17 luglio 2007

Cercavamo la trasparenza e siamo una società di spiati

di Giorgio Ferrari
L'illusione di un provvidenziale anonimato era già tramontata verso la fine degli anni Ottanta, quanto il crescente utilizzo delle carte di credito aveva trasformato i cittadini di tutto il mondo in una massa di consumatori eternamente rintracciabili, ovunque si trovassero, proprio grazie ai riscontri delle spese effettuate. Ma chi prefigurava - in ossequio all'orwelliano Grande fratello (vi dice niente?) - che di lì a poco la Terra si sarebbe gradualmente trasformata in uno sterminato pollaio dove non solo gli spostamenti, ma addirittura i gusti, le preferenze, i sospiri, le utopie, le illusioni di ciascuno di noi sarebbero stati impietosamente scrutinati e controllati non è andato molto lontano dal vero.
È di ieri la relazione annuale del presidente dell'Autorità garante per la privacy Francesco Pizzetti. Una ricognizione allarmante, molto allarmante, che pone seri dubbi e molti quesiti su questa nostra cosiddetta civiltà della trasparenza, dove l'accesso a enormi quantità di dati personali si trasforma molto spesso in un'arma di pressione, di ricatto o peggio ancora di offesa vera e propria nei confronti dell'inviolabile singolarità di ciascun individuo.
Non occorre ricordare le recenti vicende di quella centrale occulta nascosta all'interno della Telecom che spiava e catalogava ogni aspetto della vita privata di decine di persone, uomini e donne illustri ed anche cittadini comuni. Così come è superfluo riandare con la memoria alle tante violazioni della privacy perpetrate con la scusa (molto flebile, per la verità) del diritto al gossip e a guardare dal buco della serratura in nome di un malinteso senso della libertà di stampa.
Ma ciò che maggiormente preoccupa il garante è quella «sindrome bulimica per la raccolta e l'archiviazione dei dati personali, che rischia di trasformare anche l'Unione europea in un universo di controllati e di spiati».
Due sono a nostro avviso le circostanze che hanno concorso a disegnare una situazione come quella attua le: la relativa facilità di utilizzo dei mezzi di comunicazione - sempre più rapidi e sofisticati e pressocché alla portata di tutti, e si è visto che uso ne hanno fatto i malintenzionati - e la sindrome mondiale che l'11 settembre 2001 ha provocato, inducendo anche le democrazie più longeve e sperimentate come ad esempio quella britannica o americana a rinunciare alla propria tradizionale tolleranza (un tempo non esisteva né in Gran Bretagna né negli Stati Uniti nemmeno la carta d'identità) ricorrendo a controlli e monitoraggi costanti ormai perfino agli angoli delle strade: l'esatto contrario di quella privacy tanto declamata ed esaltata come una delle conquiste più lungimiranti della civiltà occidentale.
Sulla cresta sottile che separa la necessità della riservatezza personale e l'obbligo di contrastare i fenomeni criminosi a cominciare dal terrorismo si è insinuata questa sorta di sottocultura del controllo ossessivo, fatta di dossier, elenchi, registri, dati incrociati, estrapolazioni, non sempre rispondenti a fini nobili. Chiamiamola pure una malattia della modernità, ma rendiamoci conto che una cura la dovremo trovare. Prima che sia davvero tardi.
«Avvenire» del 13 luglio 2007

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