01 marzo 2007

Imam d'Europa, laureati all'estero

I leader religiosi si formano nei Paesi d’origine dell’immigrazione o nelle grandi centrali arabe E le comunità ricevono messaggi che non «parlano» occidentale
Di Giorgio Paolucci
Molti giovani vanno a studiare al Cairo o a Gedda E anche i luoghi di studio nel Vecchio continente sono «eterodiretti». Così non si favorisce l’integrazione
L'islam cresce in Europa: 15 milioni di fedeli solo nello spazio della Ue, destinati ad aumentare per il combinato disposto di nuove migrazioni (per lavoro o per ricongiungimento familiare) e di un tasso di natalità decisamente superiore alle medie continentali. Ma chi sono gli imam delle comunità musulmane? Da chi sono formate le leadership religiose e intellettuali? Da dove vengono, quale preparazione culturale e teologica hanno? E che tipo di messaggi i predicatori lanciano ai fedeli che li ascoltano durante la qutba - la predica che accompagna la preghiera del venerdì in moschea - o che vanno a chiedere consigli sui mille interrogativi legati alla vita quotidiana in terra d'emigrazione o nel Paese di residenza definitiva? Le risposte a queste domande sono determinanti per comprendere quale tipo di islam si va configurando nel continente e quale sguardo ha e avrà sulle società in cui ha messo radici.
La stragrande maggioranza degli imam non si è formata in Europa ma nei Paesi di origine delle correnti migratorie, oppure nelle centrali dell'islam mondiale, come l'università di al-Ahzar al Cairo, principale punto di riferimento dei sunniti, le università saudite di Gedda e Medina, le scuole di formazione pakistane. È lì che sono andati a studiare anche molti giovani - spesso appartenenti alla seconda o alla terza generazione dell'immigrazione - partiti dall'Europa per compiere itinerari di formazione islamica, spesso foraggiati da borse di studio elargite dall'Arabia Saudita, da altri Paesi del Golfo o da organizzazioni islamiche internazionali.
«Gli attuali leader dell'islam d'Europa continuano ad affluire dall'esterno o comunque possiedono una formazione esogena - spiega il professor Felice Dassetto, docente di sociologia e direttore del Centro studi dell'islam nel mondo contemporaneo (Cismoc) all'università di Lovanio -. Questo accade anche a causa della carenza di validi luoghi continente. Non si è ancora formata un a classe dirigente competente in materia religiosa e che ragioni secondo categorie europee, che parli correntemente la lingua del Paese in cui vive, che promuova un modo di vivere i precetti della fede musulmana compatibile con la cultura occidentale». È evidente che tutto ciò alimenta sentimenti di estraneità, talvolta di ostilità, spesso di impermeabilità rispetto alle società nelle quali gli (ex) immigrati hanno messo radici.
Certo, non mancano esempi di segno contrario, che lavorano in direzione di un'integrazione che salvaguardi gli elementi essenziali dell'identità religiosa e culturale armonizzandoli con leggi e consuetudini degli Stati occidentali. Ma la realtà prevalente - anche in Italia, come vedremo nella seconda puntata di questa inchiesta - parla un altro linguaggio, non europeo.
Tra pochi giorni in Belgio parte una formula innovativa nel campo della formazione: si chiama «Programma in scienze religiose: islam» ed è la prima esperienza di insegnamento superiore islamico inserito a pieno titolo in un corso universitario. Anche in altri Stati del continente sono nate in questi anni iniziative in campo formativo, per la maggior parte di carattere privato, non riconosciute, slegate dal mondo accademico e finanziate da organizzazioni islamiche internazionali. Con il rischio, perciò, di quella «eterodirezione» che certamente non aiuta la crescita di una classe dirigente autonoma e sensibile alle categorie occidentali.
In Francia, dove vivono più di 4 milioni di seguaci di Maometto, è molto forte l'influenza dei Fratelli musulmani e dei Paesi del Golfo che hanno dato vita ad alcune esperienze formative. In Olanda sono presenti varie iniziative: l'Università islamica di Rotterdam che fa riferimento al movimento tradizionalista turco dei Nurgiu, un centro chiamato «Università al-Hurra» («libertà»), promosso da esuli iracheni e curdi. E dopo lo choc provocato dall'omicidio del regista Van Gogh, la libera università di Amsterdam (protestante) e l'università d i Leiden hanno varato progetti di formazione islamica.
In Germania si moltiplicano le iniziative promosse dalla comunità turca, spesso con finanziamenti del governo di Ankara che vuole mantenere uno stretto controllo sui suoi emigrati (1 milione 700mila). All'interno dei centri culturali islamici operano anche scuole per la formazione degli imam che però non vengono riconosciute dalle autorità tedesche. Le quali, anche in occasione della recente Islamkonferenz alla quale hanno partecipato i rappresentanti delle comunità musulmane, hanno ribadito la volontà di «aprire» all'insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche a condizione che la formazione di docenti e imam si svolga in Germania secondo modalità concordate e trasparenti. E nella stessa prospettiva si muove la richiesta che vengano pronunciate in tedesco i sermoni del venerdì nelle sempre più numerose moschee: alle 159 già esistenti se ne aggiungeranno 128 già in costruzione, ma i luoghi di preghiera sono in tutto 2500.
È all'insegna del pragmatismo la situazione in Gran Bretagna. Molte le iniziative private promosse dalle organizzazioni islamiche, con possibilità di stabilire accordi con alcune università. Le più importanti sono il Muslim College di Londra, l'Islamic College for Advanced Studies, che ha ricevuto un certo riconoscimento dall'università del Middlesex a Londra, e la Islamic Foundation di Leicester, di origine pakistana e collegata al terminale britannico degli onnipresenti Fratelli musulmani. Ma anche qui, come in altri Paesi europei, sono all'opera predicatori formati nelle madrasse pakistane o nei «pensatoi» del Golfo, dove dominano le correnti wahhabite e radicali che vedono l'Occidente come il fumo negli occhi. In definitiva, manca un contributo adeguato all'elaborazione di un pensiero all'altezza delle sfide con cui si deve confrontare l'islam che sta in Europa, ma che non è ancora islam europeo.
«Avvenire» del 28 febbraio 2007

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