04 aprile 2007

Esportare la democrazia

Nella nuova edizione del saggio sui sistemi rappresentativi, Giovanni Sartori guarda al futuro del Terzo Mondo
Di Giovanni Sartori
È possibile, ma l’ostacolo è il monoteismo
Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. (...) A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi - liberale e democratico - che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Il che può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l’attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere. Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento - la demoprotezione o il demopotere - è il più importante? (...) L’importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell’insieme. Se non c’è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c’è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è. Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l’elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura. Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l’elemento necessario-minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l’elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare. Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l’Italia fascista dall’Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco). Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell’800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all’imperatore, e l’imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano. Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c’era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli. Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale. Ma il caso più significativo è quello dell’India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l’ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone. Le grandi religioni indiane sono, nell’ordine, l’induismo, il buddismo e l’islamismo. L’induismo definisce l’identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D’altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi. Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant’è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l’India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh. Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l’India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l’India è una democrazia è perché l’ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese. Anche per l’India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l’adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l’India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani. Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.
L’ultimo rapporto di Freedom House denuncia che 2,4 miliardi di persone vivono sotto regimi autoritari; in 90 Stati c’è democrazia; in 58 qualche segno positivo; in 45 non c’è alcuna libertà
«Corriere della sera» del 3 aprile 2007

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