10 marzo 2007

L’evoluzione spiega anche la nascita del sacro

Gli equivoci del confronto tra darwinismo e Disegno intelligente
di Sandro Modeo
La discussione in corso sul «Corriere della Sera», circa il rapporto tra teoria evoluzionistica e «senso del divino», sembra scandita dal basso continuo di un paio di equivoci. Il primo - che Mauro Ceruti definisce «punto fermo» - consiste nella necessaria compatibilità e coesistenza tra i due termini in oggetto, come se la teoria darwiniana non potesse essere trattata autonomamente rispetto a più ampie spiegazioni metafisico-trascendenti. È una posizione «equilibrata» e «sfumata», perfettamente giustificabile in un’ottica di generica cautela filosofica, di delicatezza pedagogica o di opportunità politica. Ma che rischia di adulterare un confronto rigoroso. Da un lato, infatti, l’evoluzione è in grado di spiegare la «creazione del sacro» (per citare il classico libro di Burkert) come un’elaborata risposta adattativa al dolore fisico e psichico, al nonsenso e alla finitezza dell’esperienza umana. Dai culti e dai rituali sciamanici alla preghiera interiore dell’individuo urbanizzato e alienato, la religione svolgerebbe soprattutto una funzione (auto)terapeutica basata sull’attivazione di specifici circuiti neurofisiologici, selezionati e rafforzati in rapporto alla loro efficacia. La stessa teoria evoluzionistica, quindi, troverebbe una paradossale convalida proprio nella «visione del mondo» che vorrebbe negarla. Dall’altro lato, una prospettiva religiosa fondata sul dogma (cioè su una rivelazione testuale) non avrebbe alcun bisogno della teoria darwiniana, nel senso che potrebbe inglobarla in quanto «interna» a una spiegazione più estesa (è stata la posizione di Giovanni Paolo II) o ignorarla completamente senza doverla falsificare. Insomma, nulla vieta - anzi! - che il più riduzionista degli scienziati si commuova ascoltando le Passioni di Bach o che il cattolico più intransigente legga con meraviglia un trattato di neurobiologia. Si tratta, però, di evitare mescolanze indebite di categorie concettuali, che possono portare ai più improbabili freaks cognitivi. Il secondo equivoco riguarda la cesura netta tra evoluzione biologica e culturale, tra i processi opachi della materia e le complessità della psicologia umana. In realtà negli ultimi decenni - in perfetta coerenza con la teoria evoluzionistica - diverse discipline hanno cominciato a ricondurre (non a ridurre) molte «funzioni superiori» della mente alle loro basi biologiche e neurofisiologiche, senza mai astrarle dalle influenze ambientali e dai percorsi dell’esperienza individuale: le neuroscienze hanno mostrato come la memoria, la coscienza e il linguaggio altro non siano che acquisizioni adattative scremate da processi selettivi; l’immunologia ha evidenziato nella discriminazione tra self (i costituenti molecolari propri) e not self (e quelli esterni, quali virus e batteri) l’antefatto evolutivo della distinzione tra Io e mondo operata dal sistema nervoso; e la genetica e l’etologia hanno individuato le basi biologiche non solo dell’egoismo ma anche dell’altruismo e della cooperazione, così da delegittimare ogni posizione ideologica sulla «natura umana». Dunque, ha perfettamente ragione Claudio Magris quando scrive che per noi - diversamente che per l’universo - l’estinzione dei dinosauri e la Shoah non possono essere fenomeni comparabili. Ma questo non comporta necessariamente la rinuncia a una prospettiva di lettura materialistico-naturalistica. Conoscere i vincoli operativi della biologia sulla nostra libertà non significa affatto autolimitarsi: significa, al contrario, conoscere fino in fondo le nostre possibilità. E, di conseguenza, le nostre responsabilità.
«Corriere della sera» del 5 marzo 2007

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