserazione a sentire che uno è professore d’università: il presentarsi come professore di filosofia o di diritto romano o di storia antica in un salotto milanese equivale a farsi ricevere con un’occhiata di commiserazione. Soltanto chi fabbrica scaldabagni o maniglie di ottone stampato è una persona degna di considerazione a Milano. La degenerazione della tendenza industriale, l’unilateralità della cultura, la meschinità celtica della loro boria, il bongeismo bastonato dalla caporalaglia del Bonaparte, il secolare cattivo gusto rendono impossibile la vita in Milano 1930, a uno che voglia dedicarsi agli studi. Lo studio nel giudizio milanese è un mezzo di «laurea»; la laurea è come un foglio di congedo dal servizio militare, null’altro. I giovani della borghesia milanese studiano otto anni il latino per essere incapaci di tradurre una frase di Cicerone. Quando in un piccolo villaggio d’Abruzzo o di Sicilia un tale è salutato «professore», il titolo di professore gli vale qualche rispetto, se altre qualità negative non lo additano alla severità delle comari. Ma a Milano essere professore è cosa ritenuta indegna di persona che si rispetti: spazzino municipale è già una carica molto superiore nell’esternazione dei milanesi. Interminabili tiritere contro i professori e le scuole si sentono ad ogni piè sospinto negli illuminati salotti della borghesia pacchianissima, lodi dell’attività pratica, inni allo scaldabagno, ditirambi verso le maniglie di ottone stampato. Il professore è un essere meschino, dalle idee ristrette, incapace di attività e di modernità, che vive del suo Cicerone come il tarlo nella vecchia mensola, che non capisce nulla della vita; anche se il professore è una donna, e se questa donna alleva, poniamo, i suoi figli a furia di sacrificio e di attività. Nessuna pietà, verso chi studia o desidera studiare, nella Milano 1920-30. Il ladro, il ruffiano, la prostituta, il cocainomane, l’omosessuale di professione, il ricattatore, il ricettatore, il contrabbandiere di stupefacenti, la meretrice malata, il finto prete e l’oblato francescano in cerca d’avventure vengono a Milano aiutati, nutriti, confortati, soccorsi, difesi: ma se uno vuoi leggere Orazio o Spinoza, poiché la natura gli fa preferire l’Ariosto allo scaldabagno e l’Analitica del Könisberghese alle maniglie di ottone stampato, quest’uomo è sicuro di essere ritenuto un pazzo da tutte le più aforistiche donne lombarde. I cinquemila e cinquecento pisciatoi della virtuosa città pullulante di persone «pratiche della vita»: ma il professore che un po’curvo per ragione del mestiere legge e lavora e pensa, e può dir cose utili e sagge alle nuove generazioni istupidite dalle sciocche iperboli della Gazzetta dello Sport, il professore è additato al disprezzo pubblico, conspiré, bafoué. Questa è l’intima "cultura" milanese in questi primi decenni del sec. 20. Eppure, come nel passato erano i cadetti a occuparsi delle cose della guerra e dello spirito, militari e preti, perché la terra non consentiva ai suoi nati una moltiplicazione infinita: così anche oggi molte famiglie agiate d’una città che in ragione della sua grandezza offre motivo di più vasta pratica ed esperienza di vita, che non altre, anche oggi molte famiglie potrebbero utilmente avviare i loro secondi e terzi nati alla marina, all’amministrazione, al foro di giustizia, al magistrato dell’acque e dei lavori di strada, all’esercito e a qualunque bisogna che si dia, dove lo scarso ma certo emolumento del Regio Governo può venir integrato da quella dote che l’agiatezza famigliare consente di conferire al suo giovine. Così si avrebbero, presenti all’Amministrazione, elementi buoni e fedeli e relativamente disinteressati. E invece li scaldabagni, a tutti i costi e contro ogni verosimile criterio di opportunità. E così si moltiplicarono le fabbriche e le fabbrichette, le officine e le officinette, le maniglie e le manigliette: ma non troverete una porta che chiuda né una finestra che tenga, perché il genio della meccanica e della vita pratica suggerisce sì le maniglie e il cavatappi contro il Maledetto Spinoza, ma non ha né mai avrà virtù tali da far maniglie tali che servino a chiuderle.
«Corriere della sera» del 3 ottobre 2007

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