02 ottobre 2007

Adorno cattivo maestro. Dei critici

L’autore di «Con le peggiori intenzioni» contesta allo studioso Giorgio Ficara il pessimismo sui romanzieri di oggi
Di Alessandro Piperno
«Snob e aristocratico, condiziona ancora i giudizi Ma la tv di massa non corrompe la letteratura»
Una delle cose che capisci, dopo un po’di pratica, è che anche il più sofisticato romanzo, se non ravvivato dall’ingombrante carisma d’un personaggio emblematico, è destinato a deperire sotto il cumulo di fuliggine dell’Oblio. La memoria di opere quali la Recherche, l’Ulisse, La montagna incantata - tanto per citare romanzi notoriamente inaccessibili - è affidata all’ascendente d’una dozzina di memorabili figure umane che, pur non avendo mai avuto il privilegio di esistere, si sono installate in quel condomino iper-esclusivo già da tempo abitato da Manon Lescaut, Lucien de Rubempré, per non dire di tutti gli altri. Perfino uno snob come Vladimir Nabokov non trovava indecente ammettere che il suo nome sarebbe rimasto associato a un’impertinente ninfetta ritta sul suo unico calzino. Forse la ragione per cui troviamo così tanta difficoltà a terminare La morte di Virgilio di Herman Broch o a entrare in un libro di Robbe-Grillet è proprio perché questi due eccellenti artisti pensavano che i personaggi fossero robaccia da «scrittori all’ingrosso» (la definizione è di Musil). E tutto questo non sfugge all’intelligentissimo Giorgio Ficara. Che apre il suo ultimo libro di saggi - intitolato Stile Novecento - con una dichiarazione che suona come un’inequivocabile scelta di campo: «Innanzitutto io amo un personaggio». Sì, Ficara sta dalla parte del personaggio, e quindi del romanzo. Tanto che a un certo punto, facendo sua un’abbagliante osservazione di Ortega y Gasset, scrive: «I grandi romanzieri del passato hanno non tanto raccontato, o rappresentato, ma realizzato l’epoca in cui vivevano». Balzac ha inventato il Faubourg Saint-Germain, non l’ha riprodotto. La vita sta sempre qualche spanna dietro all’arte. La vita va al trotto mentre l’arte galoppa su immaginarie praterie mai prima battute. Ficara confida così tanto in questa idea che non ha alcun ritegno a ribaltare il deperito cliché pirandelliano: non sono i personaggi che vanno in cerca dell’autore. Ma è il povero autore - sudato e trafelato - che arranca dietro al personaggio, ansioso che questi gli sveli il mistero inestricabile della sua epoca. È lo straordinario prestigio che Ficara accorda al personaggio a spingerlo a polemizzare con scrittori del calibro di Croce, Debenedetti, Forster, Lukács, Ortega y Gasset. E con tutti coloro che hanno visto nella trasformazione del personaggio avvenuta nel Novecento una regressione. Ficara difende Mattia Pascal e Palomar dall’accusa di essere personaggi incompiuti, non umani e palpitanti come Emma Bovary. Ficara rivela come essi vantino una parentela con Jacques il Fatalista o con Tristan Shandy (è noto l’interesse per il Settecento dei grandi romanzieri novecenteschi!). Ficara vede in questi personaggi non totalmente umani una forma di «realizzazione» della disumana epoca in cui sono stati creati. E per questo li rispetta, e li ama: «Quando Ortega, Lukács, e Bachtin (...) auspicavano un ritorno al personaggio nel senso tradizionale di personaggio-uomo in effetti dimenticavano (o ignoravano) la lezione, pur tanto clamorosa, del Fu Mattia Pascal». Di quale lezione si tratta? Quella contenuta in un interrogativo che falcidiò tutta la carriera artistica di Pirandello, che così Ficara sintetizza: «Che fare, precisamente ed esattamente, di un personaggio del tutto nuovo che si è posto sulla scena?». Già, che farne? Beh, non resta che aspettare. Sarà lui a indicarci la strada. Si evince come l’atteggiamento di Ficara sia straordinariamente progressivo. Di come lui - partendo dal presupposto che il romanzo sia un genere popolare, muovendo dall’assunto che esso sia per noi quel che l’epica era per gli antichi - confidi nella forza indistruttibile degli intrecci narrativi e dei grandi personaggi. Di come lui, in polemica con la neoavanguardia, creda nella «prerogativa di socievolezza di ogni grande letteratura». Per lui il romanzo è come uno di quei fiori che attecchiscono ovunque, che si abituano a qualsiasi clima. Che non temono né il freddo né il caldo. Che fingono di appassire per poi rifiorire più forte che mai. Sì, ci crede. Ma non fino in fondo. Alla fine del suo libro, infatti, nella sezione dedicata all’Italia contemporanea, Ficara rivela la sua frustrazione storica. Ora, mi sembra inopportuno entrare nel merito della giovane narrativa italiana (per chi non lo sapesse, faccio vergognosamente parte della categoria). E tuttavia non posso non notare come Ficara, parlando dei nostri tempi, perda la sua forza propulsiva, imploda in un pessimismo un po’rigido, incorrendo nell’errore dei maestri da lui fustigati poche pagine prima. C’è un’atmosfera di dismissione, di fine della festa, nell’ultima parte di Stile Novecento (forse perché il Novecento è andato in pensione?). La speranza nel futuro che Ficara dichiara è più una formalità che una fiaccola che gli scalda il cuore. Naturalmente in questo non c’è nulla di male. Immagino che professare il proprio pessimismo sia un diritto garantito dalla Costituzione. Ciò che non mi convince è l’argomentazione di fondo che spinge Ficara alla disillusione. Lui ce l’ha con «il vischioso e planetario cousinage mediatico» della comunicazione di massa dell’era televisiva. Questo, secondo Ficara, giustifica ogni pessimismo. Forse sarò io capzioso, ma tale analisi mi sembra incongruente rispetto all’impostazione del libro che, come dicevo, è un inno alle infinite possibilità del romanzo di rinnovare se stesso «realizzando» anche la meno nobile delle epoche. Ma so anche che dietro il discorso di Ficara si sommuove il nero fantasma di Adorno. È lui, quel vecchio inacidito snob, che leggevamo ai tempi dell’università compiaciuti dall’indignazione che solo lui sapeva infonderci, il grande corruttore. È lui, con il suo cattivo umore, ad averci impartito lezioni di aristocrazia apocalittica. Forse è venuto il tempo di contrastarlo. E chissà che le «invasioni» che lui considerava fatali alla letteratura - e che non a caso Ficara cita nell’ultima pagina del suo libro - non siano il prezioso diamante del romanzo a venire?

Ficara, professore ordinario di Letteratura italiana dell’Università di Torino, ha appena pubblicato per Marsilio il saggio «Stile Novecento» (pagine 242, 20)
«Corriere della sera» del 4 agosto 2007

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