07 maggio 2007

Quei 6,8 milioni di giornate di lavoro da recuperare

di Pietro Ichino
Secondo i dati forniti dall’Inps, dal 2003 al 2005 le giornate di malattia certificate dai medici di base ai lavoratori italiani sono aumentate di 6,8 milioni; per la precisione, da 66.900.000 a 73.700.000: un aumento di oltre il 10% in due anni. Poiché in quel periodo non si è verificata alcuna catastrofe sanitaria, dobbiamo attribuire il fenomeno a una piccola catastrofe socio-culturale: per qualche causa che ancora non conosciamo, in quei due anni è bruscamente aumentata la propensione dei lavoratori italiani a stare a casa (ma anche la disponibilità dei medici ad assecondarla). Se il costo complessivo medio di una giornata di lavoro è di 150 euro, quei 6,8 milioni di giornate di malattia in più - stabilizzatesi nel 2006 - stanno costando alle aziende italiane oltre un miliardo di euro l’anno: quasi un terzo di quanto il governo ha destinato alle aziende stesse con l’ultima legge finanziaria per ridurre, con il «cuneo fiscale», il costo del lavoro. Data l’enorme entità di questa perdita, vale davvero la pena di investire risorse e attenzione sullo studio dei meccanismi socio-culturali che la producono; e dei possibili rimedi. Il basso livello relativo delle retribuzioni italiane non può spiegare un aumento improvviso dell’assenteismo di questa entità. In un sistema che consente a quasi tutti i lavoratori di «mettersi in malattia» con grande facilità e senza perdita di retribuzione, ciò che induce ad andare ogni giorno al lavoro è, certo, l’attaccamento al lavoro stesso, sul quale il buon compenso certo influisce; ma conta anche il senso del dovere, il senso di responsabilità verso i colleghi e l’intera collettività. E questo senso di responsabilità è alimentato dalla percezione che esso sia condiviso dalla generalità dei consociati; se invece la coesione sociale e il clima di fiducia reciproca tra i membri della comunità si deteriorano, se prevalgono i messaggi di egoismo e svalutazione del bene pubblico, si innesca il circolo vizioso che tende a collocare il sistema a un livello più basso di efficienza ed equità. Occorre rendersi conto che la cultura delle regole, il senso civico e l’attaccamento al bene comune, alla res publica, non costituiscono soltanto risorse morali essenziali di un Paese, ma costituiscono anche un fattore produttivo indispensabile, di cui per certi aspetti (come questo di cui stiamo discutendo) è misurabile con precisione l’enorme valore economico. Coltivare e alimentare questo delicatissimo «gioco a somma positiva» è compito precipuo del governo nazionale, ma anche di tutte le altre istituzioni e formazioni sociali intermedie, ivi compresi gli ordini professionali, i sindacati dei lavoratori, i giudici penali e del lavoro (i quali - come mostra anche l’impressionante articolo di ieri di Gian Antonio Stella - proprio sul terreno dell’assenteismo abusivo solitamente dimenticano il rigore applicato in altri campi). Riattivare il gioco a somma positiva è possibile soltanto con un’iniziativa a 360 gradi, che coinvolga tutti questi soggetti e faccia leva al tempo stesso sulla campagna di opinione e sugli incentivi giusti, dando a tutte le parti sociali interessate la percezione che si sta voltando pagina. Pensiamo, per esempio, a un governo che - mediante un accordo con i sindacati, gli imprenditori, l’Inps e possibilmente anche gli Ordini dei medici - lanci l’obbiettivo del recupero, nell’arco del prossimo anno, di quei 6,8 milioni di giornate di astensione dal lavoro sicuramente evitabili; e magari - perché no? - negli anni successivi l’obbiettivo di allineare il nostro tasso di assenze per malattia a quello dei Paesi europei più virtuosi. Come? Richiamando tutti, i medici per primi, a un maggior rigore e senso di responsabilità; attivando quella rilevazione telematica di tutte le certificazioni e le prescrizioni terapeutiche (già prevista fin dalla Finanziaria 2005, articolo 1, comma 149°, ma ancora inattuata per ritardi del ministero della Salute) che consentirebbe un controllo molto efficace sull’operato dei medici e su alcune forme di assenteismo abusivo; richiamando i dirigenti pubblici alla necessità di un riallineamento dei tassi di assenza nel loro settore a quelli delle aziende private; ma anche adottando un’opportuna riduzione della retribuzione per i primi tre giorni di malattia, eventualmente compensata dalla possibilità di autocertificazione per quei giorni, ma, soprattutto, da un aumento generale delle retribuzioni corrispondente al risparmio conseguito dalle aziende, in modo che tutti i lavoratori percepiscano immediatamente il vantaggio della riforma. L’obiezione di rito, a questo punto, è che i veri problemi del mondo del lavoro sono «ben altri»: il lavoro nero, le «morti bianche», e anche le retribuzioni troppo basse. Ma se andiamo alla radice del fenomeno del lavoro nero e di quello connesso degli infortuni nei cantieri troviamo ancora l’illegalità diffusa, il difetto generale di cultura delle regole che affligge il nostro Paese: qui la battaglia, in ultima analisi, è ancora la stessa. Quanto alle retribuzioni troppo basse, perché non incominciamo col restituire a chi lavora quel miliardo indebitamente distribuito ogni anno a chi sta a casa senza vera necessità?
«Corriere della sera» del 16 aprile 2007

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