11 aprile 2007

Amicizie private e pubbliche virtù

Storia di un sentimento
di Giovanni De Luna
Le complesse vicende di un rapporto da sempre a due facce: personale fra individui ma anche fondamentale per l’intera società. E oggi d’attualità per la fine delle ideologie e dei partiti di massa


I democristiani usavano chiamarsi amici, i comunisti compagni. Non era la stessa cosa: da una parte un legame forte nella sfera religiosa e, in subordine, in quella privata, ma debole in quella pubblica, con un partito (la Dc) frammentato in correnti, aggregazioni clientelari, notabilati territoriali; dall’altra, un legame inesistente nella sfera religiosa, debole in quella privata, granitico in quella pubblica, con un partito (il Pci) monolitico, saldamente fondato sul «centralismo democratico», allergico alle «frazioni» e con il dogma ossessivo dell’unità. Oggi rimane solo il primo dei due termini, mentre «compagno» (e sul versante opposto «camerata») è stato relegato all’ala estrema dello schieramento politico, considerato desueto e arcaico. Sembra tutto scontato: a una politica debole servono termini deboli e «amico» è più debole di «compagno». Ma le cose sono molto più complicate e su quella debolezza oggi c’è molto da discutere. Come diceva Siegfried Kracauer amicizia è «una parola debole per esprimere un sentimento debordante».
A guidarci lungo una appassionata ricognizione della valenza complessiva dell’amicizia sia nella sfera dei sentimenti privati che in quella della militanza politica c’è oggi questo prezioso, mastodontico volume curato da Giovanna Angelini e Marina Tesoro (De amicitia. Scritti dedicati a Arturo Colombo, Franco Angeli, 2007) dedicato a Colombo, un maestro per tutti gli storici della mia generazione. Riattraversandone trasversalmente tutti i saggi si capisce subito che l’amicizia ha una sua irrisolta duplicità: è un rapporto privato e personale tra individui, ma è anche il primo passo degli uomini per la costruzione di una vita sociale consapevole e voluta, tanto che la nella pòlis greca la si considerava intrinsecamente politica, posta su un gradino superiore della stessa giustizia. Di fatto, gli esempi classici dell’amicizia (Eurialo e Niso, Patroclo e Achille, Oreste e Pilade, ma anche ... Marx ed Engels) raramente ci restituiscono un contesto esclusivamente privato e sentimentale. La fedeltà, l’ammirazione reciproca, il rispetto, la rinuncia all’impuntatura d’orgoglio, tutto quello che può essere ricompreso nel termine amicizia nasce comunque dalla condivisione di sentimenti forti, dalla comune frequentazione di una dimensione pubblica, siano i banchi di scuola o i campi di battaglia. Tanto per restare all’Italia, le reti amicali sono state decisive nel Risorgimento. E anche durante il ventennio nell’antifascismo l’essere amici fu la condizione da cui scaturì la scelta comune, prima esistenziale poi politica, di diventare cospiratori.
Da questo punto di vista, l’amicizia non è un archetipo fuori dal tempo e dallo spazio, uno di quei valori assoluti che nella storia si presenta immutabile, sempre uguale a se stesso. Cambia la sua natura e cambia la sua percezione a seconda delle epoche e anche degli ambienti sociali; una cosa è l’amicizia guerriera del medioevo, un’altra quella tra cittadini nell’epoca postrivoluzionaria. E nell’Ottocento borghese sopravvive solo tra gli aristocratici e i popolani: «Immersa nell’ebbrezza dell’accumulazione originaria, la borghesia non riesce a concepire legami svincolati dalla smania di accumulare ricchezze a scapito di qualsiasi altro valore». Una cesura netta si ebbe con la nascita dello Stato moderno, quando la politica riconobbe il suo fondamento nella schmittiana contrapposizione «amico/nemico». Lo Stato nasce sul conflitto, non sulla concordia; si afferma per regolamentare e disciplinare il conflitto indicando chi è il nemico. L’amiciza viene relegata tra i valori della sfera privata, perdendo l’antica dimensione pubblica della philìa.
E oggi che la statualità politica appare in ritirata su tutti i fronti? Sì, sembra proprio che per l’amicizia si apra una nuova stagione, rilanciandone gli aspetti pubblici e quelli più direttamente politici. È un processo ancora confuso. Non tutte le famiglie politiche e i filoni culturali che hanno segnato il Novecento italiano sono attrezzate per affrontare questo passaggio.
Tra i cattolici ci si può giovare delle lucidità visionaria di Jacques Maritain: l’amicizia è il dono di sé, una piena condivisione che non annulla la personalità del soggetto come succede nell’amore ed è il fondamento della società politica in quanto orienta i soggetti-persone al bene comune, a «costruire la buona vita per una moltitudine di persone». Tra i laici, fuori dal gioco le varie eredità del comunismo, l’attenzione pare concentrarsi su quei filoni meno impregnati dall’ossessione statalista e dalla venerazione per il «partito di massa».
In questo senso, appaiono di sorprendente attualità alcune riflessioni di Andrea Caffi, saldamente inserite nella tradizione di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Si trattava allora, nel cuore delle dittature totalitarie novecentesche, di porre dei limiti allo strapotere dello Stato contrapponendogli un principio di organizzazione radicalmente diverso: «Il Cristianesimo fece le sue più stupefacenti conquiste quando era diviso in un gran numero di Chiese autonome, una comunione senza Sinodi e patriarchi, senza una gerarchia episcopale ben definita». Non lo Stato ma la società civile da innervare con iniziative dal basso, spontanee e autonome era l’ambito strategico in cui operare; e Caffi ricordava in questo senso il ruolo dei salotti borghesi, dei circoli libertini e massonici, degli enciclopedisti, nella trasformazioni avviate nel XVIII secolo. Oggi che i partiti politici novecenteschi si sono compiutamente trasformati in aggregati di detentori di cariche pubbliche gli spazi per iniziative decentrate di questo tipo si sono decisamente ampliati ed è anche possibile che in questo scenario la philìa riacquisti il senso politicamente forte che aveva nella pòlis.
Quanto alla connotazione privata dell’amicizia, c’è da fare ancora una distinzione in chiave generazionale. Da vecchi l’amicizia si fa più consapevole: si è più indulgenti con se stessi e si è più indulgenti con gli amici. E nell’amicizia ci si esercita alla tolleranza verso i difetti degli altri, spezzando il circuito perverso dell’egoismo e dell’insofferenza.
«La Stampa» dell’11 aprile 2007

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