10 aprile 2007

Novelle, racconti e romanzi brevi: l’arte di narrare tutto in poche righe

In principio furono le favole indiane. Poi vennero Boccaccio, Chaucer e Pirandello. Storia di un successo che non finisce mai
di Franco Cordelli
Per noi italiani il racconto, ovvero la novella, è un tipo di narrazione privilegiato. Perché? E che cos’è una novella rispetto a un racconto? L’idea di novella reca nel suo stesso nome il più appropriato dei significati possibili. Novella, cioè novità. Colui che racconta una novella è un viaggiatore, è un uomo che ha visto paesi sconosciuti, e che ha assistito a una scena, a una vicenda, che va a raccontare ai propri simili, ai concittadini, ai familiari che non sono partiti con lui, che non erano con lui in quella circostanza. L’origine della novella non a caso deve relativamente poco all’area occidentale del mondo: nella letteratura greca e latina non vi sono novelle, o ve ne sono pochissime. Le Favole milesie sono attribuite ad Aristide, un greco vissuto nel secondo secolo dopo Cristo. Poi vi sono novelle, in forma di digressione, in racconti più ampi, proto-romanzi, come il Satyricon di Petronio. Là dove veramente nacque la novella, in forme precise, ben presto codificate, è in Egitto, in area babilonese, soprattutto in India. La novella viene insomma dall’Oriente. Il Pancatantra e il Sukasaptati sono vere e proprie raccolte di novelle, la cui nascita risale al quarto secolo. Il Pancatantra è un insieme di avventure, per lo più di animali. Il Sukasaptati ha per protagonista un pappagallo che ogni notte racconta una storia alla moglie del suo proprietario per allontanarla dall’adulterio. È evidente come questo sia il modello delle novelle arabe intitolate Mille e una notte. Ma dicevo di noi italiani. La novella è dove noi eccelliamo in quanto narratori di storie. La brevità è la nostra forza. In Italia la novella ha acquistato i suoi caratteri specifici e più nettamente realistici. Le cento novelle del Decameron di Boccaccio sono un ritratto della società mercantile del XIV secolo: ne esprimono la gioia di vivere e lo stesso piacere di raccontare una storia. Quale storia? Si direbbe l’intero quadro della vita umana, con i suoi vizi e virtù. Al centro dell’accadimento spesso c’è un evento luttuoso che si capovolge in un qualche bizzarro incidente; più di frequente c’è un evento burlesco, una beffa, una disattenzione, un’incapacità di affrontare il mondo, che dal narratore viene più o meno bonariamente messa alla berlina. Dal Decameron in poi la tradizione della novella si diffuse in tutta Europa: da I racconti di Canterbury di Chaucer in Inghilterra allo Heptameron di Margherita di Navarra in Francia, alle Novelle esemplari di Cervantes in Spagna. Nuovo vigore e nuove caratteristiche, il racconto acquisisce nei grandi scrittori realisti dell’Ottocento, nei russi Puskin, Lermontov, Gogol, Turgenev e, soprattutto, Cechov; e nei francesi Merimée e Maupassant. Uno storico francese della letteratura, Albert Thibaudet, scrisse che «un romanziere si butta a nuoto, abbraccia una corrente, va alla deriva L’autore di novelle, invece, rimane a riva, con il cavalletto e la tela». Questa caratteristica di cautela, oppure di misura, trova in Italia, tra fine dell’Ottocento e inizio del Novecento, nuovo vigore, nuova linfa. Come non ricordare le Novelle rusticane di Giovanni Verga e le Novelle per un anno di Luigi Pirandello?
È solo dopo Pirandello, o Cechov, che la novella si trasforma decisamente in ciò che chiamiamo racconto. Ripeto la domanda: che cos’è un racconto (come oggi lo chiamiamo) rispetto alla novella? Direi così: il narratore di racconti sta al novelliere come il romanziere sta al narratore puro. Per capirci meglio si potrebbe citare Schiller, il quale distingueva tra poesia ingenua e poesia sentimentale. Il poeta sentimentale è un uomo consapevole di se stesso. Di fronte a lui non c’è solo la materia del suo racconto, c’è lui in persona, lui in quanto relatore della novità apportata ai concittadini. Dunque, il racconto, genere per eccellenza moderno, sta alla novella con quel di più di consapevolezza, di coscienza di sé che l’uomo adulto possiede, o come un tesoro o come una condanna, rispetto all’uomo giovane. Il tratto decisivo, cruciale, del racconto, resta la brevità. È ciò che ne fa la fortuna. Rapidamente, veniamo a sapere tutto ciò che c’è da sapere. Ma ciò che ora sappiamo non è solo quanto è altrove o in altro tempo accaduto. Che ne parli o no, che lo dica esplicitamente o che lo lasci trapelare tra le righe, è anche ciò che è accaduto nella mente e nel cuore di colui che ci sta raccontando la storia ora in nostro possesso, con un di più di prospettive.
«Corriere della sera» del 6 aprile 2007

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