21 marzo 2007

La sfida: perché noi intellettuali dobbiamo alimentare il sogno turco in Europa

Per il multiculturalismo e l’impegno, contro l’esportazione della democrazia: un intervento della scrittrice di Istanbul
di Elif Shafak
Il funerale di Hrant Dink, il direttore di un giornale armeno ucciso a Istanbul il 19 gennaio, è stata un’esperienza toccante per centinaia di migliaia di persone in Turchia. Persino chi non lo conosceva personalmente ha pianto per lui, sforzandosi di mettersi nei panni dell’«Altro». In un certo senso, il funerale è stato una catarsi che ha riunito gente di tutte le estrazioni sociali, ideologiche ed etniche, e ha dimostrato che sappiamo partecipare a questo lutto. E se sappiamo condividere un lutto, sappiamo anche vivere insieme. E vivendo insieme, questo significa che possiamo nutrire aspirazioni e speranze comuni. In un’intervista, mi era capitato di dire: «La storia turca è un ottimo soggetto di indagine perché in passato eravamo un impero multietnico e poi, allo scopo di creare una nazione stato di stampo monolitico, miriadi di minoranze sono state emarginate e le loro voci soffocate. Fa parte del mio mestiere di scrittore riportare in vita queste voci». E oggi? Ecco, Cheslaw Milosz ha fatto notare fino a che punto gli scrittori polacchi contemporanei sono stati plasmati dalla loro storia e costretti a prendere una posizione politica, talvolta persino contro la loro stessa volontà. L’esperienza turca è molto simile, e addirittura assai più complessa. Gli scrittori nel nostro paese sono sempre qualcosa di più di «scrittori»: sono innanzitutto figure pubbliche. Politica e letteratura sono strettamente intrecciate. Questo coinvolgimento spinge gli scrittori a confrontarsi con una sfumatura che comporta profonde implicazioni: la distinzione tra «romanziere» e «intellettuale». Non tutti gli scrittori sono intellettuali. Non tutti gli scrittori devono per forza essere intellettuali. Così stanno le cose solitamente in Occidente. Ma in Turchia il mondo letterario è talmente politicizzato e radicalizzato che finiamo col discutere di politica invece che di arte. Gli scrittori hanno davanti una nuova sfida: o si ritirano, ben al sicuro, sotto la campana di vetro della loro immaginazione, e lì producono le loro opere, oppure si allenano per assumere il ruolo pubblico degli intellettuali. La situazione generale li spinge in quest’ultima direzione. Uno scrittore che voglia vivere una vita da eremita e dedicarsi esclusivamente a scrivere i suoi romanzi non può misurarsi con questa sfida. Il bastardo di Istanbul, la mia ultima opera (e la seconda scritta in inglese), affronta apertamente la questione della memoria e dell’amnesia. Siamo i nipoti di un impero multietnico, multilingue e multireligioso. L’Impero ottomano era affascinante per molti versi, e mi rattrista constatare come le giovani generazioni turche sappiano poco o nulla di questo passato così ingombrante, è vero, ma così carico di ricchezze. Ora la Turchia è una protagonista della scena mediatica occidentale: dalle sue ambizioni di entrare nell’Ue al premio Nobel per la letteratura dato a Orhan Pamuk... La Turchia non è una realtà monocromatica. Vi coesistono e si scontrano forze e voci contrapposte. Qualsiasi osservatore esterno dovrebbe innanzitutto prendere coscienza della natura multistrato della nostra società. La tendenza occidentale, invece, punta nella direzione inversa. Vedo spesso in Occidente una percezione superficiale della Turchia, che tende ad appiattire la sua complessa diversità. Io condanno la xenofobia e l’ultranazionalismo che affliggono il mio Paese e critico anche quel retaggio patriarcale dominante che non è disposto ad aprirsi all’Altro, che non accoglie il pluralismo, la diversità e la piena uguaglianza tra i sessi. Allo stesso tempo condanno la persistente islamofobia e turcofobia che esiste in Occidente, perché anche essa è oppressiva. Io sono una convinta sostenitrice dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, perché credo che sarà a tutto vantaggio non solo della Turchia, ma anche dell’Europa. Con i suoi milioni di cittadini musulmani che oggi vivono nel cuore dell’Europa, il vecchio continente deve affrontare la questione delle culture ibride, nelle quali islam e cultura occidentale possono coesistere. È un obiettivo importante per l’Europa. In quanto alla Turchia, essa occupa una posizione unica. È vero che il paese deve fare ancora molti passi avanti sulla strada delle riforme, ma deve essere incoraggiato in quella direzione, e non scoraggiato. Dopo l’11 settembre viviamo in un mondo sempre più radicalizzato, e in tanti si vanno convincendo che l’islam e la democrazia occidentale non potranno mai coesistere. E’ora di dimostrare che hanno torto. Esiste la xenofobia in Turchia, certo, ma esiste anche in Europa e si alimentano a vicenda. E ogni radicalismo genera nuovi radicalismi altrove. La Turchia stressa, snerva e invecchia i suoi scrittori e intellettuali molto in fretta. Eppure, allo stesso tempo, è una fonte inesauribile di stimoli e ispirazione. E’difficile spiegarlo, ma Istanbul è una città che ti sorprende per le sue contraddizioni e che ti fa innamorare. Il poeta Kavafis aveva ragione: la città ti segue ovunque vai.
«Corriere della sera» del 14 marzo 2007

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