15 giugno 2007

«E adesso i libri ce li scriviamo da soli»: la nuova generazione di autori adolescenti

Alla Fiera di Bologna arrivano narratori giovanissimi. Rigorosamente under 20
di Taglietti Cristina
Ragazzi che (forse) leggono poco, ma certo scrivono molto. Per rendersene conto basterà fare un giro tra gli stand della Fiera del libro per ragazzi che domani apre i battenti a Bologna, tradizionale appuntamento dove si vendono e comprano i diritti e rituale occasione per fare il punto sulla situazione di un mercato sempre sull’orlo della crisi. L’offerta di romanzi per i cosiddetti young adults è sempre ampia, i dati dell’Aie (Associazione italiana editori) quest’anno sono addirittura più confortanti (rilevano un aumento della lettura nella fascia che va dagli 11 ai 17 anni), ma ciò che emerge come una tendenza nuova è la crescita di una giovane leva di autori che sanno parlare ai loro coetanei affrontando, con ambizioni ed esiti diversi, qualunque genere. Così se una delle iniziative di maggior successo della prima edizione del Fantasio festival di Perugia è stato il concorso «G.a.s. al minimo» che ha raccolto le storie brevi di oltre tremila giovani aspiranti scrittori tra i 17 e i 23 anni (37 sono state scelte e pubblicate in un volume), a Bologna autrici come la ventunenne Sara Boero al suo terzo romanzo con Piume di drago (Piemme) o la ventiseienne Licia Troisi, bestsellerista affermata con la trilogia delle Cronache del mondo emerso (Mondadori), sono ormai delle veterane. L’editoria sforna continuamente giovani autori (anzi più spesso autrici), così il nuovo caso letterario è la sedicenne Valentina F., autrice di TVUKDB, cioè «Ti voglio un kasino di bene», diario di un anno nella vita di una ragazza romana tra scuola, amicizia, amori. «Io scrivo da anni un diario che faccio leggere solo alla mia amica del cuore, Marta, la ragazza di cui parlo anche nel libro. Insieme abbiamo pensato che era fico farlo pubblicare» spiega Valentina. Il libro non ha nulla di spinto o di pruriginoso, Valentina F. non è Melissa P. e il massimo a cui si può arrivare è un bacio; il cognome di Valentina, il suo aspetto, persino la sua voce sono rigorosamente protetti dalla famiglia che non vuole gettarla nel circo mediatico (al punto da fa pensare che Valentina sia solo un nom de plume), eppure in due settimane il diario ha venduto 12 mila copie costringendo l’editore Fanucci che lo pubblica nella collana Teens a una ristampa. Per Valentina il livello dei libri per ragazzi è abbastanza buono (l’ultimo che ha letto è Io sono di legno di Giulia Carcasi, Tre metri sopra il cielo lo ha letto addirittura tre volte) e si possono «trovare un sacco di storie che parlano di noi, anche se spesso non raccontano come siamo e viviamo veramente». Tuttavia i ragazzi non scrivono soltanto di loro stessi, del loro mondo, dei loro bisogni e desideri, ma si cimentano anche su temi forti, difficili da raccontare. Basti pensare a Randa Ghazy nata a Saronno da genitori egiziani che, nel 2002, appena quindicenne, sconvolse la Fiera con il suo Sognando Palestina, all’indomani dell’11 settembre. Quest’anno, ormai diciannovenne, ripropone un altro titolo forte, Forse oggi non ammazzo nessuno, storia di Jasmine, «una giovane musulmana stranamente non terrorista» che, con l’arma dell’ironia riesce a stare a cavallo tra due mondi, quello musulmano e quello occidentale, senza appartenere pienamente a nessuno. Un tema difficile, soprattutto da raccontare a un pubblico di adolescenti, è anche quello affrontato da Erika Silvestri, ventenne di Ladispoli. Nel suo Il commerciante di bottoni (Fabbri), introdotto da una prefazione di Walter Veltroni, racconta la storia di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz, conosciuto quando aveva 14 anni. «Il libro è una raccolta di incontri, di conversazioni quasi private. Non volevo che l’esperienza di Piero, a cui sono legata come se fosse un nonno, andasse perduta». Erika racconta di aver sempre amato scrivere, e anche leggere: «Ma non ho mai letto i cosiddetti libri per ragazzi. Leggo i libri "normali", molti saggi, perché amo i temi storici, in particolare quelli legati all’Olocausto». Erika di Federico Moccia ha soltanto sentito parlare. «Non lo conosco perché non è il mio genere, ma probabilmente il suo successo sta nel fatto che ha trovato un linguaggio adatto per parlare ai ragazzi». Anche Maurizio Temporin, diciottenne di Novi Ligure, non legge la cosiddetta letteratura per ragazzi, non considera il suo romanzo, Il tango delle cattedrali (che uscirà da Rizzoli il 2 maggio) appartenente al tanto popolare genere fantasy, nonostante la presenza di un gargoyle nelle prime pagine («se proprio dovessi scegliere un genere direi che è fantascienza», spiega). Il Tango delle cattedrali è un libro dall’architettura complessa e dalle grandi ambizioni, che parla di tango, di arte, di immortalità, che mescola mondi paralleli e giochi letterari, Oscar Wilde e gli amici dell’autore. Maurizio ha interrotto gli studi al terzo anno del liceo scientifico, a 15 anni è andato a vivere con la sua ragazza, scrive da quando ne aveva 12. Se gli parli di Federico Moccia risponde con Fabrizio De André, Ray Bradbury, Tim Burton e Federico Fellini.
Erika Silvestri, 20 anni, vive a Ladispoli e studia storia medievale alla Sapienza di Roma. Ama dipingere e disegnare
Maurizio Temporin, 18 anni, vive tra Novi Ligure e Barcellona. Ha interrotto gli studi al liceo scientifico, ama il tango e gli scacchi
Valentina F., 16 anni, romana, studia al liceo scientifico. Non vuole rivelare la sua vera identità
« Corriere della Sera » del 23 aprile 2007

’68: fantasia al potere, somari in cattedra

Il compito della scuola, la trasmissione del sapere e l’educazione, ma soprattutto i guasti provocati dalla contestazione di quasi 40 anni fa: nel testo inedito che qui pubblichiamo Aldo Agazzi, lo studioso scomparso nel 2000, sostiene che «il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, alla educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile». Un attacco alla bellezza e alla cultura, ai cardini della trasmissione del sapere e della formazione .«Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo Ma al movimento non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente»
di Aldo Agazzi
Il disastro che il Sessantotto ha arrecato alla scuola, all'educazione e alla cultura, è assolutamente inimmaginabile. Altro che Apocalisse! I movimenti del Sessantotto non volevano più la cultura, contestavano i docenti, ingaggiarono la grande lotta contro il latino, che era poi la lotta contro la cultura classica e la lingua della Chiesa cattolica. Perfino un intellettuale comunista come Concetto Marchesi, autore di una tra le più belle storie della letteratura latina, ebbe il coraggio di dire che il giorno in cui non ci sarà più il latino nella cultura, saranno tenebre sul mondo... Ma al movimento ciò non importava. Il latino rappresentava la tradizione della cultura italiana e la lingua della Chiesa, e come tale andava combattuto, aspramente.
Università Cattolica a parte, dove si riusciva ancora a fare lezione, nel clima del '68 non si studiava più. I docenti erano in crisi. Ricordo i miei colleghi, tra i quali il professore di storia antica, Albino Garzetti. Era bravissimo, ma non resistette alla contestazione e diede le dimissioni. E ricordo un sacerdote rosminiano, professore di psicologia, la bontà incarnata: venne contestato violentemente, tanto che abbandonò l'aula e lo ritrovarono in lacrime nel corridoio. Dopo l'episodio, radunai gli studenti e, tra le tante osservazioni, dissi loro: ricordatevi bene, figlioli, che prima di farmi uscire piangente dall'aula, ce ne vorrà... Difatti, non è mai avvenuto.
Il '68 ha segnato la catastrofe, il baratro della cultura, che è stata compromessa per sempre. Nel '68 fu consumato il divorzio con il sapere. Penso solo ad uno dei tanti fatti, avvenuto alla Statale di Milano, dove il docente di letteratura italiana fu contestato perché continuava, o avrebbe voluto continuare, a spiegare Dante... Per non parlare delle improvvisazioni, delle autogestioni, e dei voti politici, per cui si dava anche il 30 a chi non sapeva assolutamente niente. Non ho mai dato né voti politici e né voti gratuiti. E non davo mai meno di 28, n el senso che volevo dai miei studenti la dimostrazione che essi effettivamente avevano studiato e si erano preparati. E dicevo loro: «Credo sia importante, per la vostra vita e per la vostra scelta universitaria, che voi conosciate la materia di studio. Dovete essere preparati non per fare un piacere a me, ma perché ciò riguarda voi stessi; non venitemi a chiedere di darvi il 18 politico. Non mi interessa il voto che vi scrivo sul libretto, mi interessa che tu, studente, sappia la pedagogia perché andrai ad insegnare a bambini, ragazzi e giovani, perché lo studio avrà importanza per il tuo futuro, per la tua personalità...». In questa logica, ho sempre dato pochissimi voti di medio valore; per me il voto normale era il 30, che spesso diventava 30 e lode.
Vedo che i tentativi di condizionare lo studio continuano. Le cosiddette autogestioni studentesche ogni tanto ritornano. Vedo che anche i ministri, di fronte a questi fenomeni, sulle prime mostrano i muscoli, poi si adeguano. Mi ricordo ancora le parole dell'ex ministro Berlinguer, che conosco da tempo, e con il quale ho avuto anche degli accesi dibattiti: appena insediato nella carica disse che ci voleva una scuola seria, dove si studiava; poi, quando gli studenti hanno protestato, queste belle intenzioni non sono state seguite dai fatti. Anche Berlinguer si è adeguato alle proteste studentesche, anche perché è più comodo.
Purtroppo gli obiettivi del Sessantotto hanno centrato il bersaglio. Certe contestazioni sono state ampiamente condivise, nel senso che non vogliamo più gli esami, vogliamo il voto politico - vale a dire, un voto dato senza l'accertamento della propria cultura -, non vogliamo più i concorsi, non vogliamo più la selezione... Ricordo che a quell'epoca ebbi modo di rilevare il rischio in agguato per il nostro Paese, quello relativo a una Italia priva di educazione politica. Ed è poi quello che è successo, in tempi rapidissimi. Le università e le scuole hanno aperto le porte dell'insegnamento a persone laureate e diplomate con il voto politico, assunte senza concorsi, senza preparazione. Abbiamo visto l'ascesa di quelli che già allora venivano definiti «i somari in cattedra». E purtroppo i somarelli da essi formati, emetteranno dei ragli d'asino che non giungeranno in cielo... Sì, la chiamavano la «fantasia al potere», ma la fantasia è la creatività del genio; e dove non c'è il genio non ci può essere la fantasia. Sarebbe come uno spumante evaporato, senza bollicine.
L'«onnipotenza educativa» è uno dei concetti più tragici, oltre che assurdi, cari alla pedagogia marxista, o meglio alla pedagogia stalinista, che ha avuto pure un grande scrittore di questioni educative, Anton Semenovic Makarenko, autore di un corposo poema pedagogico, tradotto in italiano da Editori Riuniti, di cui avevo letto già una edizione francese.
Questo testo pedagogico, a leggerlo, ci appare esteticamente brillante, bello, sembra che descriva il paradiso in terra. Invece è la traduzione del peggiore stalinismo in campo educativo. Si ha una idea di come avevano impostato i sistemi educativi e di come erano stati ridotti scuola e scolari. Dire che erano marionette, è dire niente. Erano come argilla da modellare e forgiare distruggendone la personalità. Uno dei cardini dello stalinismo educativo - se si può adoperare questa parola - è il concetto, spaventoso e terribile, di rieducazione. Coloro che, a giudizio del regime, deviavano dai sistemi e dalle leggi stalinisti, dovevano essere internati nei lager per essere rieducati, ossia venivano annientati nella propria personalità fino ad assumerne un'altra, gradita al regime... Davvero assurdo e tragico questo concetto staliniano dell'«onnipotenza dell'educazione».
Ancora oggi un pedagogista italiano, Roberto Maragliano, riprendendo le tesi di Jean Claude Adrien Helvetius - che ai tempi dell'Illuminismo scrisse un testo sull'«onnipotenza dell'educazione» - sostiene che con l'educazione si può fare, rifare, forgiare, plagiare... Il con cetto dominante di tale teoria è riassunto in una massima scritta nientemeno che da Edmondo De Amicis nella sua ultima opera, rimasta incompiuta, Lotte civili, un testo di divulgazione di idee socialiste diremmo alla Andrea Costa, alla Treves, alla Saragat, insomma idee di una socialdemocrazia di stampo umanitario, improntata alla condivisibile promozione della povera gente, alla questione operaia.
In quell'opera, il De Amicis scrive che gli uomini sono come i liquidi e perdono la forma del recipiente in cui sono versati. La stessa frase l'ho trovata anche in un romanzo, Delitto e castigo di Dostoevskij - un altro dei miei autori preferiti - quando il giudice sottopone a un estenuante interrogatorio il protagonista, Raskol'nikov, il quale resistendo alle pressioni dice appunto che gli uomini sono come i liquidi: prendono la forma dei recipienti in cui sono versati. Ed anche così è lo stalinismo, ossia forgia gli individui distruggendoli come individualità, come personalità. E tutto ciò è l'anti-personalismo.
Nella psicologia dell'infanzia e dell'età evolutiva questo è un punto cruciale. Per millenni il bambino è stato visto - giusto per adoperare un'immagine di cui mi sono tante volte servito - con le lenti di un binocolo rovesciato, che mostra tutto rimpicciolito. Ma il bambino, come hanno detto anche molti psicologi, non è un nano, ossia un adulto visto in dimensioni minori. Ma il bambino è già essere umano, è già persona a tutti gli effetti; pur essendo diverso «in essenza» rispetto all'adulto, egli ha un suo modo di essere, di pensare, di immaginare, di costruirsi l'immagine del mondo.
Sì, il bambino è il piccolo dell'uomo, non un uomo in piccolo. Per dirla con un'altra espressione, il bambino è l'uomo nella sua età infantile. Perché il «piccolo dell'uomo» è completo, ha le proprie forme di pensare, di immaginare, di avere il senso del giusto, dell'ingiusto. Al pari dell'adulto, nel bambino esistono tutte le facoltà, ma esse sono espresse in una maniera sos tanzialmente diversa.
Tutto ciò ha poi una grande importanza in applicazioni educative concrete. Non dimentichiamo che uno dei grandi disastri storici della pedagogia è stato l'adultismo, ossia credere di poter parlare al bambino negli stessi termini con i quali pensa l'adulto. Per non parlare del precocismo, ossia il voler dare delle nozioni per le quali non c'è ancora la maturità. E qui si può cadere in un facile equivoco: ritenere che la ripetizione meccanica di concetti o nozioni, significhi il raggiungimento di una maturità.
L'anticipazionismo, secondo me, è un crimine per diversi motivi. Innanzitutto si dànno delle nozioni per le quali non c'è ancora la maturazione per la comprensione; si dànno delle nozioni incomprensibili. Il bambino non è privo di memoria, di capacità di ricordare. Può arrivare a ripetere anche le formule più complesse della matematica o delle leggi della fisica. Le ripeterà senza capire. Quindi, l'esigenza della comprensione, atto dell'intelletto, viene trasformata in un esercizio di memoria. E qui entra in gioco una legge primaria della didattica dell'educazione, quella che io ho chiamato la legge dell'esercizio, che fa il paio, con una formulazione del Pfliegler contenuta in un saggio, Il giusto momento, che avevo pubblicato nella collana Meridiani dell'educazione.
Il concetto è questo: l'insegnamento va impartito al momento giusto, non prima; occorre intervenire quando il bambino, il fanciullo o l'adolescente, sono arrivati a tale momento con le proprie forze. Mi ricordo in proposito che - giocando un po' con le parole - dicevo alle educatrici d'infanzia, alle maestre: meglio cent'anni dopo che un minuto prima. Infatti, cent'anni dopo c'è tutto il tempo per capire, ma un minuto prima si corre il rischio di trasformare le capacità dell'intelletto in mnemonismo. E si sa che le leggi della psicologia agiscono tanto se io opero bene come se mi comporto male. Se osservo la legge del giusto momento compio l'esercizio della mente, ma se cado nel mnemonismo non esercito l'intelletto, ma la memoria meccanica. Non dimentichiamoci che c'è anche la memoria consapevole: tanto più si fa dell'adultismo, tanto più si uccide e si impedisce lo sviluppo dell'intelletto. Più si esercita la memoria meccanica, più si farà il... pappagallo a qualunque età.
L'educazione è il motore della perennità e della trasmissione di ciò che le generazioni vanno via via elaborando, con l'apporto del genio e del lavoro, anche collettivo. Ebbene, tutti i risultati raggiunti e prodotti da chi ci ha preceduto nella storia andrebbero perduti se con l'educazione non fossero trasmessi alla generazione successiva, la quale è fatta di intelletti, di teste pensanti, che a loro volta prendono ciò che è già stato fatto, lo accrescono, lo migliorano, lasciandolo in eredità alla generazione successiva. Purtroppo, il rischio presente è quello di interrompere questo processo di trasmissione.
Avevamo una cultura che l'educazione trasmetteva alle nuove generazioni. Ma se si tronca una generazione - ossia, se una generazione perde la sua capacità di trasmettere i risultati da essa prodotti - si tronca la tradizione. Non c'è più il presente e non ci sarà avvenire.
Non c'è fase storica, non c'è civiltà che, nel proprio progresso, non abbia vissuto contrapposizioni e contrasti; l'educazione è al centro di tutto questo processo, ne è al di sopra, è l'anima stessa delle generazioni, è l'anima stessa del popolo... Il popolo! Ma il popolo non è un dato numerico, il popolo è una comunità storica formata da tante personalità individuali, ciascuna delle quali è se stesso, è un valore irripetibile, non c'è una persona che sia uguale ad un'altra. È in questa diversità che scorre il grande flusso del fiume delle generazioni, con i contrasti, con le sue spinte opposte, si va avanti e qualche volta si indietreggia... Nella storia c'è anche il regresso, non c'è soltanto il progresso. Dobbiamo essere realisti: non sempre la storia ha portato progresso. Abb iamo avuto epoche di assoluto regresso.
«Avvenire» del 6 maggio 2007

«Sinistra antisemita»

Lo studioso denuncia in un libro l’ostilità verso Israele e il dilagare degli stereotipi contro gli ebrei
di Aldo Cazzullo
L’accusa di Luzzatto Voghera: ecco i nuovi pregiudizi
L’idea di Gadi Luzzatto Voghera, autore per Einaudi di un saggio destinato ad accendere la discussione, è che l’antisemitismo non sia un’esclusiva della destra, e neppure alligni solo nella sinistra radicale. Anche alla sinistra riformista, perbene, che si accinge a far nascere il partito democratico, accade di parlare un linguaggio antisemita; «che è un linguaggio molto moderno, usato dalle diversi componenti della politica europea. Compresi i partiti di sinistra, che restano il mondo in cui mi riconosco». Luzzatto parte dal Marx della Questione ebraica, dalle invettive di Proudhon, Bakunin, Jaurès, per dimostrare che sinistra e antisemitismo non sono incompatibili. E analizza le radici dell’antisemitismo gauchiste: il terzomondismo; il mito di Arafat nuovo Che Guevara; il retaggio antigiudaico che sopravvive nel pacifismo cristiano. «Non partecipo alla denigrazione del cattocomunismo, che invece ai miei occhi conserva un certo fascino. Ma non mi sfugge che i frati delle marce di Assisi sono francescani come quelli della Custodia di Terrasanta, che fino all’avvento di padre Pizzaballa producevano documenti di incredibile virulenza antiebraica. E poi io non sono pacifista». Luzzatto denuncia un’«ipersensibilità» verso il dramma della Palestina rispetto ad altri non meno sanguinosi, «per cui i cinquemila morti arabi e i 1.500 israeliani della seconda Intifada pesano più di 250 mila bosniaci e di mezzo milione di ceceni». Ancora: «L’attitudine terzomondista presenta Israele come l’ultima potenza coloniale; Israele sarebbe l’avamposto dell’Occidente, criticare Israele sarebbe come criticare noi stessi. Non è così; se non altro perché tre quarti degli israeliani sono nati là o vengono dal Nordafrica e dal Medio Oriente». Ma alla base del libro di Luzzatto c’è la convinzione che l’avversione a Israele sia solo un aspetto dell’antisemitismo di sinistra. «Prima ancora viene il mito dell’ebreo capitalista, ricco, usuraio. Un antico luogo comune, che entra nell’immaginario della sinistra nella seconda metà dell’Ottocento e non ne esce più. Del resto l’antisemitismo non ha nulla a che vedere con gli ebrei reali, li presenta come un blocco unico, mentre gli ebrei sono un gruppo umano tra i più complessi e conflittuali. Un errore che tendono a riprodurre le stesse comunità ebraiche, quando difendono Israele sempre e comunque». Luzzatto invece rifiuta il pregiudizio «per cui l’ebreo dev’essere sempre e comunque vittima. È lo stereotipo da cui nascono le giornate della memoria, che considero una cosa non del tutto positiva. L’ebreo può anche essere altro». Da qui la critica all’urlo di Fausto Bertinotti al congresso del 2002 a Rimini, quando respinse l’accusa di antisemitismo dicendo «noi siamo ebrei». «In sé, nulla da obiettare. Poi però aggiunse: siamo ebrei così come siamo donne, disabili, omosessuali, lesbiche, neri Appunto: l’ebreo va bene solo quando è vittima». Il libro cita criticamente editoriali e interviste di intellettuali e politici importanti. Sostiene Luzzatto che «il mea culpa chiesto agli ebrei da Barbara Spinelli ricade nel vezzo di assegnare al popolo ebraico in generale una sua condotta omogenea; un po’come quando si considera in blocco l’Islam come integralista». C’è un passo di Gianni Vattimo, «che per dire cose spiacevoli le fa dire a ebrei: Steiner, Oz, Cases. Per Vattimo sarebbe meglio che Israele non esistesse. Dice di commuoversi per il paesaggio dell’anima della Palestina, e depreca l’esistenza di discoteche uguali a quelle della Florida. Ma il paesaggio di Israele è composto anche di discoteche, non necessariamente da far saltare in aria». C’è Alberto Asor Rosa, «che porta alle estreme conseguenze la categorizzazione dell’ebreo come vittima, e arriva a parlare di Olocausto in una situazione completamente diversa come quella dei palestinesi». C’è Angelo d’Orsi, «autore di distillati di antisemitismo, ma inchiodato alla convinzione che sinistra e antisemitismo siano incompatibili». Si guadagna una citazione favorevole invece Ida Dominijanni. «Dal manifesto arrivano segnali interessanti. O forse sono io che ho voluto risparmiare una testata che mi è cara. Stimo molto Rossana Rossanda, ma purtroppo anche qualche suo scritto potrebbe corroborare la tesi del mio libro». C’è poi Massimo D’Alema. «Che ha una doppia immagine. Da una parte gli riconosco di avere una visione della politica estera, di non interpretarla solo alla stregua della politica interna come fanno i suoi colleghi. Ma dall’altra parte D’Alema è intriso e nutrito di pregiudizi antiebraici, che non esita a esternare. Se non altro lui dice apertamente ciò che altri dicono quando gli ebrei sono lontani e non possono sentire». Luzzatto lo chiama «antisemitismo liberatorio»: si parla in un modo con gli ebrei, in un altro degli ebrei. «Accade nei salotti privati, nei quali si può constatare l’assenza di ebrei e si è quindi più liberi di esprimersi. Mi dicono che accada anche nei salotti Ds e della Margherita. Ma preferisco non sapere, e fermarmi alla pubblicistica». Nell’introduzione, Luzzatto parla di sé, di quando nell’82 aderì all’appello di Primo Levi contro la guerra in Libano, che oggi definisce «una trappola». «Ovviamente non è in discussione l’onestà intellettuale dell’immenso Levi. Ma le sue parole furono usate sul piano politico dagli estremisti del fronte opposto, e finirono per rinvigorire l’icona dell’ebreo cattivo; per questo unirsi all’appello significò cadere in una trappola». Suo padre Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, ha letto il libro? «Certo. E l’ha apprezzato. Mi ha anche consigliato di approfondire la denuncia del terzomondismo, ma non ho voluto infierire ». E del caso Toaff che idea si è fatto? «Ariel Toaff è autore di un libro scritto molto male, assolutamente non condivisibile. Però uno studioso della sua levatura non meritava di essere attaccato personalmente in quel modo né di essere disprezzato intellettualmente. Per questo andava difeso, e l’ho fatto».

BARBARA SPINELLI «Ha chiesto agli ebrei di fare un mea culpa collettivo: così è caduta nel vezzo di assegnare a tutto il popolo ebraico una condotta omogenea»
MASSIMO D’ALEMA «Ha una visione molto seria della politica estera, ma è intriso e nutrito di pregiudizi antiebraici, che non esita ad esternare in pubblico»
ALBERTO ASOR ROSA «È arrivato al punto di adottare il termine Olocausto per descrivere una situazione del tutto diversa come quella del popolo palestinese»
GIANNI VATTIMO «Si commuove per la Palestina e depreca le discoteche israeliane. Ma anche le discoteche hanno il diritto di non essere fatte esplodere»
FAUSTO BERTINOTTI «Ha detto: noi siamo ebrei, come siamo disabili, omosessuali, neri. È una logica per cui gli ebrei vanno bene solo quando sono vittime»

Esce oggi in libreria il saggio di Gadi Luzzatto Voghera «Antisemitismo a sinistra» (pagine 112, 8), edito da Einaudi
«Corriere della sera» del 20 aprile 2007

09 giugno 2007

Un poeta di nome Karol

Il Papa nella letteratura polacca
di Elisabetta Rasy
Quando aveva ventidue anni Karol Wojtyla scrisse al professor Kotlarczyk di non contare più su di lui per la poesia e il teatro: stava per incominciare il cammino per l’ordinazione sacerdotale e quelle passioni che aveva condiviso con l’amico e maestro, fondatore del Teatro Rapsodico, sarebbero state messe da parte. Ma non fu così. Era il 1942 e fino al 1978, anno della sua elezione al pontificato, il futuro Giovanni Paolo II continuò a scrivere e anche a pubblicare utilizzando pseudonimi e, dopo venticinque anni di pontificato, consegnò alle stampe un nuovo poema, Trittico Romano (edito da Bompiani). L’attività poetica - come quella teatrale di autore e, da giovane, di attore - fa parte dell’aura leggendaria di questo Papa, tassello di una personalità potente e sfaccettata nei confronti della quale, a due anni dalla morte, nostalgia e interesse non accennano a diminuire. Ora però un breve saggio di padre Antonio Spadaro, Nella melodia della terra (Jaca Book editore, pagine 80, 10), cambia leggermente ma incisivamente la prospettiva. Il giovane gesuita, autore di molti studi sulla letteratura contemporanea, dopo aver ricordato che Josif Brodskij nel 1988 definì la poesia polacca la più straordinaria del Novecento, colloca Wojtyla nella generazione degli anni Venti - la stessa di Milosz, Herbert e Szymborska - per la quale l’esercizio poetico fu insieme resistenza attraverso la parola ai disastri della storia e indagine sull’uomo. La poesia del giovane Wojtyla fiorì infatti nelle minacce dell’anno 1939 («il secolo richiede spirito di contraddizione e volontà»), poco prima di quel settembre in cui Hitler invase la Polonia («il vento d’autunno tagliò i miei desideri... e mi ordinò di litigare col mio canto»). Il futuro Papa fu un combattente del fronte biblico fin dall’infanzia, ma Spadaro, seguendone il percorso passo dopo passo, mette in risalto che la poesia non rappresentò per lui un complemento secondario della riflessione teologica. Sono tecnicamente complessi, sapientemente elaborati anche i versi iniziali, con un sicuro talento novecentesco e dei contenuti lucidamente individuati: un appassionato amore per la patria polacca maltrattata, il conforto della natura, la violenza della Storia, la durezza del lavoro fisico, le «sempiterne inquietudini» dell’uomo. Come se il poeta avesse aiutato il sacerdote prima e il pontefice dopo a camminare tra la folla che tante volte torna nei suoi versi, e a non perdere quel «gusto dell’avventura» che anche l’intelletto più acuto, come scrive in un poema del 1958, deve lasciare alla vita.
«Corriere della Sera » del 23 aprile 2007

Come dire al figlio «sei nato in provetta»

Fecondazione assistita Svelare ai bambini la verità sulle loro origini? Un libro spiega ai genitori perché è bene farlo
di Daniela Natali
Fiabe e filastrocche per raccontare storie d’attesa, di pazienza e di tanto amore
Bisogna dire a un bambino che è nato grazie alla fecondazione artificiale? E se la fecondazione è stata eterologa? Pare impossibile, ma in quasi trent’anni dalla nascita di Louise Brown, capostipite dei bambini in provetta, e durante le tante polemiche sui limiti da dare alla procreazione assistita, queste domande sono state solo sfiorate. Unico punto discusso: il diritto del bambino, se nato da fecondazione eterologa, a conoscere il genitore biologico. Problema da noi apparentemente risolto da quando la fecondazione con gameti estranei alla coppia, nel 2004, è stata proibita. Diciamo apparentemente, perché le coppie che la richiedono all’estero sono sempre più numerose (vedi box a fianco). E in alcuni Paesi, meta di turismo procreativo, come la Svizzera, i donatori non sono anonimi. Restando all’Italia, si calcola che oggi quasi il 2% dei nuovi nati veda la luce con tecniche di procreazione artificiale. E se già non è facile raccontare come nascono i bambini, nel caso della fecondazione assistita le cose si fanno più complesse. Ad aiutare mamme e papà a spiegare ai figli «venuti dal freddo» come sono nati, ha pensato l’associazione «Mamme on line», nata nel 2003, che è diventata anche casa editrice e sta raggiungendo le librerie con «Mamma raccontami come sono nato», raccolta di fiabe e filastrocche scritte da «genitori della provetta». Ma è proprio necessario dire tutto ai figli? Certo una donazione di gameti potrebbe venire scoperta con un test del Dna, ma non è cosa che si fa tutti i giorni. E, dopotutto, che differenza c’è tra Pma, la Procreazione medicalmente assistita e un by-pass: sempre di terapie si tratta. Ma chi annoierebbe un bambino con un racconto sulle coronarie? «Paragone sbagliato. Ferme restando le decisioni dei genitori, io consiglierei di raccontare tutto. Perché la Pma, non è un by-pass - ribatte Tilde Giani Gallino, ordinario di psicologia dello sviluppo all’Università di Torino -. Va a toccare una sfera molto intima, anzi sarebbe opportuno aver superato gli eventuali problemi con la propria infertilità, prima di rivolgersi alla Pma. Se questo è avvenuto, sarà facile parlarne ai figli e, anche nel caso il padre non sia quello biologico, non per questo si sentirà diminuito. E la donna non sentirà di aver al fianco un compagno "debole", con il rischio di fantasticare troppo su un onnipotente donatore». Con l’ovodonazione le difficoltà possono essere minori, «perché - riflette Giani Gallino - il falso binomio fertilità uguale efficienza/identità sessuale pesa tradizionalmente più sugli uomini che sulle donne. I segreti, comunque, sono sempre gravosi. Si vive nell’ansia che qualcuno spifferi ogni cosa, magari dando spiegazioni distorte. Oppure marito e moglie si preoccupano che involontariamente possa loro sfuggire qualcosa. Parlare è liberatorio: la serenità che i genitori ne guadagnano si riverbera sui figli». Che parlare sia una scelta diffusa lo confermano i dati di Sos Infertilità: l’85% dei genitori italiani intende dir tutto ai figli, anche se la percentuale scende al 44% nel caso di eterologa. «Il fatto di rivolgersi a Paesi in cui i donatori di gameti non sono "segreti" - puntualizza Giovanni Micioni, psicologo e psicoterapeuta, dall’85 al lavoro nel Centro cantonale di fertilità di Locarno - non influisce più di tanto su una iniziale scelta di sincerità o silenzio. Silenzio per altro preferito con la motivazione di voler proteggere il figlio, evitando di "confonderlo"». Ma se si vuole parlare, quando farlo? «Già quando il bambino ha 2 anni, - risponde Micioni - per poi tornare sull’argomento verso i 5 con informazioni più articolate. Prima di questa età, quando i bambini fanno domande su come si nasce vogliono, non tanto sapere come sono nati loro, ma come si viene al mondo in generale. Intorno ai 5 anni, poi, i piccoli iniziano a costruire il loro romanzo familiare, fantasia cosciente d’aver genitori diversi da quelli reali, biologici, sociali o adottivi che siano. Queste fantasie permettono di meglio superare il conflitto edipico, spostando i sentimenti di gelosia e rivalità verso figure immaginarie». Questo accade per tutti, che cosa c’è di diverso per i figli della provetta? «Se un figlio avverte un clima di tensione, dovuto al non-detto, potrebbe radicarsi troppo in queste fantasie. E questo va evitato» chiarisce Giani Gallino. Ma come parlare? Nel libro citato ci sono «semino e ovetto» che si incontrano in un barattolo. E il principe Mirko che trova i semini «di principino» nel bosco... «Il simbolismo delle favole - conclude Giani Gallino - aiuta il bimbo ad avvicinarsi a una realtà che andrà poi rispiegata man mano che cresce. Ma non illudiamoci che sia meglio rimandare "certi discorsi" all’adolescenza. In adolescenza con i figli è già difficile parlare, figurarsi di temi come questi».
«Corriere della Sera» del 22 Aprile 2007

Tolkien, il signore delle parole

Un saggio di Verlyn Flieger analizza la filosofia del linguaggio nell’opera del grande autore inglese
di Marco Meschini
Per la maggioranza assoluta dei lettori, John Ronald Reuel Tolkien è l’autore de Il Signore degli Anelli. Ma quali sono le sue altre opere? E come si colloca quel capolavoro del XX secolo nella sua intera produzione?
Come a ogni classico che si rispetti, anche all’autore inglese accade di finire giustapposto all’opera di maggior successo, finendo con il ritenerla anche la sua maggiore in assoluto. Ciò è tanto più vero in un Paese come l’Italia, dove per oltre mezzo secolo il mondo fantastico di Tolkien è stato bollato con la squalificante etichetta di «genere fantasy», quasi fosse un Harry Potter o un Eragon qualunque.
In realtà, la ricerca - anche accademica - intorno al genio creativo del professore di Oxford continua a sfornare studi sempre più qualificati e illuminanti, capaci di collocare la sua impresa artistica nel panorama globale. È il caso del saggio Splintered light di Verlyn Flieger, la cui prima edizione è del 1983 mentre la seconda (2002) è stata ora tradotta in italiano con il titolo Schegge di luce. Si apre con questo saggio una nuova collana, voluta da Emmanuele Morandi e Claudio Antonio Testi, i cui confini sono chiari ma non ristretti: «Tolkien e dintorni», a indicare che il gruppo di ricercatori da loro riuniti insieme all’Istituto Filosofico di Studi Tomistici e all’editore Marietti 1820 mira a gettare un fascio di conoscenza sulle gesta creative di quel gruppo un po’ eccentrico e molto geniale che prese il nome di Inklings, letteralmente «imbrattatori d’inchiostro», animato dalle figure di Tolkien, C.S. Lewis, Ch. Williams e altri nel santuario oxoniense, per bere, fumare, discutere elevato e scrivere benissimo. Un’iniziativa egregia, che tien dietro al buon successo di un altro libro su Tolkien, La via per la Terra di Mezzo, di Tom Shippey.
Ebbene, questo primo volume della collana affronta di petto il problema sollevato in apertura. Per la Flieger non è possibile comprendere appieno Il Signore degli Anelli né, tantomeno, il suo autore, senza avventurarsi nel suo legendarium, ovvero l’intero complesso della sua opera, partorita in oltre cinquant’anni di vita all’interno di un limpido sistema linguistico e filosofico. Tutto, infatti, trae origine dagli studi filologici di Tolkien, capace di creare storie a non finire a partire dai fonemi, presto articolati in linguaggi creati da Tolkien stesso per portare alla vita - intesa di primo acchito come percezione dell’esistente, nominazione del creato e coscienza di sé - il suo mondo fantastico.
Questo impressionante disvelamento del potere biblico del lógos, della «parola», derivò a Tolkien - oltre che dai suoi talenti naturali - dall’incontro con un altro frequentatore degli Inklings: Owen Barfield, ideatore dell’«antroposofia». Per Barfield l’uomo si accorge progressivamente di se stesso e di ciò che lo circonda proprio distaccandosi gradualmente dal mondo e dal potere che ha dato avvio al tutto. L’individualizzazione che ne consegue, infine, conduce a una superiore unità con l’universo e il suo Creatore. E il linguaggio riflette questo processo: da un’unità remota si distaccano nuove forme e nuovi sensi, come le infinite rifrazioni di un raggio di luce attraverso un prisma. Luce e parola si trovano così, unite in essenza, nella polarità positiva che contrasta con l’ombra e il rumore, contraltare psicologico, esistenziale e artistico di tutta l’opera di Tolkien. Di scheggia in scheggia, Verlyn Flieger conduce il lettore nel vasto mondo del Silmarillion, il vero, grande opus magnum di Tolkien, alla fine del quale si potrà dire, con un’altra studiosa del grande autore, Simonne d’Ardenne: «Lei ha lacerato il velo e lo ha attraversato, non è vero?».

Verlyn Flieger, Schegge di luce. Logos e linguaggio nel mondo di Tolkien (Marietti 1820, pagg. 294, euro 25).
«Il Giornale» del 6 maggio 2007

Caso Toaff, la sconfitta degli storici

Cardini risponde alle critiche di Adriano Prosperi: «Difendere un collega sarebbe stato nostro dovere. In pochi l'abbiamo fatto, e comunque non ci siamo riusciti»

di Franco Cardini

Non ha apprezzato, Adriano Prosperi (su «Repubblica» del 1° maggio), il mio libretto Il "caso Ariel Toaff". Una riconsiderazione (edizioni Medusa). Me ne dispiace sinceramente. Adriano Prosperi è uno dei nostri studiosi più illustri: il suo consenso è sempre ambìto, il contrario è frustrante e fa pensare. Da parte mia, mi è dispiaciuto riscontrare in un articolo, che contiene per altro molte parti nobili e del tutto condivisibili, un tono sprezzante e risentito. Sia quindi chiaro che non avevo alcuna intenzione, in quel mio libretto, di provocare e tanto meno di offendere nessun collega, a cominciare proprio da lui. D'altronde, non riesco a capire perché Prosperi dia l'impressione di non credere nella sincerità dell'assunto dal quale sono partito. Io non sono soltanto un cattolico: sono un vecchio allievo spirituale della Compagnia di Gesù, e Prosperi sa benissimo cosa sia un "esame di coscienza". Tale esame, lo faccio ogni sera prima di addormentarmi da circa un mezzo secolo: e poche volte in vita mia ho saltato questo appuntamento. Su Toaff in effetti, ho appunto avuto la sensazione di essere partito, in una mia recensione fatta un po' troppo a caldo, con il piede sbagliato. Il libro mi era piaciuto, mi aveva affascinato, e d'altra parte mi era sembrato molto fedele al suo programma teorico: l'esaminare gli indizi, alla ricerca della possibilità di costruire delle prove. Sono state alcune recensioni evidentemente più accorte e competenti della mia, da quella di Anna Foa a quello dello stesso Prosperi, a farmi ricredere. D'altra parte, però, un'altra cosa mi aveva colpito. La coincidenza serrata, stringatissima, tra le recensioni, magari dure ma sempre professionali, degli storici, e il grande clamore politico e massmediale suscitato dal libro. Esaminando sistematicamente gli articoli dei quotidiani usciti tra febbraio e i primissimi di marzo, mi è sembrato di rendermi conto come gli studiosi, evidentemente senza volere, abbiano preso parte a un rito di linciaggio politico-intellettuale orchestrato da ambienti e per fini evidentemente extra-scientifici. Il mio libretto ha voluto essere una testimonianza, appunto, del rischio che gli studiosi corrono quando, inavvertitamente e in buona fede, mischiano la loro voce ad eterogenei cori diretti da centrali che hanno interessi tutt'altro che vicini ai loro. D'altronde, Prosperi sa molto meglio di me qual è oggi la condizione professionale dello studioso, dell'insegnante, del ricercatore. Anch'egli pratica le pagine dei quotidiani: e suppongo che lo faccia, come a un diverso livello dal suo faccio anche io, essenzialmente in due occasioni. Quando viene richiesto di un parere e quando gli sembra di avere qualcosa di importante da dire. Sul piano teorico la differenza e diciamo pure l'estraneità fra il mondo universitario e quello politico e massmediale è chiara ed evidente. In pratica, capita spesso di restar prigionieri di meccanismi che non si riescono a controllare. Non credo, onestamente, di aver bisogno di «suscitare clamore», come recita il titolo, ritengo editoriale, dell'articolo firmato da Prosperi. Faccio un altro mestiere, e avendo in passato lavorato anche in un'importante azienda che fabbrica mass-media, la Rai, posso assicurare in piena coscienza che non ho mai fatto nulla per montare sul proscenio. A volte succede anche a me, come succede a molti altri studiosi di me ben più illustri. Sono gli incerti di un mestiere che è, esso stesso, in mutamento. Il mio scritto non vuole stupire nessuno. Intende soltanto comunicare la sensazione che io ho ricevuto leggendo serialmente, e confrontandoli, i molti testi degli articoli redatti da studiosi su un caso che resta dolorosissimo. Il caso di un libro ormai sparito dalla circolazione, condannato da un Parlamento (quello israeliano), e il cui autore ha forse addirittura rischiato, a causa della sua pubblicazione, il posto di lavoro nella sua università. Mi ha preoccupato e commosso la vicenda anche umana di Ariel Toaff: una vi cenda nel quale sono entrati in gioco perfino i suoi più cari affetti familiari. Ma soprattutto mi ha preoccupato l'esemplarità di un "caso" che ha messo a nudo fino a che punto siano fragili, perfino nel nostro Occidente, le basi della libertà di ricerca scientifica. Aggiungo infine che, per quanto riguarda lo specifico della cancellazione del nome di Simonino di Trento dal numero dei santi, non mi risulta che nessun cattolico se ne sia mai lamentato. La Shoah, questa immane e terribile tragedia, ha definitivamente aperto gli occhi dei cristiani in genere e dei cattolici in particolare, anche nei confronti di quei residui di antigiudaismo che sonnecchiavano all'interno delle loro prassi liturgiche e della loro memoria storica. Antigiudaismo, certo, non è sinonimo di antisemitismo: ma quello può essere il brodo di coltura di questo. È una lezione che abbiamo imparato molto bene. Ma il libro di Toaff non aveva senza dubbio alcun benché lontano rapporto con quelle istanze o velleità di risuscitare certe tragiche ombre. Difendere un collega sarebbe stato nostro preciso dovere: se non altro distinguendo con chiarezza e rigore le nostre responsabilità rispetto a quelle di politici, di pubblicisti, di mestatori. Non l'abbiamo fatto; o meglio, solo alcuni ci hanno provato. In ogni caso non ci siamo riusciti. Il mio libretto è la dolorosa testimonianza di un fallimento personale che in una certa misura coincide con un fallimento della comunità degli studiosi. Solo questo volevo comunicare. Senza cercare alcun clamore. Insomma, quella di Pasque di sangue è stata una gran brutta pagina della nostra storia intellettuale e anche politica, dalla quale usciamo tutti sconfitti: anche i "vincitori", perché il vincere facendo sparire dalle biblioteche (e riapparire al mercato nero librario e in infinite forme di samizdat) un libro costato anni di ricerche a uno studioso serio e stimato, assistere alla sua umiliazione e rischiar di trovarsi corresponsabili della sua rovina morale, professionale e forse profondamente intima non è una vittoria della quale ci si possa vantare.

«Avvenire» del 3 maggio 2007