07 aprile 2007

Come (non) si insegna il latino

di Luigi Miraglia
Formulare un progetto didattico è un traguardo naturalmente condizionato dalla fondamentale questione relativa all’utilità della disciplina di cui si intraprende lo studio, o, meglio, al perché si deve studiare una determinata materia. Nel caso del latino si è aperta una vexata quaestio che ha visto porre sul tappeto le giustificazioni più inverosimili. Alcune tritae opiniones sono quelle che vogliono che il latino sia una palestra logica, una ginnastica mentale, che migliora la comprensione del proprio idioma, della grammatica, facilita l’apprendimento delle lingue romanze, procura conoscenze storiche, contribuisce all’acquisto di metodi e princìpi, è indispensabile per leggere i tesori della letteratura latina classica, che è la base della nostra civiltà. Tutti, quale più, quale meno, risultano motivi piuttosto validi, anche se nessuno riesce da solo a dare ragione della persistenza di un insegnamento che nei licei impegna in media 4-5 ore alla settimana di lezione. Il più debole degli argomenti è quello che vorrebbe il latino strumento unico per il rafforzamento delle capacità logiche, mentre non solo altre lingue moderne - il tedesco, per esempio - potrebbero sortire lo stesso effetto, ma, qualora fosse questa la finalità dell’insegnamento, si potrebbero sostituire le ore di latino con ore di logica formale o di logica matematica. Più convincente ci sembra l’argomentazione di chi sostiene che, non avendo alcuno scopo pratico, il latino insegna ai ragazzi il valore dell’otium inteso classicamente come scholè, ovverosia come studio che possiede in sé i motivi del suo sussistere, senza essere subordinato ad un’ulteriore finalità pragmatico-utilitaristica. Ma anche in questo caso, se qualcuno bellamente diceva che il latino “non serve a niente: come Mozart”, ci si potrebbe chiedere perché studiare la lingua “morta” di Roma, invece di armoniose modulazioni sinfoniche.
Raramente, e mai da sedi istituzionali si sente formulare quella che è la spiegazione più ovvia: al latino è stato riservato un posto d’onore tra le materie insegnate nei nostri licei, non tanto per la prestanza della sua letteratura classica: opportunamente Mandruzzato sottolineava come “c’è da invidiare i greci moderni e perfino, in altro senso, ebrei e indiani, le cui lingue madri sono più generose di doni. Seneca non è Platone, Orazio non è Pindaro, Virgilio non è Omero (...) Ma il latino va oltre; il suo impero politico ha creato anche un impero culturale molto superiore a quello greco; per un millennio e mezzo il latino è stato, tra le due, la primaria delle lingue della cultura e per fortuna si possono leggere pensatori e scienziati dei secoli recenziori in un latino universale che è per noi senza paragone più accessibile che per un finlandese o un tedesco”. Questo il vero motivo: chi non conosce il latino rimane escluso da quasi tutta la trasmissione culturale europea nel corso dei secoli in tutti i campi, dal diritto alla filosofia, dalla medicina alla fisica, dalle scienze naturali alla teologia. Della maggior parte delle opere scritte in un latino vivo in quanto a lessico e fraseologia, “morto”, ossia fissato per sempre nelle forme grammaticali della tradizione classica, quanto a morfo-sintassi, non vi è traduzione alcuna; e chi ignora quella lingua universale che, proprio nelle sue strutture immutabili, dava garanzia di eternità e permetteva l’istituzione di una respublica litteraria in cui si poteva colloquiare almeno per iscritto sincronicamente e diacronicamente rompendo gli angusti argini del proprio tempo e i ristretti confini della propria nazione; chi ignora quella lingua, dicevamo, è condannato a non conoscere mai le radici profonde del campo qualunque di cui si occupa.
D’altra parte, qualora anche esistessero versioni in lingue moderne della sterminata produzione medio- e neolatina, chi ad essa si avvicinasse attraverso l’ausilio delle traduzioni, mi sembrerebbe simile a chi, non avendo la chiave di uno scrigno che racchiudesse preziosi tesori, si accontentasse di vederne il contenuto in fotografia; così come i fautori, anche a livello ministeriale, dello studio della letteratura latina e greca in traduzione non riescono a non ricordarmi il personaggio di una famosa canzoncina napoletana di Libero Bovio, il quale, non possedendo sufficiente denaro, sosteneva di recarsi ogni giorno nel celebre ristorante di Giuseppone a mare, non per mangiare, ma per sentire l’odore.
«Micromega», numero 5 del 1996

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