24 aprile 2007

The Road to Blacksburg

Lo scrittore e il professore: perché scartare la vecchia ipotesi dell’Apocalisse?
di Giuliano Ferrara
Mentre un ragazzo forse esistenzialmente frustrato faceva fuori 32 tra studenti e professori del campus virginiano di Blacksburg con una semiautomatica, mentre li allineava al muro in una classe per l’esecuzione, mentre alcuni di loro si buttavano dalla finestra per scampare all’eccidio, mentre il cecchino e boia si frantumava la testa fino a rendere impossibile per ore l’identificazione, il grandissimo scrittore di El Paso, Cormack McCarthy, vinceva il Pulitzer per il suo romanzo sull’Apocalisse, “The Road”, racconto minerale, d’alluminio e scarti di mondo, viaggio di redenzione di un padre e di un figlio verso l’oceano dell’ovest, contro il cielo grigio di cenere, tra i resti dell’umanità e della sua merce, quando tutto era ormai finito e il nulla si era rivelato perché nell’amore paterno si conoscesse, forse, il nome di Dio o l’immagine vera dell’uomo. E’ sicuro come diceva Kurt Vonnegut che dopo una strage non c’è niente di intelligente da dire, ma qualcosa di intelligente forse era stato detto prima. Vogliamo lasciarci sfiorare dal dubbio?
La domanda urgente che ciascuno si propone dopo Blacksburg è: perché uccidono? Se non si voglia ascoltare la testimonianza americana ispirata al dolore profetico e alla ricerca di senso di uno scrittore, prima della strage, bisogna rassegnarsi alla competenza postuma e asettica del professore di sociologia e criminologia, nel caso James Alan Fox, autore di “The Will to Kill”, che ha scritto ieri la sua diagnosi sul Los Angeles Times. Dice che sono dei frustrati, quelli che uccidono “senza senso”; aggiunge che sono dei piagnoni, che attribuiscono agli altri i loro fallimenti; che non hanno sostegno emozionale da famiglia e amici; che si imbattono in un avvenimento personale da loro giudicato catastrofico; infine, si dotano con facilità di armi letali. C’è meno compassione in America, è la sua diagnosi per un moltiplicarsi fatale delle stragi senza senso negli ultimi trent’anni, e troppa competizione tra gli umani. Troppi divorzi e poca frequentazione delle chiese, nell’eclissi della comunità tradizionale, insomma un feroce e atroce isolamento che è il prezzo da pagare alla società aperta. Ma il punto vero è in questa domanda del professor Fox, e nella sua risposta disperatamente e politicamente corretta: vero, dice il prof., negli ultimi ventisei anni il numero delle stragi prive di significato è aumentato come mai prima nella storia dei millenni, ma forse possiamo pensare che l’umanità è diventata più cattiva, che gli uomini sono assetati di sangue come mai prima d’ora? Of course not, è la risposta, naturalmente no. Obiezione: perché no? Non guardate la cattiveria, che c’è sempre stata, guardate il suo essere meaningless, senza senso. E domandatevi se questa eclissi dei significati non sia il tratto caratteristico della più moderna tra le società umane, quella società americana che produce con sempre maggiore regolarità sparatorie e racconti apocalittici, dolori e lutti collettivi, frustrazione e ricerca.
«Il Foglio» del 18 aprile 2007

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