24 aprile 2007

Tasso, Ariosto e i rifacimenti

Il problema delle edizioni critiche
di Cesare Segre
Quando si possiedono più redazioni d’autore di un’opera, si tende a preferire l’ultima, dato che essa rappresenta il culmine dell’elaborazione. Ma in un caso almeno si è fatta la scelta opposta: si legge la Gerusalemme liberata del Tasso, e pochi si dedicano alla Gerusalemme conquistata, che ne è l’ultimo rifacimento. Non illustreremo i motivi di questa preferenza, generalizzata; possiamo però rifletterci sopra. L’opera, quando esce dalle mani dell’autore, è ancora colma del suo entusiasmo, illuminata dalla sua ispirazione. L’autore può poi lavorarci sopra, perfezionarla, arricchirla; ma fa, in genere, un lavoro di letterato. In una polemica ormai lontana, s’erano voluti distinguere i critici gerontofili, portati a preferire i lavori ultimi degli scrittori, più rifiniti e armoniosi, e quelli gerontofobi, che preferirebbero le prime prove, più fresche e baldanzose. Senza sviluppare questa classificazione, diremo solo che il critico, in generale, deve calcolare sagacemente guadagni e perdite; e talora gli può accadere di immettere nell’ammirazione complessiva per l’ultima redazione un po’di rammarico per qualche sfumatura diventata più opaca, per qualche rimaneggiamento inopportuno. È il caso dell’Orlando furioso, stampato dall’Ariosto nel 1516, e poi rielaborato e riedito nel 1521 e nel 1532. Il poema del 1532 è molto arricchito, tanto da passare da quaranta a quarantasei canti. E ormai, quando parliamo di Furioso, è a questa redazione che alludiamo. Eppure nel secondo Novecento alcuni critici hanno già avvertito che nell’edizione definitiva le aggiunte di carattere encomiastico e gli sviluppi narrativi sono in complesso più raffinati che ispirati. E perciò si desiderava una riproduzione leggibile della prima edizione, sinora ristampata solo in un volume celebrativo quasi introvabile (Ferrara 1875) o in forma diplomatica, e perciò di ardua lettura, da parte di Filippo Ermini (1909-1911). Certo, tutte le varianti rispetto al 1532 sono registrate nell’edizione critica Debenedetti-Segre (1960); ma leggere distesamente l’opera è un’altra cosa. Ringraziamo dunque Marco Dorigatti, che ha fornito un testo leggibilissimo dell’edizione del 1516, pur con qualche arcaismo grafico che risponde al più aggiornato gusto filologico (L. Ariosto, Orlando furioso secondo la princeps del 1516, a cura di M. Dorigatti, con la collaborazione di G. Stimato, Olschki, pp. CLXXX-1074, 88). Lavoro non facile. L’Ariosto, come poi altri scrittori, sino al Manzoni, si fece editore del suo stesso capolavoro, affidandone la stampa a un onesto ma oscuro tipografo ferrarese, il Mazzocco; e continuò a correggere il testo nel corso della stampa. Dorigatti ha dunque collazionato tutti gli esemplari superstiti (dodici), e ricostruito verso per verso il testo secondo la volontà del poeta; fornendoci quello che Conor Fahy chiama «esemplare ideale». Il volume è tipograficamente stupendo. Quando uscì questo libro, il primo da lui pubblicato, il poeta aveva quarantadue anni. Era nel pieno della sua attività diplomatica (al servizio del cardinale Ippolito d’Este), che lo portò spesso a trattare, e persino a discutere, con i papi Giulio II e Leone X. Da poco era entrata nella sua vita Alessandra Benucci, sua compagna per gli anni a venire. Ammirato come autore e regista di due commedie (altre ne seguirono), l’Ariosto aveva già dato lettura a Isabella d’Este di brani del poema, per il quale c’era una grande attesa. Quando nel ‘32 apparve la redazione definitiva, l’Ariosto, cinquattottenne, era ormai un «pensionato», pur circonfuso di gloria, e vedeva le ambizioni e l’attività della sua Ferrara, e anche di tutto il mondo che aveva celebrato, in pieno declino, sotto il dominio di Carlo V. Ammalato, sarebbe morto un anno dopo. Si capisce che il poeta fosse ormai preda della depressione, come appare da alcune prove di ampliamento del poema, ad esempio i Cinque canti, escluse alla fine perché avvertite come una stonatura rispetto al resto del poema. Ma quello che caratterizza il Furioso del ‘32 è il senso di un trionfo alle luci del tramonto: quando il poema ripercorre la storia d’Italia, giustificando la politica filofrancese e antipapale degli Estensi, ormai esaurita, o quando celebra i grandi pittori e scrittori del secolo, o loda i signori più brillanti, dà l’impressione di un elogio funebre. Pochi anni prima c’era stato il Sacco di Roma, dodici anni dopo sarebbe incominciato il Concilio di Trento. L’edizione del ‘16 evoca un clima ben più festoso. Una sola delle aggiunte del ‘32 è straordinaria: la storia di Olimpia. Quest’avventura restituisce tutta la sua grandezza a Orlando prima impazzito, facendogli liberare con una lotta eroica la bellissima dallo scoglio su cui i persecutori l’hanno incatenata come offerta a un mostro marino. Ma il risultato decisivo del rifacimento sta nella revisione linguistica, che porta il testo del ‘16, con il suo popolaresco linguaggio padano, modellato sull’Orlando innamorato, a un toscano che, con la sua armonia rinascimentale, segna l’accettazione della lingua del Petrarca come lingua letteraria italiana. Qui il minutissimo lavoro di revisione mostra la maestria dell’ultimo Ariosto, e ci lascia un capolavoro assoluto.
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007

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