17 luglio 2007

Ma Benigni può rendere Dante amico dei nostri ragazzi

Mi sfugge il motivo. Intendo il motivo per cui il critico Franco Cordelli possa biasimare il ministro Fioroni di aver fatto un accordo per far girare il dvd della lettura della Commedia dantesca di Benigni nelle scuole. Sì, Cordelli dice che secondo lui Sermonti è più serio di Benigni, che c'è il rischio di banalizzare etc etc. Lo dice ma non lo dimostra. Dice che Benigni in quanto lettore pubblico è anche un critico, e come critico a Cordelli Benigni non piace. Ma dove siano gli errori critici di Benigni Cordelli non lo dice, e dunque ci sfugge il motivo. Chi ha visto le letture-spettacolo di Benigni sa bene che lì non viene banalizzato Dante. Lo ha notato anche uno dei più grandi studiosi danteschi, l'americano Bob Hollander e me lo disse il compianto Mario Luzi. Anzi, in quelle serate davanti a migliaia di persone Dante emerge in tutta la sua commovente grandezza portato da un "guitto" felice di averlo addosso. Già dissi su queste colonne e ho "rivelato" a Benigni stesso che tale spettacolo incarna qualcosa che veniva auspicato da T.S. Eliot in uno scritto del '19. Ma forse a Cordelli non va bene neanche Eliot come critico dantesco ? Insomma, mi sfugge il motivo. Un ministro che si trova a fronteggiare il fatto che solo 5 studenti italiani su 100 fanno il tema di maturità sul canto su san Francesco si mette di buzzo buono a pensare come rendere interessante Dante e il critico ufficiale sul maggior quotidiano si mette a mugugnare (ma non a dire il motivo) ? Fa bene Cordelli, se ha perplessità, ad esprimerle. È il suo mestiere. Però non se la può cavare con la tiritera del populismo. Se no assomiglia più ad un avvertimento "mafioso" che a un utile discorso critico. Non basta dire che Benigni rende troppo facile Dante (o meglio: rende facile accostarsi a Dante, il che è diverso). Anche perché temo che un tizio come l'Alighieri che scrive di aver fatto la Commedia per trarre via gli uomini dall'infelicità, ne sarebbe invece contento. Per criticare ci vuole un motivo. Che non sia solo la presunzione di possedere il modo giusto, serio, doc di far incontrare Dante, di gestire la "cosa nostra". Tanto più se questo incontro è mancato in questi decenni. In questa presunzione di sapere il modo vero, di avere le chiavi del metodo giusto, sta il fallimento di tanta critica ufficiale ed accademica nel nostro Paese, e il suo drammatico fallimento "educativo". Hanno trattato la letteratura come "cosa loro". Ciò che non è previsto dal loro canone di serietà o letteratura viene considerato out, bollato con l'uso di categorie che a ben vedere di critico hanno poco. Ad esempio, la categoria di populismo che usa Cordelli, cosa significa "veramente" ? Come mai il critico teatrale del Corsera attacca come populista la lectura dantis di Benigni e nulla dice, che so, sull'osannato (dal Corsera) spettacolo della Pivano su un De Andrè -bravo ma poco originale - ormai considerato un classico della letteratura ospitato a un festival del teatro a Mantova? Assumendo un linguaggio che non appartiene nemmeno a quello della critica letteraria quella accusa appare più come un'accusa di diversa natura.
E forse il motivo che mi sfuggiva comincia a vedersi. Non si rendono conto i critici che siedono sulle cattedre e sulle tribune giornalistiche più alte di quale disastro si è consumato nei decenni del loro illuminato esercizio ? Non sentono la responsabilità di un fallimento ? Ed è possibile che ogni volta che accade qualcosa di imprevisto, l'atteggiamento sia quello da grigi custodi di una presunta ortodossia ? Anche per me Benigni è stato un imprevisto. E su quel che dice a proposito di molte cose non sono d'accordo con lui. Però sono convinto che è un ottimo esercizio critico di avvicinamento a Dante.
E se grazie anche a lui, come grazie a Sermonti e a tante altre iniziative come il festival che facciamo a Ravenna in settembre, Dante sia tornato nel panorama normale d'Italia e non solo su lapidi e monumenti, credo che siano fenomeni critici salutari. Anzi, che ce ne sia un disperato bisogno.
«Avvenire» dell’8 luglio 2007

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