18 luglio 2007

«Pannoloni», «mummie»: i giorni degli insulti sull’età

di Gian Antonio Stella
Rita Levi Montalcini non capisce un fico secco di politica? Può darsi. Ed è del tutto legittimo, per la destra, attaccarla a causa del suo appoggio al governo Prodi. Perfino con toni adatti a giovani senatori maschi con spalle da rugbisti. Come è del tutto legittimo, sia pure incoerente (anche il primo governo Berlusconi nacque solo grazie a loro), chiedere l’abolizione del diritto di voto dei senatori a vita. Ma è giusto sputarle in faccia come un insulto d’essere «vecchia»? Non è la prima volta, capiamoci. Il primo a sollevare il tema, nel ‘94, fu Franco Zeffirelli che, eletto a Palazzo Madama, descrisse la sua soddisfazione per la svolta che pareva aver spazzato via la Prima repubblica con parole che forse oggi, compiuti gli 84 anni ed essendo dunque più anziano di quanto fossero allora Gianni Agnelli e Paolo Emilio Taviani e Giovanni Spadolini, rimpiange. Gioiva infatti per «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Norberto Bobbio, che di anni ne aveva allora 85, ne fu ferito al punto che quando gli diedero una laurea ad honorem a Sassari dedicò la lectio magistralis al tema «De senectute», ricordando che quel giorno in Senato «quelli che un tempo si sarebbero chiamati con una solennità, lo ammetto, che appare oggi un po’ridicola, vegliardi, furono chiamati senza tanti complimenti, "quei vecchioni"». E sorrise: «Il tema ebbe qualche giorno di gloria, tanto che un giornale, riassumendo il dibattito, lo pose sotto il titolo "Giovinezza, giovinezza"». Non è mai stato facile, diventare vecchi. E forse non ha neppure troppo senso, oggi, ricordare come gran parte della storia dell’umanità, quando la storia correva di meno, sia stata segnata dal rispetto per chi aveva accumulato più esperienza. Tra i Patriarchi della Bibbia viene ricordato che Abramo visse 175 anni, Giona 180, Giacobbe 147, Ismaele 137, Mosè 120, Giosuè 110... Per non dire di Matusalemme, che avrebbe vissuto fino all’età di 969 anni, o di suo figlio Lamec: 777 anni. Che il computo degli anni, come pensano gli studiosi, fosse fatto in base ai cicli lunari o alle stagioni per cui tutte le età andrebbero ricalcolate molto al ribasso, importa fino a un certo punto. Ciò che conta è che l’età veneranda, nella cultura ebraica come in quella cinese, indiana, greca (Epimenide di Creta sarebbe vissuto 157 anni, Georghios di Mitilene 108, Isocrate 98...) o romana era associata all’autorevolezza. Alla sapienza. Per carità, non è la nostra la sola società crudele con gli anziani. Basta dare un’occhiata al sito www.anging.it per leggere che tra gli «Yakute, popolazione del nord-est siberiano, il padre era padrone delle greggi ed esercitava sui figli una autorità assoluta, potendo venderli e persino ucciderli; ma, quando si indeboliva, veniva scacciato di casa, picchiato e ridotto alla mendicità». O che gli eschimesi «lasciavano i vecchi, con poco cibo, su un kayak, che poi andava alla deriva». Né l’insofferenza per i vecchi, dai quali siamo destinati ad esser circondati sempre di più se è vero che un italiano su quattro è già ultrasessantenne e la nostra età media è di 41 anni (49 nel 2030) contro i 26 della popolazione mondiale, è nuova. Chi non ricorda Guido Gozzano? «Venticinqu’anni!... Sono vecchio, sono/ vecchio!.../ Venticinqu’anni!... Ed ecco la trentina/ inquietante. torbida d’istinti/ moribondi.../ ecco poi la quarantina / spaventosa, l’età cupa dei vinti/ poi la vecchiezza, l’orrida vecchiezza/ dai denti finti e dai capelli tinti». Il modo in cui negli ultimi mesi sono stati trattati i senatori a vita, però, va oltre. Perché non si è trattato solo di qualche insulto isolato, come quello che anni fa eruttò Maurizio Gasparri nei confronti di Indro Montanelli, bollato come un rimbambito: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello». Qui c’è un coro crescente che coinvolge pezzi interi della classe dirigente di centrodestra. La quale, com’è ovvio, ha il sacrosanto diritto di polemizzare e scazzottare con tutti, da Oscar Luigi Scalfaro a Carlo Azeglio Ciampi, da Sergio Pininfarina a Giulio Andreotti. E il sacrosanto diritto, si diceva, di proporre l’abolizione del diritto di voto. Cosa sulla quale, del resto, ha detto di essere d’accordo «in linea di principio» anche un senatore a vita come Francesco Cossiga. Ma se nessuno oserebbe fare sparate giornalistiche sugli storpi, i ciechi o i mutilati, si possono mai fare titoli come «La dittatura dei pannoloni», titolo che spinse lo stesso Cossiga ad auto-definirsi orgogliosamente «io, senatore-pannolone»? Ha un senso descrivere persone che qualcosa alla Patria l’hanno data, nei campi della scienza, dell’economia o della cultura, come vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante»? Ha una madre o un padre anziani chi ha messo ieri a nove colonne il titolo «La ricetta di Nonna Rita / Una badante per il governo» sottolineando che è del 1909? Per non dire di un articolo, sulla Padania dove una cronista è arrivata a scrivere che all’«assenteista» Montalcini dovrebbe essere dato «un secondo Nobel, quello sui neuroni fantasma» e che dovrebbe fare «la badante dei cervelli» e che avendo scritto saggi sulla «Sclerosi multipla in Italia» non dovrebbe salvare col suo voto un parlamento «sclerotizzato, tanto da rendere mummificato il Paese». Conclusione: «Mummia più, mummia meno...». Un peccato. Al di là delle ragioni e dei torti, un Paese che non ha rispetto del suo passato può avere un futuro?
«Corriere della sera» del 15 luglio 2007

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