17 luglio 2007

Imparate dalla Tv

Il rapporto tra fiction e narrativa nell’analisi del critico. Che oggi ne parla al festival di Bologna
di Aldo Grasso
Cari scrittori, liberatevi dal complesso di superiorità: anche il video offre momenti di grande letteratura
Se la nostra letteratura e il nostro cinema aspirano ancora all’eccellenza per prima cosa devono smetterla di sentirsi superiori alla tv. Non ne hanno diritto, se non quello di crearsi un alibi che sfiora volentieri il ridicolo. È curioso: ogni volta che si tenta di congiungere questi universi si forma immediatamente una gerarchia piramidale: la base è la tv (sempre identificata con il suo pubblico, quindi con la massa), la parte mediana il cinema, il vertice la letteratura. L’unica a detenere la forza generativa delle storie e degli intrecci. Il resto segue a cascata. Forse è venuto il momento di prendere atto che la tv, nonostante la pessima letteratura di cui gode, non ha più debiti da pagare alle cosiddette «arti maggiori». Forse siamo già in ritardo, e a rallentare il nostro cammino è solo un vecchio pregiudizio estetico che ci fa credere che la tv sia qualcosa in minore, una radio degradata, un surrogato di teatro, un cinema di seconda o terza mano. Da tempo le cose sono cambiate. Di brutto la tv ha soltanto la sua idea di audience, i suoi critici, spesso i suoi protagonisti. Non è poco. Ma non è tutto. Così mentre la tv offre piccoli o grandi gioielli narrativi come Sex and the City, Desperate Housewives, Lost, The Sopranos, il letterato è diventato un soggetto da «manifestazione culturale», protagonista di quei gratificanti bagni di folla dove, in veste di guru di fronte a una schiera di adoranti professoresse finto-popperiane, può finalmente misurarsi con l’assoluto (cosa che non gli riesce più con la scrittura) e il cineasta si è trasformato in un lamentoso questuante di sovvenzioni statali. Insomma la tv è ancora vista o come una sciagura della modernità (una macchina che distoglie le masse dalla loro redenzione e le precipita nell’irrealtà e nella inesperienza) o come uno strumento promozionale. Il massimo per uno scrittore o per un cineasta è andare in video, possibilmente in un programma popolare, per promuovere la sua ultima fatica. Alcuni accedono persino al ruolo di opinionista. Il rapporto fra la tv e la nostra letteratura è alquanto tormentato. La tv in Italia ha poco più di cinquant’anni, il libro invece può contare su una tradizione di secoli; dunque siamo di fronte a un connubio recente e asimmetrico. A me è capitato, anni fa, dovendo scrivere il capitolo sul rapporto fra tv e produzione letteraria per l’aggiornamento della Storia della letteratura italiana di Cecchi-Sapegno, di faticare non poco a individuare tracce significative. Sulla comunità italiana incombeva l’anatema di Alberto Moravia, secondo cui il pubblico della tv era da considerarsi di serie B: per molti anni quindi nessun scrittore ha osato parlarne per paura di essere retrocesso. Ne La bella di Lodi di Alberto Arbasino si trovano timidi accenni, mentre in altri romanzi la tv compare più che altro come oggetto di arredamento. Bisogna arrivare al 1983, a Il palio delle contrade morte di Fruttero & Lucentini perché i due si dimostrino incantati dall’uso del telecomando, strumento introdotto in Italia solo nel 1980, tanto da modulare i capitoli al tocco soffice del remote control. Subito dopo, nel 1983, esce un famoso racconto di Italo Calvino, L’ultimo canale, il primo vero racconto sulla tv italiana. Poi bisogna aspettare la generazione dei ragazzacci pulp, i cannibali di Aldo Nove, o i romanzi di Niccolò Ammaniti, di Giuseppe Culicchia e di pochi altri. O i libri dei comici. Adesso finalmente la tv è stata, come si usa dire, «sdoganata» da alcuni scrittori. Come Walter Siti in Troppi paradisi, o Francesco Piccolo, che lo ha fatto in varie occasioni, ma specialmente ne L’Italia spensierata, dove racconta un pomeriggio alla Dear in cui assiste come spettatore a un programma di Mara Venier. O Giuseppe Genna che se ne è occupato in Dies irae, un romanzo che racconta la più grande tragedia mediatica di tutti i tempi, il pozzo di Vermicino. È stata anche affrancata dalla letteratura di genere, tant’è vero che molti giallisti lavorano indifferentemente in video e sulla pagina scritta, senza soverchie distinzioni. E finalmente anche da noi si può parlare di letteratura noir, di poliziesco, ecc. Come è successo che la letteratura si è infine accostata alla tv senza supponenza, senza moralismi? Il tratto vivificante di questa scrittura consiste nel raccontare la tv non più con un atteggiamento volto a mostrare la distanza che esiste tra l’Ispirazione e il Niente, fra l’Assoluto e la Spazzatura. No, è un rapporto alla pari, un rapporto creativo: la tv diventa materia letteraria. Anzi, attraverso la letteratura si scoprono della tv cose che normalmente, guardandola, non riusciamo a cogliere, perché il nostro occhio si è opacizzato. Non di rado la tv fa schifo (anche la vita però non si risparmia) ma se letteratura e cinema continuano a manifestare un complesso di superiorità nei suoi confronti mettono a repentaglio la loro credibilità. Che senso ha consacrare le proprie energie a divorarsi in preda a una stupida vertigine di egemonia culturale? Lo show della complessità, ci ricorda la tv, può esistere anche al di fuori dell’arte; il mondo è pieno di spettacoli che non hanno avuto ambizioni particolarmente artistiche. Se adesso guardiamo la tv, vi troviamo buffoni di corte, giocolieri, giochi gladiatori. Se mai, l’errore più grande che si possa compiere, per «elevare» la tv, è il ridicolo tentativo di «renderla letteraria». In modo assolutamente casuale e frammentario nel palinsesto si possono invece cogliere momenti che sarebbero splendida letteratura proprio perché non sono programmati, appartengono al flusso. Quindi c’è una specie di opera d’arte disseminata, non racchiusa in nessun programma. Questa è la grande novità e vitalità della tv. Spesso il trash non è così brutto come lo si dipinge. Sono altri che devono preoccuparsi per la loro buona salute: forse la letteratura, forse il cinema, forse il teatro.
«Corriere della sera» del 9 luglio 2007

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