31 luglio 2007

Visioni: l’incubo del disastro futuro

Un libro ripercorre le «distopie» del Novecento da Kafka a Orwell, da Huxley a Bradbury Un viaggio letterario sugli scenari apocalittici di un’epoca che ha perso la speranza nel lieto fine
di Giuseppe Iannaccone
Con buona pace di Tommaso Moro, all’utopia sembra non credere nessuno. Nella letteratura, ma anche nel cinema, nelle fiction o nei fumetti, il luogo ideale e illusorio dell’«isola che non c’è» affascina sempre meno. Forse perché oggi c’è ben poco da stare allegri, l’happy end non è più verosimile e la fantasia è sempre più attratta dalla catastrofe, dal terrore e dalla paura. Si può pensare che questo piacere del tragico imminente contenga una buona dose di esorcismo: evocare ciò che ci spaventa è anche un modo per scacciarlo. Resta però il fatto che, superata la soglia del Duemila, le isole sognate da Defoe o Stevenson sono sostituite da universi crudeli e senza speranze o da regimi oppressivi e alienanti. Superato il sogno idilliaco dell’esotico e dell’avventuroso, prolifera invece la moda letteraria di un genere paradossale (ma non troppo), chiamato «distopia», il quale si compiace di concepire scenari del disastro e creare un paesaggio raccapricciante del nostro immaginario, dove il progresso diventa incontrollabile, l’apocalisse è a portata di mano e l’umanità è ridotta a brandelli.
Un interessante libro di Francesco Muzzioli (Scritture della catastrofe, Meltemi, pagg. 288, euro 21,50) censisce ora questo continente, popolato in tutto il Novecento di rappresentazioni dell’incubo collettivo. Non si tratta tanto di semplice fantascienza: il «meraviglioso scientifico» di Asimov o di Star Trek preconizza futuri troppo lontani per mettere paura e il carattere seriale delle spedizioni spaziali in fondo rassicura, visto che i cataclismi non sono mai definitivi. Né la minaccia al nostro pianeta viene solo dalla bomba atomica, dall’angoscia della guerra tecnologica o dalla desolazione del «dopobomba» (si pensi all’Huxley de La scimmia e l’essenza e al Philip Dick delle Cronache del dopobomba). Il male può vincere infatti soprattutto nella coscienza degli individui e nelle più classiche suggestioni della distopia: l’autoritarismo, la repressione poliziesca, il potere del dispotismo. E il mondo, fattosi omologato e senza alternative, non può che essere definito «kafkiano»: quale aggettivo migliore per indicare una società conformista, allucinante e insensata che schiaccia l’individuo, inchiodandolo a un tribunale imperscrutabile, senza addebito né prova?
Il processo di Kafka è l’esempio di tutta una letteratura che illumina con angoscia profetica la perdita di valore del soggetto nei meandri di un sistema oppressivo che annulla la personalità. Un modello che farà scuola, adattato a contatto con le terribili esperienze storiche del Novecento. George Orwell, in 1984, descrisse la capillarità del controllo poliziesco nel regime sovietico; ma prima di lui già Evgenij Zamjatin, col suo My (ormai introvabile: a quando una ristampa italiana?), aveva immaginato un «noi» uniformato, sciolto nel collettivismo forzato, con uomini che non hanno nomi ma solo numeri, soggetti a una pianificazione che ha tolto loro finanche la parvenza dell’identità. Storie che individuano soprattutto nel disinganno tragico del comunismo il meccanismo più infernale: l’utopia si converte nella distopia crudele, e l’ideologia che pretende di dare la libertà si traduce in una burocrazia raffinata che la nega.
Nella Russia sovietica è ambientato, ad esempio, L’uomo è forte di Corrado Alvaro, in cui il protagonista preferisce essere condannato piuttosto che essere controllato e sottoposto a una rete sinistra di tradimenti, delazioni e false accuse. All’uscita del libro, nel 1938, qualcuno vi lesse tra le righe una denuncia del clima di sospetto aleggiante anche nell’Italia fascista: si trattava di un riuscito travestimento? Alvaro negò ogni ambiguità, ma il libro venne vietato nella Germania nazista. Troppo realistico forse. Del resto, il secolo passato, che ha reso le ideologie parenti strette delle utopie, ha trasformato anche la fantascienza più cupa in una copia quasi fedele della realtà. Come scrive giustamente Muzzioli, che cosa sono gli olocausti, gli stermini e le torture se non spaventose «scritture della catastrofe»? Primo Levi e Solzenicyn hanno ben poco da invidiare a Orwell e non serve più l’immaginazione, sia pure nel suo lato più nero, ad annunciare la rovina con tanto di data di scadenza (il 1984 di Orwell o il 2001 di Arthur Clarke e di Stanley Kubrik).
Nel Mondo nuovo, Huxley preannuncia uomini fabbricati in provetta in giganteschi centri di incubazione, imbottiti e programmati sin dalla nascita a svolgere determinate funzioni; Ray Bradbury attende in Fahrenheit 451 un futuro in cui leggere libri sia un reato. Ma senza saperlo, sulle tracce della più inquietante distopia, e in anticipo sui tempi e sulle macabre previsioni della fantascienza apocalittica, s’erano già messi altri al disopra di ogni sospetto: Svevo aveva scritto nell’ultima pagina della Coscienza di Zeno che presto un’«esplosione enorme» avrebbe ridotto la terra a nebulosa errante nei cieli «priva di parassiti e di malattie». E prima ancora, Leopardi nelle Operette morali aveva incaricato un Folletto di avvertire uno Gnomo riemerso dalle viscere della terra che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Un modo come un altro per capovolgere i luoghi comuni di slogan ottimisti e ricordare, alla faccia dei solerti cantori delle «magnifiche sorti e progressive», che un mondo peggiore è (sempre) possibile.
«Il Giornale» del 28 luglio 2007

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