10 aprile 2007

E dal lager rifiorì la poesia

Levi, Wiesel, Solzenicyn, Grossman: una lunga galleria di letterati smentì Adorno, per il quale dopo Auschwitz l'arte era condannata al silenzio
Di Adriano Dell'Asta
C’era il rischio che, dietro la giusta preoccupazione di onorare la tragedia col silenzio, si insinuasse l’idea di una naturale indicibilità del fenomeno dei campi, che avrebbe finito per produrre un vero e proprio oblio: un irrazionalismo estremo nel quale non c’è più alcuna verità
Dopo Auschwitz, aveva detto Adorno, non si potrà più fare poesia. Questa affermazione perentoria è stata smentita dai fatti, dalla realtà di una produzione letteraria il cui valore artistico è indiscutibile e la cui origine, in molti casi, è proprio quel mondo dei campi che per Adorno doveva segnare la fine dell'arte; basti pensare qui a Primo Levi, Elie Wiesel e Robert Antelme per i campi nazisti, ad Aleksandr Solzenicyn, Vasilij Grossman e Varlam Šalamov per i campi sovietici. Levi poi ha anche fatto di più che contestare Adorno con la propria opera; gli ha controbattuto con una replica altrettanto radicale: «La mia esperienza è stata opposta. Dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Sull'altro versante, quello sovietico, Šalamov, pur così lucido nel denunciare la potenza distruttiva dei campi, confermava che non solo da essi poteva nascere poesia, ma che se nei campi era stato possibile conservare un minimo di umanità questo era stato possibile proprio grazie alla poesia; così, scrivendo a Pasternak, gli diceva: «Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano. Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere?». Per quanto potessero essere serie le ragioni e le argomentazioni di Adorno, si deve ammettere che contro la realtà dei fatti e contro un'esperienza dolorosamente condivisa non pare possa esservi ulteriore spazio di discussione. La questione sembra chiusa, ma si sbaglierebbe a credere di poter liquidare troppo sbrigativamente l'ammonimento di Adorno: a ben vedere infatti esso va al di là della pur fondamentale questione dei campi e arriva al problema della verità; e d'altro canto, a semplificare troppo la questione, si rischierebbe di perdere la profondità della risposta di Levi che, a sua volta, investe l'i dea di arte in quanto tale e non solo una singola manifestazione artistica (la letteratura nata dai campi) che resta un fenomeno particolare anche se grandissimo e generato da eventi del tutto eccezionali. Adorno aveva indubbiamente ragione a richiamarci al pudore e al ritegno, e questo è tanto più evidente oggi, in un'epoca in cui l'eccesso e la spettacolarizzazione dell'immagine e della parola hanno superato ogni decenza; e a questo va aggiunto che i campi hanno generato una realtà che è effettivamente al di fuori di quanto ci si poteva immaginare. Tuttavia c'è il rischio che, dietro la giusta constatazione di questa dismisura e dietro la preoccupazione di onorare la tragedia col silenzio, si insinui l'idea di una naturale indicibilità del fenomeno dei campi, che produrrà poi, ancora peggio, un vero e proprio oblio dei campi stessi: ridotti ad un puro fatto, sia pur eccezionale, i campi diventerebbero una mostruosità naturale e fatale, che non chiama in causa la libertà concreta e attuale di ogni singolo uomo e che viene prima o poi rimossa: come un cataclisma, prodotto dalle leggi necessarie della natura, sarebbero il frutto della naturale ed eterna cattiveria umana, contro la quale nulla si può e della quale nulla si può dire. Un razionalismo estremo che pretendeva di possedere le leggi della storia si trasforma e viene sostituito da un irrazionalismo altrettanto estremo nel quale non c'è più alcuna verità e tutto è dominato da una casualità insensata. In realtà una verità c'è, e i fatti non sono inenarrabili perché hanno ecceduto ogni nostra facoltà immaginativa e perché la loro realtà ci risulta scandalosa e priva di ragione: una simile conclusione si fonda solo sul presupposto ingiustificato che si possa parlare solo di ciò che si domina e si possiede compiutamente secondo una concezione della realtà quantitativa e matematizzante che è del tutto unilaterale e retorica; come era retorico Wiesel, ad esempio, quando, riprendendo a modo suo il detto di Adorno, d iceva che «su Auschwitz non si possono fare metafore», contraddicendosi così due volte, perché la sua opera si era sviluppata tutta attorno a una metafora e perché nella sua stessa espressione Auschwitz diventava proprio una metafora (il nome per tutti i campi in generale), cioè tutto il contrario di quello che aveva costituito la sua esperienza particolare e concreta. Quando Levi dice invece che dopo Auschwitz si può fare solo poesia su Auschwitz, non solo sfugge a questa retorica, ma afferma esattamente la logica contraria: che non esistono più puri fatti o, meglio, che, dopo Auschwitz e se si è imparato qualcosa dalla sua abissalità, ogni fatto è eccezionale e per essere capito deve essere introdotto nel mondo dell'artista, che di questa dismisura presente nel reale e del bisogno di renderla sensibile fa la propria ragion d'essere: l'artista che è passato attraverso Auschwitz, in quanto testimone della sua eccezionalità, non può che essere lontano dalla immaginazione impudica di una fantasia disimpegnata e nello stesso tempo non può più ridurre nulla a un puro fatto privo di senso. Questo sarebbe allora il fare poesia per la letteratura nata dai campi: rendere esperienza estetica (visibile, concretamente sperimentabile) questa percezione di una dimensione del reale che lo strappa dall'insensatezza proprio perché ne mostra e ne rispetta l'inimmaginabile eccedenza rispetto a ogni nostra fantasia. Šalamov, in questo più vicino a Levi di quanto Levi stesso possa mai aver sospettato, e pur lontano e ferito da ogni Chiesa, parlava della dimensione religiosa della poesia, di versi «letti come preghiere»; ma ancora di più nella stessa lettera a Pasternak specificava: «Sono profondamente convinto che l'arte sia l'immortalità della vita. Che ciò che l'arte non ha sfiorato - presto o tardi morirà».
Le figure
Sostenendo che, dopo il fenomeno del lager, non era più possibile fare arte (più precisamente, le sue parole furono: «Scrivere poesia dopo Auschwitz è barbarico»), il filosofo tedesco Theodor L.W. Adorno faceva riferimento in primo luogo a se stesso. Nel 1945, infatti, Adorno (1903-1969), pianista provetto, sospese la sua attività di compositore, che affiancava alla riflessione filosofica e musicologica. Più tardi, comunque, ritirò l’affermazione, che comunque aveva messo in moto un ampio dibattito sulla possibilità di una letteratura della Shoah, di dire l’indicibile. In effetti, mentre Primo Levi rientrò da Auschwitz con l’urgenza di raccontare quanto aveva vissuto e pose subito mano a «Se questo è un uomo», altri superstiti faticarono anni per trovare la forza di rievocare ricordi tanto terribili. Elie Wiesel soltanto dopo dieci anni riuscì a comporre «La notte». Come già quello di Levi, anche il suo racconto, pubblicato nel 1955, accosta al corpo narrativo in prosa alcuni, forti elementi in poesia: un linguaggio scelto dallo scrittore ebraico, premio Nobel per la pace nel 1986, per la sua capacità di condensare la drammaticità dell’arrivo ad Auschwitz, dove era stato deportato nel 1944. Un’esperienza, quella dei lager nazisti, per molti versi assimilabile (anche se non del tutto identificabile, sosteneva Levi) a quella dei gulag comunisti, dove erano stati rinchiusi anche numerosi artisti e letterati. Tra questi, il russo Varlam Tikhonovic Šalamov, condannato durante le purghe staliniane del 1937 e rilasciato soltanto nel 1951. Šalamov (1907-1982) rievocò la sua lunga prigionia soprattutto ne «I racconti di Kolyma», dove narrò i gulag della Siberia noti come «la terra della morte bianca». In rapporti con altri figure di primo piano del dissenso intellettuale sovietico, da Aleksandr Solzenicyn a Boris Pasternak a Nadezda Mandel’štam, Šalamov riuscì a far pubblicare la sua opera a Londra nel 1978; soltanto dopo la sua morte, nel 1987, verrà stampata anche in Russia.
«Avvenire» del 10 aprile 2007

Nessun commento: