20 marzo 2007

Una cura per l'Onu malata

Lo storico inglese Kennedy al capezzale delle Nazioni Unite:l’architettura del ’45 è inadeguata alle nuove sfide della «governance» planetaria
di Edoardo Castagna
Assurdo che oggi la Francia conti ancora più di India e Brasile insieme e che ci siano diritti di veto paralizzanti. Occorre riformare, ma anziché grandi (eutopistici) piani meglio piccoli passi
Il malato è grave, ma curabile. L'Onu così com'è non funziona - e forse porta più danno che guadagno -, ma non è ancora il momento di rottamarlo: spazi per una sua riforma, o meglio per una serie di riforme, ce ne sono ancora. Diagnosi e prognosi sono di Paul Kennedy, lo storico inglese che nel suo Il parlamento dell'uomo passa in rassegna, attraverso una serie di casi esemplari, l'attività delle Nazioni Unite dal 1945 a oggi. Sotto la sua lente soprattutto le operazioni di pace condotte negli ultimi quindici anni; dai loro ripetuti fallimenti, parziali o totali, Kennedy cerca di trarre qualche indicazione sui punti di forza già esistenti e sulle possibili innovazioni da innestare sul malandato tronco dell'Onu. Alla fine quella che distilla non è «la» medicina, l'idea risolutiva che trasformerà il pachiderma del Palazzo di vetro nel grande attore del governo mondiale del XXI secolo, ma piuttosto un piano di cura composito e fatto di piccoli passi, apparentemente poco incisivi - e perciò spesso già rigettati da quanti auspicano un radicale rinnovamento dell'Onu - ma gli unici verosimilmente percorribili, nelle condizioni attuali. La cosa da fare subito, per Kennedy, è chiarirsi le idee su quali siano le ragioni che dovrebbero costringere l'Onu a riformarsi. La prima osservazione è quasi banale, ma non per questo è stata finora capace di far breccia al Palazzo di vetro: oggi gli equilibri di potere non sono più quelli del 1945. Il diritto di veto concesso ai cinque vincitori della Seconda guerra mondiale - Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia - nel 2007 non solo è anacronistico, non solo perpetua l'umiliazione degli sconfitti e delle ex colonie, ma paralizza l'Onu. La piccola Francia conta più di India e Brasile messi insieme, per non parlare della condizione da mezzi paria che ancora relega in secondo piano l'ex Asse di ferro (Italia, Germania, Giappone). Storicamente, l'escamotage dei diritti particolari per le grandi pot enze ha avuto un senso - impedire loro di sfilarsi o paralizzare il sistema internazionale, come accaduto negli anni Trenta -, ma escludere dalla stanza dei bottoni tanti Paesi che pesano davvero, oggi, condanna all'irrilevanza le Nazioni Unite. L'impasse è evidente a tutti e i progetti di riforma non mancano; anzi, ce ne sono troppi, frutto di ambizioni incompatibili le une con le altre e che finiscono, di fatto, per annullarsi a vicenda. C'è chi punta il dito sugli sprechi e le inefficienze della miriade di agenzie che fanno capo all'Onu, e vorrebbe sforbiciare costi e dipendenti; chi invece progetta una riscrittura da capo a piedi della Carta delle Nazioni Unite - processo che richiede un'improbabile convergenza dei due terzi dell'Assemblea generale e, naturalmente, dei Paesi con diritto di veto. Anche in settori più ristretti, come la riforma del Consiglio di sicurezza, si va dagli immobilisti assoluti che vorrebbero che nulla mutasse, alla bagarre di quanti reclamano per sé un posto al sole. Impedendo, di fatto, ogni passo avanti: la Cina non vuole concedere né il diritto di veto né un seggio permanente al Giappone, Francia e Gran Bretagna non abdicherebbero volentieri a un seggio dell'Unione europea, l'Italia si oppone alla Germania, il Pakistan all'India, l'Argentina al Brasile, la Nigeria al Sudafrica, tutti i "piccoli" a tutti i "grandi"... Lo storico inglese propone allora di tenere una via media, fatta di «una serie di cambiamenti incrementali e pratici, proposte che siano del tutto ragionevoli e non costituiscano una minaccia per nessun governo». Per coordinare il tutto e dettare la linea, Kennedy suggerisce di tenere ben presenti le effettive esigenze del mondo di oggi. Le sfide, ineludibili, che si trova davanti ogni progetto di governance mondiale si chiamano riscaldamento globale, industrializzazione selvaggia dell'Asia, terrorismo internazionale: questioni nemmeno ipotizzabili nel 1945, davanti alle quali gli strumenti approntati allora risultano inservibili. L'Onu nacque ancorato agli Stati-nazione, eppure oggi «deve trovare il modo - scrive Kennedy - di gestire gli Stati in dissoluzione. Come hanno dimostrato gli eventi accaduti in Bosnia, in Africa occidentale, in Somalia, in Afganistan e in molte altre regioni del mondo, non è un compito facile». Il Consiglio di sicurezza potrebbe essere non stravolto, ma soltanto ampliato un po', conservando il principio della rotazione, magari prorogando i termini del mandato. Sul decisivo fronte del peacekeeping, e in attesa delle sempre auspicate forze armate internazionali, utili potrebbero essere le più semplici creazioni di una centrale di intelligence Onu e di un coordinamento dei vari interventi nelle aree di crisi. Facendo attenzione, soprattutto, al «servizio post operatorio», al sostegno delle società civili anche dopo la rimozione dei «cattivi» e l'interruzione degli scontri armati. È proprio quanto è mancato fin qui, da Haiti a Timor Est e, potenzialmente, anche in Afganistan e in Iraq. «Perciò - conclude Kennedy - le pur dolorose esperienze degli ultimi quindici anni ci insegnano a diffidare dell'uniformità. Suggeriscono piuttosto un approccio variegato».

Paul Kennedy, Il parlamento dell'uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Garzanti. Pp. 444; € 25,00

«Avvenire» del 17 marzo 2007

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