30 luglio 2007

L'altra faccia del potere: l'intellettuale del mondo antico

di Manlio Simonetti
L'intellettuale è un personaggio dai contorni indefiniti, sì che non è agevole trasferirne il concetto nel mondo antico. Per comodità intenderemo qui per intellettuale il letterato impegnato sul piano politico in senso lato. In tale ottica già il rapsodo dei tempi di Omero e di Esiodo, data la finalità pedagogica attribuita alle sue recitazioni, esercita una funzione che si può definire politica, e ciò vale tanto più per gli autori di tragedie e commedie attivi nell’Atene del V secolo avanti Cristo. In effetti agli agoni drammatici veniva attribuita una finalità sommamente educativa, al punto che tutti i cittadini erano obbligati ad assistervi, e per questo la loro gestione era strettamente controllata dall’autorità politica e religiosa: a tali agoni infatti erano demandate la salvaguardia e la periodica riaffermazione dei valori portanti della città. Da questo punto di vista le illazioni moderne circa la pretesa eccentricità di Euripide rispetto alle tradizioni religiose del suo tempo sono infondate: il fatto che le autorità competenti permettessero la rappresentazione delle sue tragedie era segno che le riconoscevano come compatibili con quelle tradizioni. Più libertà di espressione aveva l’insegnamento filosofico, in quanto di carattere personale: ma anche in questo ambito vigevano precisi limiti, come attestano il tragico destino di Socrate e l’allontanarsi da Atene di Anassagora e di Aristotele. In complesso il controllo esercitato dalla pòlis sull’attività dell’intellettuale era piuttosto stretto, e ancor più lo sarebbe diventato nei regni ellenistici. Nella Roma repubblicana l’attività letteraria e culturale era ben poco considerata, a eccezione di quella dell’oratore, i cui riflessi sulla vita politica erano immediati e forti. È significativo che l’attività teatrale, tanto apprezzata ad Atene, a Roma fosse rigorosamente vietata agli uomini liberi, a eccezione del ruolo di spettatori, sì che le eventuali ambizioni letterarie di qualche aristocratico potevano concretarsi soltanto per interposta persona: si pensi alle dicerie sulla genuinità delle commedie di Terenzio. Ma con l’infittirsi dell’influsso esercitato dalla grecità l’attività letteraria comincia a essere più apprezzata, tanto che viene pure sfruttata a fini politici. Si pensi, negli ultimi decenni del I secolo avanti Cristo, all’attività del circolo letterario di Mecenate, i cui componenti (Orazio, Virgilio, Properzio) furono chiamati ad affiancare e propagandare l’azione di Ottaviano Augusto sia nella guerra contro Antonio sia nella successiva attività restauratrice dei valori tradizionali della romanità (Carmen saeculare di Orazio, Odi romane di Properzio). Di segno opposto, cioè di contestazione, fu invece la prevalente attività politica degli intellettuali al tempo degli imperatori della casa giulio-claudia, in nome degli ormai anacronistici ideali repubblicani rinvigoriti dall’etica stoica. In seguito, invece, l’allineamento dell’intellettualità al volere imperiale fu completa. In questo contesto ci interessa soprattutto l’atteggiamento ostile dell’intellettualità greca e romana nei confronti dei cristiani, con la continua riproposizione del carattere rozzo e irrazionale della religione cristiana, anche quando questa accusa nel III secolo era ormai obsoleta. In effetti la persecuzione indetta da Diocleziano e Galerio contro i cristiani agli inizi del IV secolo fu accompagnata da una nutrita attività letteraria anticristiana. In questa temperie ostile l’attività dell’intellettuale cristiano fu finalizzata a difendere la nuova religione, con atteggiamento polemico verso la religione pagana, ma molto meno verso i valori civili della romanità. Quando Costantino inaugurò il nuovo corso del rapporto tra impero e Chiesa, fu pronto l’adeguamento dell’intellettuale cristiano, impersonato soprattutto da Eusebio di Cesarea, che teorizzò la simbiosi tra impero e Chiesa sotto la guida dell’imperatore, rappresentante in terra del Logos divino. Questa ideologia si conservò a lungo nell’impero d’Oriente, mentre in Occidente, a causa della fine dell’impero provocato dalle invasioni dei barbari, il ruolo dell’intellettuale cristiano, sempre un membro del clero, fu mirato necessariamente ad affiancare l’azione della gerarchia tendente a trovare un modus vivendi con i nuovi padroni. È sintomatico peraltro che il mito di Roma eterna ispirasse in più d’uno (Avito di Vienne, Gregorio Magno) la convinzione che il crollo dell’impero preannunciasse la prossima fine del mondo.
«Avvenire» del 26 luglio 2007

Nessun commento: