04 aprile 2007

La religione di Foscolo

Duecento anni fa uscivano i «Sepolcri», che si possono avvicinare a una sorta di «umanesimo cristiano»
di Pietro Gibellini
Splendono ancora i Sepolcri, per i lettori d'oggi? Ed è così luminoso? Per ben intendere quel testo, va ricordata la spiegazione che ne diede lo stesso autore replicando polemicamente all'abate Gouillon, che l'aveva tacciato di oscurità, accusando inoltre Foscolo di aver calunniato il governo e i milanesi. Il carme vuol accendere «gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all'indipendenza, gl'ingegni al vero e al bello». La religione che meglio ottenne questi fini fu, per Foscolo, quella pagana (mentre Leopardi, nello Zibaldone, riconoscerà anche al cristianesimo l'eroicità perduta dai moderni, toccati dalla «ragione»).
Poeta-vate, Foscolo dà dunque alla sua poesia un alto fine etico e conoscitivo: trae spunto da un evento politico (l'editto di Saint Cloud sulla sepoltura) per interrogarsi sul senso della vita. La sua religiosità è essenzialmente corale e umana, perciò il rito e il culto sono rivalutati come fonte di civiltà; egli ritiene, sulla scia di Vico, che «nozze, tribunali ed are» abbiano trasformato le primitive «umane belve» in uomini nobilitati dalla «pietà di se stessi e d'altrui» (sono, questi, temi terribilmente attuali: l'imbarbarimento crescente non è in qualche modo legato alla crisi della famiglia, della giustizia e della pietà?).
Il carme procede per voli pindarici, in linea con la rilanciata poetica del Sublime: e fu certo questo interesse per la nuova temperie del classicismo romantico (un ossimoro necessario) che attirò Ugo nella città di Arici e Scalvini, di Pagani e Nicolini, di Labus e Vantini (l'architetto che edificherà il cimitero di Brescia sulla falsariga delle idee foscolianie), insomma in quell'Ateneo dove fervore letterario e passione patriottica s'intrecciavano strettamente. Oltre, s'intende, agli occhi della bella Marzia Martinengo, amante di turno di quell'incorreggibile dongiovanni che tanto irritava Gadda. Quei voli da un'idea all'altra disorientarono i contemporanei, dal buon vecc hio Bettinelli che confessò di trovarsi di fronte a un «fumoso enigma» al malevolo Gouillon, inducendo il Foscolo a chiarirne il senso, come detto.
Ma la struttura ragionativa di fondo è assai chiara, e riordinabile secondo noi sulla scia dell'ipotesto di un autore caro a Foscolo, Francesco Petrarca: evocato nel carme come rinnovatore della poesia d'amore, nuda negli antichi e da lui velata e resa in grembo a Venere, ma tacitamente evocato come autore dei Trionfi («trionfata» è detta la nave vinta da Nelson e variazione di «trionfo» a noi pare «l'ultimo trofeo» teso da Ilio distrutta ai fatali Pelìdi).
Il poeta-pensatore ricalca infatti idealmente la sequenza dei Trionfi di messer Francesco (amore, pudicizia, morte, fama, tempo, Eternità), fatta salva la differenza fra le virtù, poiché alla castitas del medievale il moderno-antico sostituisce una laica e combattiva virtus. Ma la differenza vera è un'altra: non essendo illuminato dalla fede dell'uomo medievale, sostituisce all'Eternità trascendente di Dio l'assolutizzazione dell'Arte, cui viene conferita una facoltà eternatrice, esemplificata in Omero, il poeta rilanciato da Vico e dal ritorno al Perì Hypsous, quel sublime che avrebbe coniugato gravità e semplicità nel verso sciolto, scelto da Ugo non tanto per la sua convenienza al registro discorsivo dell'epistola in versi (il Carme doveva in un primo tempo sottotitolarsi come Epistola al Pindemonte) ma per quella tensione che lo faceva consono a emulare l'Iliade, la cui tentata versione vide compagni e poi nemici Foscolo e Monti.
L'uomo si illude dunque di resistere alla potenza distruttiva della morte col sepolcro (Parini, però, non ha una tomba), con la «corrispondenza d'amorosi sensi» (se i posteri non sono indegni; Alfieri solitario preferisce parlare coi morti). Anche i resti di Troia, tomba collettiva di tutta una stirpe, scompaiono inghiottiti dal tempo, non già il «reo tempo» dell'oggi che costringe il poeta a «ir fuggitivo», ma il tempus edax, che divora i secoli e spazza con le sue fredde ali il deserto della Troade (si ricordi che, quando Foscolo scrive i Sepolcri, Schliemann non ha ancora scoperto l'antica città; di Pompei, almeno, restano le rovine ammonitrici su cui si soffermerà Leopardi). Ma il commosso dono di Giove a Elettra, la pietas di Cassandra e l'arte di Omero perpetuano il nome di Ettore «finché il Sole risplenderà su le sciagure umane».
Il verso finale, non privo di reminiscenze letterarie (Pindaro, la versione catulliana della Chioma di Berenice di Callimaco, Leonida di Taranto), conclude il carme con un messaggio ambiguo: la fama resta per sempre o resta finché non finirà il mondo? E ancora: la fine del mondo è intesa in senso nichilistico o cristiano? (nel secondo caso si avrebbe il superamento della fama come vanitas). L'ambiguità del finale mostra dunque un Foscolo che non ha «trovato» certezze, ma che «cerca» una risposta all'interrogativo metafisico. Se restano dubbi sul piano teoretico (e teologico), il carme è però disseminato di certezze d'ordine morale e civile: si pensi alla già ricordata funzione civilizzatrice di «nozze, tribunali ed are», al senso vivo del dialogo fra le generazioni, non solo nella «corrispondenza d'amorosi sensi», ma nella figura di Cassandra, la profetessa che vede oltre l'illusione del presente e fonda il progetto di un futuro (i «nepoti») sulla memoria dei padri.
Ma si rifletta anche sulla comprensione dell'altro e del vinto: il semi-greco Foscolo, che s'era paragonato a Ulisse nel sonetto A Zacinto, sceglie ora la figura di Ettore, assumendo valori transnazionali, laicamente simmetrici all'idea cristiana di tolleranza. E si pensi infine alla divina dignità dell'uomo e alla sua ansia d'immortalità, idee conciliabili con certo «umanesimo cristiano», anche se espressi nei Sepolcri attraverso il mito della stirpe troiana (antenata di Roma e dunque dell'Italia), nata dall'umana Elettra e da Giove immortale.
«Avvenire» del 28 marzo 2007

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