17 luglio 2007

Cari scienziati, non siete guru

La società civile deve darsi strumenti di controllo davanti al desiderio di onnipotenza della scienza: parla Enzensberger
di Paola Springhetti
«Non sono uno scienziato, non sono uno specialista di niente: sono un dilettante in tutti i campi. Le scienze mi piacciono e mi divertono, le matematiche, in particolare, sono uno strumento di fitness per il cervello», spiega Hans Magnus Enzensberger, che ieri era a Roma per ricevere il quinto premio letterario Merck Serono, nato per indagare e incoraggiare gli intrecci tra scienza e letteratura. Poeta, narratore, divulgatore, saggista, Enzensberger cerca di non essere trattato come un tuttologo, e tiene a ribadire il proprio essere soprattutto uno scrittore, sia pure con molti interessi.
Ma il suo amore per la scienza e la matematica rispecchia un interesse che sembra farsi sempre più strada nella società. In un certo senso, infatti, oggi le scienze vanno di moda: ci sono riviste e trasmissioni di divulgazione, gli scienziati diventano famosi, vengono intervistati su qualunque argomento. Parallelamente sembra esserci meno interesse per le idee e per gli ideali. Sembra che si affidi alla scienza la speranza per il futuro, anzi la determinazione stessa del nostro futuro. «Alla politica non crede più nessuno, - dice Enzesberger - , ed è vero che non si sa più che cosa sono i valori. Io, peraltro, non amo questa parola, che è nata in ambito economico e ha a che fare con il mercato, con le merci. I valori invece non sono oggetti che si acquistano e si portano a casa. Per esempio, oggi si considera un valore la flessibilità, ma fino a poco tempo fa era un valore il concetto opposto: la continuità, la lealtà, la coerenza. In altri tempi si è parlato di coscienza, di male e di bene».
Ma a volte si ha l'impressione che oggi sia difficile anche trovare una definizione condivisa di ciò che è bene e ciò che è male. «È sempre stato così. Gli dei greci si contraddicevano sempre, e si facevano continuamente la guerra». La scienza ci può aiutare in questa incertezza? «È vero che la scienza oggi attira molte speranze, ma non è suo compito fornirci il senso della vita. Al contrar io, ci presenta continuamente dilemmi, e non fornisce soluzioni. Inoltre a volte succede che alcune scienze - soprattutto quelle più giovani, come la biologia - si facciano prendere, come tutti gli adolescenti, da manie di grandezza, o comunque tendano a esagerare. Anche le scienze hanno dei limiti ed è bene esserne consapevoli, per poter dialogare con esse. Il rapporto tra società e scienze, infatti, non è a senso unico, ma a doppio senso: il dialogo è necessario».
Questo vuol dire che possiamo porre dei confini alla scienza? «Mi sembra molto difficile metterli alla ricerca, mentre occorre stare molto attenti alle complicità tra scienze e industria. Ci sono finanziamenti, collusioni, rapporti non trasparenti. Gli scienziati non sono santi, ma all'interno del mondo della ricerca ci sono sistemi di autocontrollo abbastanza funzionanti: se uno esagera o falsifica i risultati della sua ricerca in poco tempo viene scoperto. Invece nell'applicazione industriale dei risultati della ricerca si creano molti problemi, ed è necessario che la società sia attenta al fatto che gli strumenti della scienza siano utilizzati in modo corretto». Insomma, ci troviamo ad affrontare nuovi problemi che il progresso scientifico ci pone, e non riusciamo a superare vecchi problemi che ci hanno accompagnato nella storia. Quello delle violenza, ad esempio, che continua a devastare le società moderne. «È un'idea molto recente quella che possano esistere società umane senza violenza.
I primi pacifisti si sono organizzati non più di cento anni fa, e idee come la giusta redistribuzione delle risorse, lo stato di diritto, la democrazia non hanno molta storia alle spalle. Non c'è da stupirsi se non tutti le condividono. Eppure qualcosa cambia: è la prima volta nella storia che l'Europa sperimenta cinquant'anni di pace».
Eppure proprio i giovani, che sono cresciuti in questo periodo di pace, manifestano varie forme di violenza. «Spesso i tabù producono proprio ciò che vogliono negare: un tabù sul la violenza produce violenza. Tutti abbiamo una tendenza alla violenza - e questo è un tema che le scienze studiano - e in più i giovani sono squassati dai movimenti ormonali. C'è una valvola di sfogo che è lo sport, ma non basta».
Dovremmo togliere il tabù sulla violenza? «No, dobbiamo piuttosto redistribuirla, incanalarla. Un'invenzione geniale dello Stato moderno sono l'esercito e la polizia, a cui possiamo delegare il nostro bisogno di giustizia, in qualche modo i nostri sentimenti violenti. Invece di strozzare il mio vicino, chiamo la polizia: è tutta un'altra cosa».
«Avvenire» del 12 luglio 2007

Nessun commento: