16 maggio 2007

Tecnocrate, ritrova l'anima

La modernità ha ceduto lo scettro della politica all'economia e il pragmatismo vince sulla trascendenza. Parla Domenico Fisichella
di Giorgio Ferrari
«Il potere dei manager deve trovare un fondamento culturale, altrimenti a farne le spese (come già si incomincia a vedere), saranno l’idea dello Stato, l’etica e la fede religiosa»
Quali e quante sono le trasformazioni del potere politico e sociale nella occidentale civiltà della produzione, dalla prima rivoluzione industriale fino alla recente stagione postindustriale? Si è forse vicini alla sostituzione della politica con una modalità manageriale e tecnocratica di guidare la società? All'impegnativo quesito prova a rispondere Domenico Fisichella, uomo politico, già vicepresidente del Senato, ma soprattutto intellettuale di lungo corso e ordinario di Dottrina dello Stato all'Università di Firenze e successivamente docente di Scienza della politica all'Università La Sapienza e alla Luiss, nella sua ultima fatica, Crisi della politica e governo dei produttori (Carocci, paggine 354, euro 19.50), il cui titolo già ci prefigura un teorema inquietante.
Non è così, professore?
«Nel medioevo si realizzano due grandi acquisizioni della cultura occidentale che rappresentano larga parte della nostra essenza sia culturale sia strutturale: il primo fenomeno è l'istituzionalizzazione della distinzione tra autorità spirituale e autorità temporale. L'altro grande fenomeno fu la nascita dell'homo oeconomicus nella sua autonomia rispetto al potere politico, e quindi l'emergere della specificità della società civile nella sua dimensione strutturale».
Dopodiché?
«Dopodiché avviene il progressivo e sistematico tentativo del mondo economico di occupare tutti gli spazi. Sia lo spazio della politica - da cui il titolo del libro - sia anche lo spazio del mondo spirituale e culturale attraverso una forte tendenza al controllo di tutti gli strumenti di persuasione che caratterizzano soprattutto un tempo come il nostro».
Già due secoli fa secondo lei questa tendenza prendeva corpo?
«Assolutamente sì. Secondo me la prima grande teoria della scomparsa della politica e della emergenza di un potere tecnocratico si trova già nei pensatori dell'ottocento francese, come Saint Simon e Auguste Comte. I quali si resero ben conto che la tecnocrazia - oggi si direbbe il potere dei manager, dei direttori - comporta il rischio grave di una subordinazione radicale di tutte le espressioni della vita individuale e collettiva nei confronti dell'economia. Tuttavia è stato costruito un sistema teorico che eliminando drasticamente la dimensione della trascendenza e risolvendo tutto nella immanenza storica rende molto arduo lo sforzo di contenere questa tendenza al primato dell'economia».
I pensatori francesi compresero questo fenomeno ma non lo contrastarono…
«Qui si pone il problema del ruolo e della dimensione della vita religiosa nella vita collettiva. Perché non vi è dubbio che una certa cultura - alludo ovviamente al positivismo - abbia saputo antevedere sviluppi importanti del mondo contemporaneo e difatti è proprio del positivismo la prima teoria tecnocratica che annuncia il superamento del capitalismo non secondo la logica del marxismo, ma secondo il criterio in ragione del quale nel mondo della produzione si determina una separazione fra titolarità e gestione degli strumenti produttivi. Ma essendo i positivisti i teorizzatori della "morte di Dio", essi sono anche i pensatori che rendono difficile recuperare nel tempo moderno quello che era stato il grande lascito del medioevo. Il massimo che potevano concepire era di affidare agli intellettuali laici il ruolo che nel medioevo svolgevano i chierici. Ma se viene meno l'idea della trascendenza, un'intelligentsija che si illuda di controllare la struttura tecnocratica del potere è destinata a soccombere».
Che cos'è oggi la politica, quale il suo potere?
«C'è una grande crisi della politica come luogo dell'equilibrio e del riconoscimento della pluralità delle esperienze - economiche, etiche, religose - una politica la cui capacità si sta drammaticamente attenuando. Nel mondo occidentale ha avuto per lungo tempo un primato nella dimensione temporale. Ma le grandi esperienze totalitarie del XX secolo ne hanno evidenziato il primato non regolativo ma interventivo: tutto era politica secondo la logica leninista, così come in quella nazista. Il che ha proiettato un lascito negativo sul nostro tempo che rende precaria la funzione della politica e spesso ne rende indistinto il ruolo».
Qualcuno potrebbe dire: la politica non serve più, bastano i consigli d'amministrazione…
«Già. Non a caso la fine della politica è il traguardo dei teorici della tecnocrazia. Io dico invece no: la politica va rivisitata sia sotto il profilo culturale che istituzionale».
L'economia è un nemico della civiltà?
«Assolutamente no. Io non ho nulla contro l'economia nel suo ambito e la sua capacità di produrre ricchezza. Ma attenzione, in assenza del lavoro culturale della politica e della sua elaborazione, i dati della forza economica, della forza materiale sono destinati a prevalere. Questo è il grande compito al quale, come politici, dobbiamo lavorare. Se non sappiamo che cosa l'affermazione del potere tecnocratico ha alla sua radice, cioè il tentativo di invadere sia la dimensione della politica annullandola, sia quella della persuasione morale e della fede religiosa subordinandole, non comprenderemo esattamente i termini in cui si profila questo fenomeno».
Stiamo davvero correndo un simile pericolo?
«Si guardi attorno. Viviamo una realtà nella quale lo Stato sta attenuando il suo ruolo. Siamo proprio sicuri che certe decisioni assunte in Parlamento siano endogene e non il prodotto di decisioni esterne che poi i Parlamenti ratificano? E non possiamo forse dire la stessa cosa per certi governi, dove le interferenze del mondo finanziario sono tanto significative?»
«Avvenire» del 3 maggio 2007

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