10 aprile 2007

Avvertite Biscardi

di Massimo Gramellini
Dall’altro ieri l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. Il tardivo inserimento del precetto nella Carta Costituzionale non si deve alla fiera resistenza opposta dalle brigate per la liberazione dal congiuntivo, particolarmente attive nei programmi televisivi. E neppure a una dimenticanza dei legislatori, più attratti dalle lingue ufficiose: pettegolezzi, spiate e portinerie varie. È mancato a lungo l’accordo politico, tanto che è stato necessario un anticipo di Grande Coalizione - da Fini a Fassino - per superare il veto di Lega e Rifondazione.
Le ragioni leghiste sono riassumibili nella solita paura che la conoscenza del dialetto di Dante comporti la mortificazione di quelli regionali, mentre è noto che gli italiani sono capacissimi di ignorare sia l’uno sia gli altri. Ma è il movente di Bertinotti a lasciare senza parole: non voleva l'italiano nella Costituzione per paura che diventasse una condizione obbligatoria per concedere la cittadinanza. Magari lo fosse. A parte che di colpo ci ritroveremmo alcuni milioni di apolidi fra i nostri connazionali, con indubbi benefici nella ripartizione delle risorse pubbliche. Ma quale migliore prova della volontà di integrazione di un extracomunitario che la conoscenza della lingua del Paese in cui vive? I ghetti si nutrono di incomunicabilità. E i muri si sfondano con i dizionari.
«La Stampa» del 30 marzo 2007

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