17 luglio 2007

Se il latino torna per arricchire

Né dividere né mortificare
di Carlo Cardia
Il cristianesimo non conosce una lingua sacra, perché ogni parola e ogni lingua è santa quando si rivolge al Signore. L'universalità della Chiesa si fonda anche sull'universalità del linguaggio di ciascun uomo, perché la preghiera viene dall'intimo della coscienza e si esprime nei modi e nelle forme che sono elaborati nella storia, ed è diretta a Dio che unifica tutto il genere umano.
Si può leggere in questo quadro la decisione di Benedetto XVI che con il Motu proprio Summorum Pontificum permette la celebrazione della liturgia, quale forma più alta di preghiera, secondo il rito latino tradizionale senza alcune limitazioni del passato.
La lingua classica torna ad avere un suo posto nei riti liturgici, per il clero, per i fedeli, senza per questo contrapporsi alle lingue nazionali, ma si unisce ad esse per rispondere a quell'esigenza di pluralismo che la Chiesa ha sempre tenuto in considerazione e che oggi si manifesta nella polifonia dei cristiani di tutto il mondo.
Può crescere l'armonia nelle diverse componenti della Chiesa. Una armonia fondata sulla possibilità di pregare secondo la sensibilità culturale, e linguistica, di ciascuna comunità, e di ciascun fedele. Si completa la polifonia del popolo di Dio con una lingua, come quella latina, che non appartiene al passato ma testimonia un cammino e una cultura che sono propri dell'Europa, dell'Occidente, di tanti altri popoli. Si arricchisce il rapporto con altre comunità cristiane che nel latino vedono il deposito religioso e umanistico che ha contribuito ad edificare e diffondere la Chiesa.
Quindi il latino torna non per dividere ma per unire e arricchire. La riforma di Benedetto XVI unisce la comunità cristiana perché nessuno si deve sentire, neanche indirettamente, mortificato per una sensibilità che avverte interiormente. La arricchisce perché conferma che il suono della preghiera, e della liturgia, non cambia secondo il suono delle parole e della lingua nelle quali viene pronunciata.
Chi recita il Pater noster, sa che esso (in latino, in italiano o altra lingua) ha lo stesso suono dell'invocazione a Dio per accostarsi a lui e manifestargli i bisogni più profondi dell'uomo, perché è il suono dell'interiorità e della confidenza non quello della grammatica o della sintassi. Il Papa conferma oggi che ogni lingua del mondo è degna e meritevole di rivolgersi a Dio e di elaborare preghiere, e tra tutte le lingue, anche il latino ha una sua legittimità cresciuta nella storia dell'umanità e della Chiesa, nell'interiorità di tanti fedeli.
Forse sentiremo ripetere da qualche parte osservazioni critiche, di tipo sociologico o politologico, che cercheranno nel Motu Proprio di Benedetto XVI motivazioni e finalità nascoste, o interpreteranno l'innovazione in termini di conservatorismo culturale. A queste osservazioni si potrebbe rispondere che, tra gli effetti indotti della riforma, ci sarà anche quello di salvare la lingua latina dal definitivo declino. Ma sarebbe una risposta povera. È meglio dire, con tutta franchezza, che le osservazioni profane sulla lingua della liturgia, fuori della comprensione di ciò che è la preghiera, non hanno senso, sono estranee alla nostra materia.
La nostra materia riguarda tutti coloro che sanno, o vogliono, o desiderano, pregare e accostarsi alla liturgia cristiana. Per costoro, usare la lingua italiana, la lingua della propria nazione e del proprio popolo, o celebrare la Messa in latino risponde allo stesso identico bisogno di avvicinarsi a Dio, di colloquiare con lui, di interrogarsi nella propria intimità, di cercare una dimensione più alta e insieme vicinissima all'uomo.
«Avvenire» dell’11 luglio 2007

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