21 marzo 2007

Pechino approva la riforma: via libera alla proprietà privata Ma gli irriducibili votano no

Il Parlamento vara un provvedimento frutto di molti compromessi
di Fabio Cavalera
Delusi anche i riformatori: «È un pasticcio»
La Cina ha una legge che riconosce e disciplina la proprietà privata. L’ha approvata l’Assemblea nazionale, il Parlamento che si riunisce una volta all’anno, con un voto plebiscitario ma non unanime: 2.799 a favore, 52 contrari e un manipolo di astenuti, una trentina. Si è così apertamente espresso un dissenso di sinistra che aldilà della scarsa consistenza apparente indica un turbamento profondo nel Partito comunista. L’area dell’opposizione - molto più ampia di ciò che prefigura il pronunciamento esplicito avvenuto ieri - ha lanciato un segnale politico. La legge è la fotografia delle contraddizioni cinesi: la bozza ha subito nel tempo e anche negli ultimi giorni non pochi emendamenti che lasciano ampi spazi di interpretazione, di equivoci e di discrezionalità. Proprietà statale, proprietà collettiva e proprietà privata sono tutelate ma in un quadro di difficilissima comprensione. Le norme rischiano di non accontentare le forze più innovative del sistema cinese e certamente non piacciono alle correnti marxiste. Si tratta di un compromesso, non di una rivoluzione. Il voto a stragrande maggioranza espresso dall’Assemblea del popolo (al pari di quello che unifica la tassazione al 25 per cento per le imprese cinesi e le imprese straniere) dice comunque che la Cina sta superando la contrapposizione tradizionale fra l’area del conservatorismo comunista e l’area del post-maoismo. È in corso un rimescolamento di carte con una frantumazione di posizioni e con la ricerca di equilibri di governo e di potere diversi. Si affacciano analisi che non sono più contenibili nei vecchi schemi: il voto che ha espresso un piccolo gruppo di delegati - solo superficialmente etichettabili come eredi della ortodossia - toglie il velo della segretezza ai disagi che accomunano i riformisti e la neosinistra sociale, preoccupati da ritmi di crescita economica fuori controllo, da instabilità nelle campagne e da pesanti ed estesi fenomeni di corruzione. I giochi si concluderanno in autunno quando il Partito comunista cinese si ritroverà a congresso e sceglierà il suo nuovo gruppo dirigente. Che vi sia un dibattito forte sulle prospettive e sulle linee da seguire lo si ricava - oltre che dalla approvazione non unanime delle due leggi in discussione - pure dalle parole di Wen Jiabao. Il premier, a conclusione dei lavori dell’Assemblea, ha voluto mettere in guardia dai pericoli reali che si leggono nell’immediato futuro del Dragone. È la prima volta che ciò avviene per bocca di un leader. Una critica severa. «I principali problemi che abbiamo sono gli squilibri nella struttura e uno sviluppo instabile, non coordinato e insostenibile». Il settore del credito marcia troppo velocemente, la liquidità è eccessiva, il saldo commerciale sbilanciato. Una economia da correggere e frenare perché non offre garanzie di tutela per le fasce di popolazione rurale meno abbienti. «Il potere è concentrato e non può essere controllato e supervisionato». Sia pure severo nei confronti del Dalai Lama (persegue ancora «obiettivi secessionisti») Wen Jiabao ha fatto qualche apertura sul fronte delle libertà: «Democrazia, legge, uguaglianza e diritti umani non appartengono esclusivamente al capitalismo». Sulla proprietà privata neppure un commento. Segno che il dibattito non è stato chiuso.
«Corriere della sera» del 17 marzo 2007

E il caso Montesi fece nascere il centrosinistra

Un saggio sulla sinistra dal 1848 alla sconfitta del Fronte popolare dell’ex direttore dell’«Avanti !»
di Aldo Cazzullo
Antonio Ghirelli: «Fanfani ci passava informazioni per screditare Piccioni»
L’ultimo libro di Antonio Ghirelli - 85 anni, uno dei padri del giornalismo sportivo italiano, portavoce di Pertini e di Craxi, direttore del Tg2 e dell’Avanti! - finisce là dove comincia la sua storia. Aspettando la rivoluzione, appena pubblicato da Mondadori, ricostruisce con ricchezza di aneddoti e lucidità di analisi un secolo di vicende della sinistra italiana, dalla fiammata del 1848 alla sconfitta del Fronte popolare. Storia di anarchici, socialisti, comunisti, che però condensa in un agile capitolo finale le vicende a noi più vicine, di cui l’autore è stato testimone diretto. Un racconto da approfondire. Ghirelli abita a Roma sulla Flaminia, con la moglie sposata più di sessant’anni fa, la foto con Eduardo, la macchina da scrivere con cui scrive i suoi libri. «Dopo la liberazione del Sud mi sono unito alle truppe che risalivano la penisola. Ero stato assunto da quel che restava dell’Eiar, facevamo una radio che prendeva il nome dell’ultima città dov’eravamo arrivati: radio Bari, radio Napoli. I miei amici Patroni Griffi e La Capria si fermarono a Roma, io e Tommaso Giglio proseguimmo con la Quinta Armata. Sei mesi bloccati ad Altopascio. Caduta la linea gotica, a Bologna assunsi un giovane partigiano di Giustizia e Libertà, Enzo Biagi: insieme abbiamo annunciato che la guerra era finita». Il futuro uomo di fiducia dei leader socialisti allora era comunista. «E lo sono stato fino al ‘56. Una grande scuola, anche di giornalismo. All’Unità mi assunse Pajetta. Poi Milano Sera, con Gaetano Afeltra, il Toscanini della tipografia. Alcune delle migliori corrispondenze del giornalismo italiano, compresi passi del grande Montanelli dall’Ungheria, sono state scritte da lui, dopo che aveva parlato con gli inviati al telefono. Il miglior pezzo della mia vita, in morte di Coppi, me lo dettò Afeltra. Ho lavorato anche a Torino, in un’atmosfera straordinaria scandita dalla presenza o dalla memoria dei grandi ebrei piemontesi - Ginzburg, i due Levi, Foa, Terracini -. E poi a Roma, a Paese Sera». «Ero togliattiano, e lo rivendico. Togliatti fece brutte cose al servizio di Stalin ma fu politico di statura internazionale. La sua apertura ai giovani ex fascisti fu una mossa lungimirante: il giornale di Bilenchi a Firenze è stata una delle spine nel fianco della Dc nella campagna della legge truffa. Togliatti era anche un ottimo editore, curava molto l’impaginazione e la titolazione, ci insegnava a mimetizzare la politica nella cronaca. E sapeva scegliere i direttori: a Paese Sera, Tommaso Smith, Fausto Cohen. Eravamo spregiudicati. Montammo una campagna durissima contro il povero Attilio Piccioni sullo scandalo Montesi, in cui il figlio non c’entrava nulla; ma noi ricevevamo informazioni riservate dal ministro degli Interni, che era poi il rivale di Piccioni nella successione a De Gasperi, Amintore Fanfani, di cui condividevamo il disegno del centrosinistra. Dal Pci me ne sono andato più per il rapporto Krusciov che per l’Ungheria. Si riunì la cellula guidata da Michele Salerno, detto il Lenin di Brooklyn perché era cresciuto a New York, e mi annunciarono l’espulsione per indegnità politica e morale. "Politica passi, ma morale no; se lo fate vi querelo tutti", risposi. Amerigo Terenzi allora mi chiese di restare. Ma ormai era finita». Di Pertini, Ghirelli conserva un ricordo straordinario, anche dopo la cacciata dal Colle. «Un uomo irripetibile. Uno che dopo la liberazione di Roma aveva rifiutato il ministero dell’Interno che Nenni gli offriva per andare al Nord a combattere: "No grazie Pietro, mi sono allenato a gettarmi con il paracadute, ho un amico della Raf che mi porterà oltre le linee". Tornò solo dopo la morte di Mussolini». Come finì il suo lavoro di portavoce? «Era il 1980, eravamo a Barcellona da Juan Carlos, l’unico Borbone buono dai tempi di Carlo III. Al mattino scoppia a Roma il caso Cossiga, accusato di aver avvertito Donat-Cattin dell’arresto imminente del figlio. Pertini mi telefona: «"Ghirelli si prepari, i compagni socialisti catalani invitano me e lei a Barceloneta, pesce e vino, sarà una colazione strepitosa!". "Va bene presidente, ma Cossiga?". "È una vergogna! Si deve dimettere!". Al che scrivo due righe e le lascio a un funzionario: "Se i giornalisti ti chiedono qualcosa, tu rispondi solo che, se fosse vero, sarebbe molto grave". Quello invece convoca i giornalisti e legge l’appunto come se fosse un comunicato del presidente. A Roma accade di tutto. Pertini mi fa ascoltare la telefonata del segretario della Dc Piccoli, che chiede la testa del responsabile, pena la richiesta di impeachment. "Licenziamo questo funzionario!". "Presidente, non si può: ha moglie e quattro figli. E poi la responsabilità è mia". "Allora licenzio lei!". Tornai da Barcellona con un volo Alitalia a mie spese. Ma quando, alla fine del settennato, andai a trovarlo a Palazzo Giustiniani, Pertini mi sorrise: "Abbiamo fatto un bel lavoro, lei e io, al Quirinale"». I rapporti tra il presidente e i compagni socialisti non erano facili. «Tentai invano di indurlo a nominare senatore a vita uno dei nostri grandi vecchi. Lombardi non andava bene, perché, diceva Pertini, "semel abbas semper abbas: da ragazzo era dell’Azione cattolica". De Martino neppure, perché "quand’ero in carcere giurava fedeltà al Duce". Nenni neppure, perché "con quella bocca a culo di gallina mi ha lasciato 14 anni fuori dalla direzione". Quanto a Saragat (forse l’unico dei politici italiani ad avere davvero letto Marx in tedesco), amava dire che "Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la tv"». Neppure con Craxi si amavano. «Per motivi caratteriali e anche politici. Bettino era diretto, spiccio, per nulla ossequioso; quando Pertini gli diede l’incarico si presentò al Quirinale in jeans, e il presidente infuriato lo mandò a cambiarsi: "Cosa vuole questo Craxi, non sa che io l’ho tenuto sulle ginocchia in casa del suo babbo?". E poi l’anticomunismo di Craxi disturbava Sandro, cui era rimasta un po’di nostalgia per il Fronte popolare. Era molto influenzato da Scalfari, si sentivano spesso al telefono, e questo ovviamente non giovava ai rapporti con Craxi: ricordo la furia di Pertini per lo scandalo Teardo. E poi adorava Berlinguer, che invece Craxi detestava. Quando il segretario del Pci morì, Pertini lo riportò a Roma sull’aereo presidenziale: un gesto che ai socialisti è costato 300 mila voti alle elezioni successive». Il rapporto con Craxi comincia dal dentista. «Quasi non lo conoscevo. Avevo scritto un libro su di lui ma si era limitato a rispondere alle mie domande per iscritto. Appena diventato presidente del Consiglio mi rintracciò durante un’otturazione: "Verresti a darmi una mano a Palazzo Chigi?". Pensai a uno scherzo». Anche di Craxi, Ghirelli conserva «un ricordo splendido. Posso testimoniare il suo assoluto interesse personale per il denaro, che gli serviva per fare politica. Soares e Gonzalez gli erano devoti perché li aveva finanziati quand’erano in clandestinità, così come Arafat; e ricordo quando in Argentina i sindacalisti di tutto il Sud America lo accolsero con un’ovazione, per ringraziarlo dei "dieci anni di aiuti". Una volta si presentò in via del Corso, Jiri Pelikan, Craxi chiese a Balzamo: "Quanto abbiamo in cassa? Quaranta milioni? Jiri, ti bastano?". Lui era così, generoso ma burbero. Si poteva adattare a Bettino un detto di Talleyrand: "Un così grand’uomo, così maleducato". Amava le donne, la tavola, dava del tu a tutti. Quando poi divenni direttore del Tg2, non fu mai invadente». Non ne aveva bisogno. «Be’, la nota politica la faceva Onofrio Pirrotta, che aveva sposato la segretaria di Bettino. Bravo giornalista, però. E quando affidai a Giuliano Ferrara la prima rubrica di commento politico, lo feci contro il parere di Craxi che mi ripeteva: "È troppo grasso"».

Il libro: Antonio Ghirelli, «Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana», Mondadori, pp.256, 18
«Corriere della sera» del 17 marzo 2007

Il rispetto della privacy vale per i politici ma anche per le veline

Una maggiore discrezione da parte dei giornalisti non guasterebbe. Verso tutti, però.
Di Piero Ostellino
Un giornale pubblica la notizia che il portavoce del governo, Silvio Sircana, sarebbe finito nell’inchiesta della Procura di Potenza sullo scandalo delle fotografie di persone più o meno celebri usate a scopo di ricatto. Alcune fotografie lo ritrarrebbero in compagnia, diciamo, inconsueta, ma solo apparentemente compromettente. In ogni caso, si tratterebbe pur sempre di un comportamento del tutto privato. Così, c’è chi, giustamente, disinnesca ogni tentazione di speculazione politica, definendola una «notizia inutile». Concordo. La vicenda nulla aggiunge e nulla toglie al lavoro del portavoce di Prodi. Non conosco personalmente Silvio Sircana. Non ho, perciò, ragione alcuna per nutrire nei suoi confronti un qualche sentimento di simpatia o di ostilità. Tanto meno, ho interesse ad avere con lui un rapporto professionale. Ma gli voglio ugualmente manifestare solidarietà, augurandogli di superare questo difficile momento nel modo che egli stesso riterrà più opportuno e, spero, senza conseguenze per il suo futuro. Contemporaneamente, però, il mondo politico - che sarebbe vittima di pedinamenti e foto a scopo di ricatto - insorge contro il giornale che ha pubblicato la notizia. Non avrebbe dovuto. Qui, non concordo più. Trovo l’alzata di scudi ipocrita, corporativa, frutto di una concezione elitaria del proprio ruolo e dei propri rapporti con il sistema informativo in una società democratica. Una notizia è una notizia, chiunque riguardi. Non vedo che differenza ci sia fra la notizia che un uomo politico è stato oggetto di attenzione da parte di una banda di ricattatori; quella che un altro politico ha pagato il riscatto delle foto di sua figlia un pò scarmigliata all’uscita di un locale notturno; quella di tante ragazze che circolano negli ambienti dello spettacolo e della moda fotografate per le stesse ragioni. Se si pubblicano le une, non capisco perché mai non si dovrebbe pubblicare l’altra. Vengo, allora, al ruolo dell’informazione. Non ritengo sia stata propriamente una manifestazione di civiltà dell’informazione aver gettato in pasto agli appetiti di un pubblico pruriginoso le vicende di ragazze che, da che mondo è mondo, sapevano di essere sedute sulla propria fortuna e ne avevano approfittato per uscire dall’anonimato. Ciascuno è libero di fare della propria vita ciò che meglio crede a condizione di non danneggiare il suo prossimo. C’è chi, a sua volta, ama leggere un certo genere di notizie. Ed è, infine, comprensibile, anche se non giustificabile, che il sistema informativo ne approfitti per vendere qualche copia in più di un giornale. Ma siamo ancora sul terreno del giudizio morale o, se si preferisce, del buon gusto. Che sarebbe, perciò, sbagliato pretendere di disciplinare legislativamente e tradurre in una qualche forma di censura. Da perseguire è, invece, chi specula sulla difesa della privatezza - da parte di personaggi pubblici esposti, a ragione dei propri stili di vita, al pericolo della gogna mediatica e della riprovazione popolare - per farne un’occasione di ricatto. I giornali popolari delle grandi democrazie anglosassoni sono pieni di notizie scandalistiche. Solo nei Paesi autoritari o totalitari non se ne parla. E non è necessariamente un bene. Una maggiore discrezione e un pò più di rispetto da parte del sistema informativo per vicende che riguardano la vita privata e, perché no, il libero arbitrio di chi è sulla ribalta della cronaca non guasterebbero. Senza distinzioni, però. Neppure per il mondo della politica.
«Corriere della sera» del 17 marzo 2007

Tutti i «buchi neri» dell’Europa cancellata

Un programma dell’Università di Pisa per scoprire le radici del Continente
di Marco Gasperetti
Dall’Estonia all’Irlanda, si riscrivono le storie dei popoli dimenticati
C’è una storia oscura dell’Europa, nascosta ai libri di testo. Nasce e muore come un fiume carsico attraversando gli Appennini, sfiorando le Alpi, accarezzando i fiordi. È la storia delle varie entità europee, di stati sovrani oggi uniti sotto una stessa bandiera e una stessa moneta, eppure culturalmente distanti nonostante i ciclopici passi compiuti. Può accadere, così, che cittadini di Eurolandia ignorino capitoli essenziali della storia comune oppure interpretino in modo opposto e contraddittorio personaggi e fatti. Qualche esempio. La grande carestia, la «potato famine», una delle vicende centrali nella storia irlandese: morirono milioni di persone, altre furono costrette ad emigrare creando quel flusso che avrebbe contribuito a plasmare carattere e lingua degli Stati Uniti, un evento epocale ignorato o quasi dai manuali di storia degli altri paesi europei. Così come fantasmi (testi italiani esclusi), sono le vicende dei comuni e delle repubbliche del Rinascimento. Nelle scuole di quasi tutta Europa non si studiano centinaia di eventi, come la nascita dell’Estonia dopo la Prima guerra mondiale, il ruolo militare e politico nel Seicento della Svezia e del suo re Gustavo Adolfo, le vicende della Lituania. Buchi neri, amnesie culturali, che i cittadini dell’Europa rischiano di portarsi dietro per sempre e che adesso ottanta università europee stanno cercando di cancellare riscrivendo la storia perduta e affrontando eventi e personaggi con ottiche multiple e diverse interpretazioni. Perché se è vero che la «vera gloria» di Napoleone continua ad essere un interrogativo e altresì vero che i giudizi sul personaggio sono dissimili nella vulgata storica francese, austriaca, inglese e italiana. Dunque, per l’Europa e i suoi cittadini, diventa essenziale conoscere tutti i punti di vista storiografici per tentare una sintesi, difficile ma possibile. Alla guida del grande progetto di riscrittura (i vettori sono ClioHnet 2 e ClioHres.net, due reti di ricerca finanziate con circa cinque milioni di euro) c’è Ann Katherine Isaacs, docente di Storia Moderna all’Università di Pisa. «Nello studio della storia non è essenziale conservare soltanto la memoria - spiega la professoressa Isaacs -, ma anche e soprattutto consolidare e diffondere una visione critica. Un punto di partenza sono i libri di scuola, parte importante della nostra "identità", del modo di rappresentarci e di rappresentare "l’altro". La rappresentazione del passato è un processo molto selettivo. In ciascun paese si forma un modo nazionale di raccontare la storia. Ma oggi, come si impara la storia sui banchi di scuola degli stati europei? Nei testi troviamo alcuni, pochi, fatti e figure in comune. E vediamo che eventi e processi ritenuti importanti da alcuni paesi sono ignorati o quasi negli altri». ClioHnet ha già scritto una decina di manuali storici, altri venti sono stati realizzati da ClioHres.net. Sono pubblicati in diverse lingue da Plus, la casa editrice dell’Università di Pisa, ma sono scaricabili anche su Internet all’indirizzo www.clioh.net. www.cliohres.net «Li abbiamo scritti attingendo da fonti originali e abbiamo pubblicato documenti anche nella lingua originaria - spiega Isaacs - usando idiomi antichi come il fenicio, il greco, l’egizio. Con i colleghi europei stiamo affrontando argomenti tematici. Abbiamo già pubblicato volumi dedicati al ruolo della religione nei cambiamenti politici, alla lingua e all’identità, alla storia del mare. Inserendo, naturalmente, quegli eventi storici dimenticati e cercando di affrontare eventi e personaggi da più punti di vista. Adesso stiamo lavorando a un nuovo libro su immigrazione ed emigrazione in Europa». Non manca l’impiego delle nuove tecnologie: grazie a Internet i vari docenti possono personalizzare il libro di testo, scegliere capitoli e paragrafi e unificarli secondo le proprie esigenze didattiche. Insieme alla storia sono state coinvolte altre scienze umane quali filologia, geografia, storia dell’arte, antropologia. «Perché anche qui i popoli dell’Unione hanno visioni discordanti oppure hanno dimenticato grandi segmenti di cultura - ricorda Ann Katherine Isaacs -. Noi cercheremo di richiamare alla memoria questi eventi. L’unità del vecchio continente si fa con le leggi, certamente, ma ancora di più con la cultura. E la conoscenza della storia comune».
L’Università di Pisa ha avviato un progetto di «riscrittura della storia» destinato a colmare i «buchi neri e le amnesie culturali» che i cittadini dell’Europa «rischiano di portarsi dietro per sempre».
«Corriere della sera» del 16 marzo 2007

Carriera, è l’ora del manager centauro

Le previsioni di Manageritalia e Confcommercio: vince chi mischia le professioni, aggiungendo al proprio lavoro le qualità di altri ruoli
di Enzo Riboni
Dalle banche alla distribuzione, si affermano le figure multidisciplinari
"Ibridizzarsi". Mischiare le professioni, aggiungere competenze tipiche di altri lavori, moltiplicare le informazioni, formarsi sui ponti tra più culture. E’ infatti proprio l’ibrido, la "contaminazione", la parola d’ordine annunciata per il futuro prossimo del mercato del lavoro. A livello manageriale ma non solo. Un esempio? «Lo spazio espositivo della boutique Malo a Milano - chiarisce Domenico De Masi, docente di sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma - mischia le collezioni del pret-à-porter a opere di Balla, Paladino o Nevelson. Ciò significa che le commesse non solo devono saper vendere un pullover, ma anche spiegare un dipinto». De Masi è uno dei nove esperti chiamati dal Cfmt, il centro di formazione di Manageritalia (sindacato manager del terziario) e di Confcommercio, a tracciare lo scenario previsionale di sviluppo del settore nel triennio 2007-2009. Le opinioni sono state raccolte con il metodo Delphi: questionari proposti separatamente, costruiti per ricavare previsioni basate sulla convergenza delle opinioni in una sorta di rigorosa discussione collettiva. Il risultato è il dossier "Terziario futuro" (presentato ieri a Milano) in cui, tra l’altro, si tracciano le prospettive a breve del mercato del lavoro. «Nei prossimi tre anni - sostiene De Masi - la piramide professionale del terziario si deformerà. Si stringerà fortemente la base, quella dei lavori meno qualificati che verranno espulsi dal mercato, ma la contrazione non sarà quantitativamente compensata dalle professioni d’alto livello nate dall’evoluzione delle tecnologie». Una polarizzazione che, secondo l’indagine, porterà al declino dei ruoli intermedi delle gerarchie aziendali. Le nuove tecnologie, infatti, distribuiranno maggiori responsabilità a un numero più ampio di lavoratori, valorizzando però solo quella parte bassa della piramide che riuscirà a rilanciarsi con un’appropriata formazione. Acquisteranno peso ulteriore le professionalità legate al crescente utilizzo di Internet nel terziario e correranno in particolare i lavori legati alle vendite online. Nello stesso tempo, invece, continuerà a diminuire il numero degli impiegati classici, una contrazione che colpirà molto le segretarie tradizionali, favorendo le nuove "assistenti" laureate. Anche negli istituti di credito ci sarà da soffrire per chi non sta al passo, perché si ridurranno ulteriormente le professioni legate ai servizi bancari e di sportello. «Viceversa ci sarà un crescente bisogno di figure dedite alla consulenza al cliente. - sostiene Gregorio De Felice, direttore del servizio studi di Intesa Sanpaolo e altro esperto del panel - Per esempio, causa l’invecchiamento della popolazione, crescerà la domanda di professionisti di banca capaci di proporre nuove soluzioni previdenziali. Accanto a loro sarà apprezzato chi saprà estrarre valore dal patrimonio immobiliare delle persone con la proposta di strumenti finanziari nuovi. Insomma, si avvantaggeranno tutte le professioni consulenziali, sia che forniscano suggerimenti di financial planning alle famiglie, sia che assistano le imprese nei processi di internazionalizzazione». Nei prossimi tre anni l’ingresso dei giovani nel terziario sarà fortemente influenzato dalla temporaneità, da periodi di prova che diventeranno barriere discriminanti. «Il mercato sarà sempre più duale e coesisteranno lavoratori permanenti con personale a tempo. - spiega Tito Boeri, direttore della fondazione Rodolfo De Benedetti e membro del panel dei nove - Per i giovani, in particolare, pur riducendosi il tasso di disoccupazione, sarà difficile entrare nel lavoro dalla porta principale, con il rischio d’essere intrappolati in un circuito secondario del mercato». Mentre crescerà il numero di professionisti legati ai servizi alle persone (legali, commerciali, di consulenza tributaria, di investigazione e sicurezza, di educazione infantile), da qui al 2009 i servizi destinati alle imprese privilegeranno alcune figure emergenti. Soprattutto quelle legate alla comunicazione pubblicitaria integrata, alla creatività, al "digital signage" (videoposter e cartellonistica digitale) e ad altri mezzi di comunicazione creati dalle tecnologie avanzate. Ma la più rapida trasformazione del prossimo triennio investirà la formazione. Si parla già di "Educazione 2.0", per indicare l’avvento di una seconda generazione tecnologica di offerta formativa. Il "Web 2.0", evoluzione di Internet, diventerà risorsa chiave: i giovani precari lo useranno per condividere competenze, si diffonderanno i blog professionali, aumenteranno le "wiki" online (siti di collaborazione e diffusione di informazioni) diventando potentissimi strumenti informativi a costo zero. Ci vorranno invece più di tre anni affinché l’insegnamento degli strumenti di ricerca di informazioni (Wikipedia, YouTube, motori) prevalga sul tradizionale trasferimento di nozioni. «Già oggi - commenta però De Masi - siamo in presenza di una serie di "università invisibili". Come i festival, per esempio, quello della letteratura di Mantova, di filosofia di Modena, della scienza di Genova, dell’economia di Trento, della matematica di Roma. E’un cambiamento epocale, perché si creano professioni nuove e fortemente multidisciplinari. E sta proprio qui la grande novità: le professionalità si ibridano come già è toccato ai prodotti, tipo il cellulare diventato anche videocamera, supporto e-mail, terminale Internet e molto altro».
«Corriere della sera» del 16 marzo 2007

«E Piccoli disse: se Moro torna sono dolori»

A 29 anni dal rapimento parla uno dei più stretti collaboratori dello statista ucciso dalle Br: venne sacrificato per la ragione di Stato e del partito
di Giovanni Bianconi
I ricordi di Corrado Guerzoni: la Dc seguì il Pci, e non fece nulla per salvarlo
Ventinove anni dopo i ricordi continuano a bruciare, e le impressioni di allora sono rimaste le stesse. La mattina del 16 marzo 1978 Corrado Guerzoni, giornalista tra i più stretti collaboratori di Aldo Moro, telefonò a casa del presidente della Democrazia cristiana. «Volevo dirgli che sul Giornale di Montanelli non c’erano più attacchi contro di lui sullo scandalo Lockeed - racconta -, era una cosa che lo preoccupava e intendevo tranquillizzarlo. Mi dissero che era appena uscito. Pensai che gli avrei parlato più tardi». Invece non gli parlò più. Né lo vide più. Pochi minuti dopo quel mancato colloquio Moro fu rapito dal commando brigatista che, in via Mario Fani, sterminò i cinque agenti di scorta. «La notizia me la diede un mio ex redattore del Radiocorriere. Ebbi una sensazione di gelo, come se fossi entrato in una stanza ghiacciata». Ventinove anni dopo Corrado Guerzoni ancora s’interroga sul perché non si riuscì a salvare la vita dello statista riconsegnato cadavere dalle Brigate rosse dopo 55 di giorni di prigionia. O meglio, dice lui, «non si volle salvare». E accusa: «Non lo cercarono, e la Democrazia cristiana non fece nulla per trovare una via d’uscita. S’incatenò alla linea della fermezza imposta dall’accordo col Partito comunista. Il partito della mediazione per antonomasia, delle opportunità, divenne all’improvviso e inopinatamente tutt’uno col "partito della fermezza", che per la Dc è quasi un ossimoro». Naturalmente gli esponenti democristiani di allora la pensano in tutt’altro modo. A cominciare da Corrado Belci e Guido Bodrato, rispettivamente direttore del Popolo e capo dell’ufficio stampa e propaganda dell’epoca, che su questa vicenda hanno scritto un libro (1978, Moro la Dc e il terrorismo, editore Morcelliana) per difendere le scelte di quella primavera. Ma Guerzoni che visse quei 55 giorni in costante contatto con la famiglia di Aldo Moro insieme agli altri due collaboratori del presidente Sereno Freato e Nicola Rana, insiste nel suo giudizio: «C’è una frase che Piccoli disse a Freato che spiega tutto. "Se questo torna sono dolori", gli confidò, col carattere spietato ma franco che si ritrovava. Avvenne verso la metà di quel periodo, e Freato ce lo riferì subito. Del resto era la conferma dell’impressione di immobilismo impersonificata dal segretario Zaccagnini. La famiglia era sdegnata dal comportamento del segretario che era in piedi solo perché Moro l’aveva fatto stare in piedi». La posizione del «partito-Stato», che per Guerzoni fu praticamente unanime e monolitica «salvo qualche rarissima e poco significativa eccezione» trova la principale ragione nel rapporto col Pci che, ricorda ancora, «fu esplicitata da Enrico Berlinguer nella visita a casa Moro, quando disse chiaramente alla signora "sappia che non faremo nulla"». Ma che cosa c’era da contrapporre alla fermezza? Davvero si poteva trattare coi brigatisti che avevano sterminato la scorta? «Noi parlammo di flessibilità - risponde Guerzoni -, che significa avere la capacità di mettere in contraddizione l’avversario con delle mosse in risposta alle sue. Invece l’unica risposta fu un "no" senza condizioni, che significava sacrificare Moro sull’altare della patria e della ragione di Stato e di partito: meglio lui morto e salvare tutti gli altri, come esemplificava quella frase di Piccoli. In più questa scelta si accompagnò all’immobilismo o all’incapacità degli investigatori di trovare e liberare il presidente». Quando Guerzoni dice «senza condizioni» è inevitabile tornare al messaggio di papa Paolo VI agli «uomini delle Brigate rosse», nel quale il pontefice supplicava i terroristi di liberare l’ostaggio, appunto, «semplicemente, senza condizioni». Per i brigatisti, e forse per Moro stesso, fu il segnale che anche il papa aveva fatto «pochino», come lo stesso prigioniero scrisse alla moglie. E Guerzoni ricorda con maggiore dovizia di particolari rispetto a quanto accennò in passato l’episodio che gli fa dire che fu il governo a chiedere al papa di attenersi a quell’espressione: «Dopo la morte del presidente, tra il funerale privato e la cerimonia pubblica a San Giovanni celebrata da Paolo VI (quella con i politici ma senza la salma, ndr) il vicario di Roma, il cardinal Poletti, chiamò la signora per chiederle di partecipare. Una telefonata a cui ero presente, e nella quale il cardinale insisteva perché la signora andasse, su insistenza del papa. Ma lei fu fermissima, suo marito era stato chiaro nel lamentare l’atteggiamento tenuto dal Vaticano. Si parlò del "senza condizioni", e Poletti replicò che era stata un’imposizione del governo. Io lo capii in diretta, poi commentammo con la signora». Per Guerzoni fu il sigillo finale alla «fermezza cieca» che portò alla morte di Moro: «L’unità tra Dc e Pci che lui aveva immaginato per salvare il Paese attraverso la mediazione, s’è realizzata sulla rigidità, ribaltandosi contro di lui e decretandone la fine».
«Corriere della sera» del 16 marzo 2007

Senza bellezza non c’è verità scientifica

Un grande studioso spiega perché calcolare sia sinonimo di creatività e di eleganza. la Matematica e il Canto delle Sirene
di Michael Francis Atiyah
Per gran parte della gente comune la matematica solitamente è un’austera disciplina intellettuale, comprensibile solo ad un esiguo numero di eccentrici terrestri e caratterizzata da una scarsa attinenza con l’esperienza umana. Molti si portano infatti dentro la penosa memoria dei grandi sforzi e delle energie impiegate sui banchi di scuola nel disperato tentativo di risolvere problemi apparentemente inintelligibili. Questi sopravvissuti alla matematica scolastica ricordano invece con sommo gaudio l’ultimo giorno in cui dovettero avere a che fare con un’equazione. E anche se pochi metterebbero in discussione l’idea che la matematica sia vera, la bellezza è l’ultimo tra gli aggettivi con cui descriverebbero questa materia. Tuttavia non sono poche le celebri citazioni di altrettanto insigni matematici che non solo vedono bellezza nella loro disciplina, ma le attribuiscono altresì un’importanza suprema. Paul Dirac, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, disse: «Una legge fisica deve possedere matematica beltà». Pronunciate da lui, uomo notoriamente parco nell’uso delle parole, l’espressione assume un significato davvero incisivo. Il famoso matematico tedesco Hermann Weyl si spinse oltre: «Il mio lavoro è sempre stato orientato verso l’unificazione di verità e bellezza, ma quando mi trovavo costretto a scegliere tra esse, solitamente propendevo per la bellezza». Una simile considerazione può sembrare scioccante e perversa: non solo dovremmo riuscire a cogliere l’estetica della matematica ma, peggio ancora, ci verrebbe richiesto di sacrificare la verità in nome del bello. Si presume che la prova ultima della geometria euclidea sia il cuore della matematica. Gli studiosi gongolano all’idea che la loro materia sia l’unica attività umana in cui - grazie all’arma del calcolo - possa essere raggiunta una certezza assoluta. Probabilmente Herman Weyl era in vena di scherzi. Dunque tutta la sua ricerca non è stata altro che un allegro jeu d’esprit? Niente affatto, Weyl era infinitamente serio e mi impegnerò a spiegare perché. Credo che il modo migliore per far capire come i matematici intendano il concetto di bellezza sia attraverso un confronto tra matematica e architettura. L’architettura trae molte delle sue caratteristiche dall’impatto visivo del suo insieme, dalla natura artistica della sua progettazione, dall’ingegneria che sottintende la sua struttura e dall’attenzione sofisticata al dettaglio delle decorazioni. Diversi artigiani lavorano contemporaneamente a parti differenti della costruzione, la quale risulta permeata da una costante tensione tra estetica e funzionalità. La matematica può essere vista sotto la stessa luce: un edificio astratto, la cui struttura elegante esprime un progetto d’insieme di estrema bellezza, in cui la raffinatezza del dettaglio può essere ammirata nella sua intricata argomentazione e la cui solidità è costantemente rafforzata da una tecnica rigorosa e da un’intrinseca utilità nelle sue innumerevoli applicazioni pratiche. Sia nella matematica sia nell’architettura è possibile elencare le qualità la cui somma crea bellezza: l’eleganza, la simmetria, l’equilibrio, la precisione, la profondità, ma alla fine l’estetica matematica inizia a esistere soltanto quando diventa finalmente visibile ai nostri occhi. Ma per poter apprezzare lo splendore della matematica in tutta la sua grandiosità, come fosse la Basilica di San Pietro, è necessario ricorrere a un esempio: la celebre storia della risoluzione delle equazioni. La formula per quelle quadratiche si insegna a scuola, dopo secoli di tentativi venne scoperta quella per le equazioni di terzo e quarto grado. Ogni sforzo per venire a capo delle espressioni algebriche alla quinta potenza andava invece incontro ad un sistematico fallimento. Furono due giovani matematici, Niels Henrik Abel in Norvegia ed Evariste Galois in Francia, a dimostrare che tutto ciò era inevitabile: la formula cercata semplicemente non esisteva. I loro ragionamenti matematici portarono alla costruzione di un grande edificio astratto, chiamato la teoria di Galois, il quale spiega la simmetria nascosta che sottintende le equazioni e può essere utilizzata per arrivare ad una comprensione più profonda della materia. Questa è, senza ombra di dubbio, la più grande cattedrale mai costruita dai matematici. D’accordo, la bellezza potrebbe anche indirizzarci verso la verità, ma come potrà mai superare l’importanza di quest’ultima? Come poteva Hermann Weyl giustificare la sua preferenza del bello al posto del vero quando si trovava dinnanzi a una scelta conflittuale tra i due valori? Una delle possibili risposte è di natura filosofica. La percezione della bellezza è soggettiva, pertanto si può essere certi della sua validità. L’individuo sa infatti cosa gli piace. La verità è invece un concetto oggettivo e dunque non possiamo essere sicuri: in quanto valore sfuggente la nostra percezione del vero può essere distorta. Di conseguenza sorge un conflitto quando ciò che riteniamo vero è soltanto illusorio. Un esempio chiaro è più convincente di una argomentazione filosofica astratta. Il caso vuole che sia proprio il lavoro di Hermann Weyl a fornircelo. Nel 1918, dopo che Einstein aveva già ideato la sua teoria generale della relatività, la quale rimpiazzò la teoria della forza di gravità coniata da Newton, Weyl fece un tentativo per unificarla con la teoria dell’elettro-magnetismo di Maxwell. La sua idea fu un esempio splendido di lavoro matematico ma purtroppo, come fece notare lo stesso Einstein, il suo sforzo contraddiceva la realtà della fisica. Ciononostante il calcolo matematico di Weyl venne pubblicato con una obiezione redatta da Einstein in appendice. Pochi anni dopo la comparsa nel campo scientifico della meccanica quantistica, l’idea originaria di Weyl fu leggermente modificata. Così, mentre oggi l’obiezione di Einstein è decaduta, la teoria di Weyl è stata globalmente accettata ed è diventata la base su cui è stato postulato tutto il lavoro successivo nell’ambito della fisica teorica. Se Weyl avesse abdicato alle sue convinzioni e non avesse invece insistito affinché il suo lavoro matematico fosse pubblicato ugualmente, la fisica non sarebbe mai evoluta. Un caso simile è accaduto anche a me. Durante una conferenza tenutasi nel Massachusetts trent’anni fa, insieme al mio caro amico e collega di Harvard Raoul Bott, concepii un’idea che trovammo entrambi molto attraente. La teoria era dotata di un’armonia che ci sedusse irrimediabilmente e, oltre a ciò, si traduceva facilmente in numerose applicazioni pratiche. Ma i matematici, anche se rischiano di essere fuorviati dalla bellezza, non sono persone irresponsabili. Volevamo dunque che le nostre idee superassero l’attento esame dei colleghi. Un disegno armonioso potrebbe nascondere difetti strutturali che conducono fatidicamente alla prova del suo sfacelo. Pertanto prendemmo il caso più semplice per testare la nostra idea e la proponemmo come una sfida all’intero gruppo di esperti riuniti alla conferenza. Dopo un breve ma attento esame il verdetto fu negativo. La nostra teoria era caduta al primo ostacolo reale. Secondo la logica avremmo dovuto abbandonare subito il nostro «sogno matematico». Invece, attratti come dal canto delle sirene, la bellezza della sua musica ci spinse a non accettare la sconfitta senza dare battaglia fino in fondo. Riesaminammo così l’intero sistema con intransigenza scoprendo che i colleghi avevano commesso un errore di calcolo e, alla fine, rivendicammo la correttezza della nostra tesi. La bellezza aveva trionfato. Lasciamo l’ultima parola a Hermann Weyl, un matematico con l’anima del poeta: «Credo che certe caratteristiche insite nella matematica - disse - avvicinino questa materia più alle arti creative piuttosto che alle altre discipline sperimentali».
«Corriere della sera» del 14 marzo 2007

La sfida: perché noi intellettuali dobbiamo alimentare il sogno turco in Europa

Per il multiculturalismo e l’impegno, contro l’esportazione della democrazia: un intervento della scrittrice di Istanbul
di Elif Shafak
Il funerale di Hrant Dink, il direttore di un giornale armeno ucciso a Istanbul il 19 gennaio, è stata un’esperienza toccante per centinaia di migliaia di persone in Turchia. Persino chi non lo conosceva personalmente ha pianto per lui, sforzandosi di mettersi nei panni dell’«Altro». In un certo senso, il funerale è stato una catarsi che ha riunito gente di tutte le estrazioni sociali, ideologiche ed etniche, e ha dimostrato che sappiamo partecipare a questo lutto. E se sappiamo condividere un lutto, sappiamo anche vivere insieme. E vivendo insieme, questo significa che possiamo nutrire aspirazioni e speranze comuni. In un’intervista, mi era capitato di dire: «La storia turca è un ottimo soggetto di indagine perché in passato eravamo un impero multietnico e poi, allo scopo di creare una nazione stato di stampo monolitico, miriadi di minoranze sono state emarginate e le loro voci soffocate. Fa parte del mio mestiere di scrittore riportare in vita queste voci». E oggi? Ecco, Cheslaw Milosz ha fatto notare fino a che punto gli scrittori polacchi contemporanei sono stati plasmati dalla loro storia e costretti a prendere una posizione politica, talvolta persino contro la loro stessa volontà. L’esperienza turca è molto simile, e addirittura assai più complessa. Gli scrittori nel nostro paese sono sempre qualcosa di più di «scrittori»: sono innanzitutto figure pubbliche. Politica e letteratura sono strettamente intrecciate. Questo coinvolgimento spinge gli scrittori a confrontarsi con una sfumatura che comporta profonde implicazioni: la distinzione tra «romanziere» e «intellettuale». Non tutti gli scrittori sono intellettuali. Non tutti gli scrittori devono per forza essere intellettuali. Così stanno le cose solitamente in Occidente. Ma in Turchia il mondo letterario è talmente politicizzato e radicalizzato che finiamo col discutere di politica invece che di arte. Gli scrittori hanno davanti una nuova sfida: o si ritirano, ben al sicuro, sotto la campana di vetro della loro immaginazione, e lì producono le loro opere, oppure si allenano per assumere il ruolo pubblico degli intellettuali. La situazione generale li spinge in quest’ultima direzione. Uno scrittore che voglia vivere una vita da eremita e dedicarsi esclusivamente a scrivere i suoi romanzi non può misurarsi con questa sfida. Il bastardo di Istanbul, la mia ultima opera (e la seconda scritta in inglese), affronta apertamente la questione della memoria e dell’amnesia. Siamo i nipoti di un impero multietnico, multilingue e multireligioso. L’Impero ottomano era affascinante per molti versi, e mi rattrista constatare come le giovani generazioni turche sappiano poco o nulla di questo passato così ingombrante, è vero, ma così carico di ricchezze. Ora la Turchia è una protagonista della scena mediatica occidentale: dalle sue ambizioni di entrare nell’Ue al premio Nobel per la letteratura dato a Orhan Pamuk... La Turchia non è una realtà monocromatica. Vi coesistono e si scontrano forze e voci contrapposte. Qualsiasi osservatore esterno dovrebbe innanzitutto prendere coscienza della natura multistrato della nostra società. La tendenza occidentale, invece, punta nella direzione inversa. Vedo spesso in Occidente una percezione superficiale della Turchia, che tende ad appiattire la sua complessa diversità. Io condanno la xenofobia e l’ultranazionalismo che affliggono il mio Paese e critico anche quel retaggio patriarcale dominante che non è disposto ad aprirsi all’Altro, che non accoglie il pluralismo, la diversità e la piena uguaglianza tra i sessi. Allo stesso tempo condanno la persistente islamofobia e turcofobia che esiste in Occidente, perché anche essa è oppressiva. Io sono una convinta sostenitrice dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, perché credo che sarà a tutto vantaggio non solo della Turchia, ma anche dell’Europa. Con i suoi milioni di cittadini musulmani che oggi vivono nel cuore dell’Europa, il vecchio continente deve affrontare la questione delle culture ibride, nelle quali islam e cultura occidentale possono coesistere. È un obiettivo importante per l’Europa. In quanto alla Turchia, essa occupa una posizione unica. È vero che il paese deve fare ancora molti passi avanti sulla strada delle riforme, ma deve essere incoraggiato in quella direzione, e non scoraggiato. Dopo l’11 settembre viviamo in un mondo sempre più radicalizzato, e in tanti si vanno convincendo che l’islam e la democrazia occidentale non potranno mai coesistere. E’ora di dimostrare che hanno torto. Esiste la xenofobia in Turchia, certo, ma esiste anche in Europa e si alimentano a vicenda. E ogni radicalismo genera nuovi radicalismi altrove. La Turchia stressa, snerva e invecchia i suoi scrittori e intellettuali molto in fretta. Eppure, allo stesso tempo, è una fonte inesauribile di stimoli e ispirazione. E’difficile spiegarlo, ma Istanbul è una città che ti sorprende per le sue contraddizioni e che ti fa innamorare. Il poeta Kavafis aveva ragione: la città ti segue ovunque vai.
«Corriere della sera» del 14 marzo 2007

Contraddizioni di Pirandello

I ricordi di Luigi Filippo d’Amico
Di Tullio Kezich
Era fascista ma rifiutò i funerali di Stato del regime
In una solare giornata d’estate del ‘34, a Castiglioncello, mancava il quarto al tavolo di scopone nel villino Conti affittato da Luigi Pirandello. Attaccato alle abitudini e impaziente come sempre, il drammaturgo invitò al posto dell’assente un bimbo che stava trastullandosi in giardino. Lo ricorda grato Luigi Filippo d’Amico nel suo libro L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino (Sellerio, pp. 176, 10): «Il Maestro fu benevolo, perché seguii i dettami del Chitarrella (avevo quasi dieci anni)». «Pippo» era il nipote dell’illustre critico teatrale Silvio d’Amico, la cui lunga fedeltà a Castiglioncello aveva attratto Pirandello nella beata oasi tirrenica: dove fra una partita e l’altra scrisse Non si sa come e Quando si è qualcuno, dandone poi lettura a un amichevole areopago che includeva, oltre ai d’Amico, la famiglia di Emilio Cecchi al completo, Corrado Pavolini, Arnaldo Frateili e altri estivanti intellettuali. La conoscenza diretta, troncata un paio d’anni più tardi dalla polmonite che si portò via il premio Nobel nel dicembre ‘36, non esaurì il legame di Luigi Filippo con Pirandello, di cui finì per sposare la nipote Lietta, mentre suo cugino Alessandro, figlio di Silvio e devoto curatore dell’opera omnia pirandelliana, ne sposò l’altra nipote Maria Luisa. Tutti amori sbocciati più tardi nell’atmosfera di Castiglioncello ancora impregnata della presenza di Nonno. È chiaro, insomma, il motivo per cui questo excursus di d’Amico (regista cinematografico e raffinato teorico del bridge) si stacca dalla pur nutrita bibliografia sullo scrittore agrigentino. È infatti uno schizzo tracciato dall’interno della cerchia più intima senza tuttavia indulgere, secondo gli usi attuali, a pettegolezzi o rivelazioni scandalose. E dire che ce ne sarebbe materia perché l’intero arco esistenziale del biografato è pieno di punti oscuri e segnali inquietanti: dall’indissolubile matrimonio con Antonietta, che al culmine di una delirante conflittualità fu confinata vita natural durante in una clinica sulla Nomentana, all’attaccamento geloso del drammaturgo per la figlia, tale da suscitare nella madre e moglie un orribile e patologico sospetto di incesto. Senza parlare di una passione sbocciata alle soglie della terza età, fonte di ulteriori tormenti, per l’attrice Marta Abba, che si comportò da musa impietosa. Su fonti di prima mano d’Amico avrebbe potuto imbastire svariate illazioni, ma ha preferito far emergere dalle opere del siciliano le palesi od occulte risonanze autobiografiche; e se è vero che la critica è l’arte del citare, egli si rivela un esegeta acuto. A volte nei testi basta cambiare una parola per farne emergere scottanti verità: vedi la protagonista vulnerata dei Sei personaggi in cerca d’autore, che da Figlia (quale fu nella realtà) diventa pudicamente Figliastra; o quella di Diana e la Tuda, scritta per Marta, una giovane modella che invano si proferisce a un vecchio scultore. In questo libro si ha ogni tanto l’impressione che sia Pirandello stesso a confessarsi anche nelle contraddizioni, nelle impennate di brutto carattere, nel fascismo cinicamente sbandierato (quel telegramma di solidarietà al Duce nei giorni del delitto Matteotti!) ma poco sentito. Tant’è vero che, deluso dai vani tentativi di interessare Mussolini alla fondazione di un teatro nazionale, Luigi in morte si sottrasse beffardo ai funerali di Stato, facendosi portar via nel carro dei poveri. Arrivato in fondo a questa affannosa meteora letteraria, Luigi Filippo d’Amico ne trasmette pietosamente soprattutto i dolori: i tristi anni di miseria, la pazzia di Antonietta, i lanci di monetine per la prima romana nel ‘21 dei Sei personaggi, le grida di «Schluss!» (basta) dieci anni dopo a Berlino per Questa sera si recita a soggetto, le crudeltà di Marta e quel senso di amara solitudine del Maestro che né i figli né gli amici né lo scopone riuscirono a mitigare.
«Corriere della sera» dell’11 marzo 2007

Kipling il moderno

«Kim», il capolavoro anglo-indiano ispiratore anche di Joyce e Brecht, esce in una nuova edizione
Di Claudio Magris
Mito della tecnica e richiamo della giungla anticipano le angosce dell’era digitale
Paradossalmente Kipling è molto più moderno - ossia, anche se forse inconsapevolmente, all’altezza del demone della modernità - là dove sembra arcaico, un narratore epico radicato in una totalità che non esiste più. Ma la sua voce arriva appunto da una totalità infranta, da un coro che va sgangherandosi in bruschi e rotti singulti, ognuno ormai per conto suo eppure memore di quell’unità, come i giovani lupi del Libro della giungla che, dopo la morte di Akela nella vittoria contro i cani rossi - vittoria che, come quasi sempre in Kipling, è l’inizio della fine e segna la dissoluzione del branco e l’addio di Mowgli - prendono ognuno sentieri diversi, seguono tracce solitarie. Nei Figli dello Zodiaco - un capolavoro che dice tutto sulla vita, l’amore, la felicità, la sconfitta - il Toro mormora: «Ricordati, fratello, una volta eravamo dèi». Se l’epos è un mondo non ancora abbandonato dagli dèi, nel mondo di Kipling ci si può solo ricordare di essere stati dèi - o commettere il peccato di dimenticarsene - ed è questa condizione spodestata, frammentaria, postuma che permette a tanti racconti - in cui pure spesso rullano i tamburi e, come dice Mahbub Ali in Kim, si genera un uomo con la stessa indifferenza con cui se ne uccide un altro - di esprimere la disgregazione, l’angoscia, la frammentarietà, la polvere della vita. Kim è, in certo modo, la sistemazione di diversi fregacci e macchie in un affresco più composto. Il romanzo si articola in due vicende, che corrispondono alle due anime di Kim, quella inglese e quella indiana. Kim, monello inglese che vive da vagabondo indiano - e di vari espedienti - per le strade dell’India, incontra un lama tibetano, Teshoo, che cerca un fiume miracoloso, il Fiume della Freccia, per affrancarsi, secondo la religione buddhista, dalla Ruota delle Cose, dal ciclo delle rinascite e dall’ingannevole e dolorosa sete di vivere, da ogni desiderio. Kim è un libro felice; forse troppo, oppure ironicamente felice. Tutto quadra e le contraddizioni si smussano. Il lama è un candido mistico rivolto a una verità che trascende il mondo, ma, pur con la sua ciotola che senza Kim resterebbe vuota, tramite il suo ricco convento provvede a pagare gli studi di Kim. Quest’ultimo, in alcuni momenti memorabili del romanzo, vive turbato la sua scissione, il mistero della sua e di ogni identità: «Io sono Kim. Io sono Kim. Chi è Kim?» Ma il dramma si scioglie subito e forse non sussiste, perché ogni duplicità esistenziale si risolve nella felicità della notte indiana, nella gioia di vagabondare col suo lama, nel piacere preso agli intrighi, alle leggi, anche al rischio del Grande Gioco. In Kim si realizza armoniosamente quell’incontro fra Oriente e Occidente che Kipling, in una frase famosa, aveva definito impossibile - anche se, ricorda Lidia Conetti, a quelle parole, tante volte citate, seguono altre che invece nessuno cita mai ossia che quando due uomini si danno la mano non esistono più né Est né Ovest, perché non importa da dove quegli uomini provengono. Tuttavia, quando un indiano e un inglese cercano, nei racconti di Kipling, di darsi la mano, il risultato - specie se sono di sesso diverso e se si tratta di un incontro d’amore - conduce spesso alla tragedia, vissuta e narrata con umanissima partecipazione, come avviene in Senza beneficio di clero o in Oltre la linea. L’impero, in Kim, non è né inglese né indiano, ma angloindiano nel senso più forte della parola. Lo incarna, meglio di ogni altro, il vecchio soldato indù che porta sempre con sé la sciabola del suo reggimento. Perfino la figura del Babu - l’indiano inglesizzato, spesso deriso da Kipling, con disprezzo reazionario, quale figura «democratica» e dunque per lui falsa dell’integrazione e dei diritti politici - è pienamente positiva: il babu Hurree, camaleontico agente segreto e raffinato erudito, è una colonna del Grande Gioco e quando dice «noi» intende ora gli indiani ora i britannici. La superbia razziale degli inglesi viene sprezzantemente dileggiata, ad esempio nella figura dell’arrogante tamburino che rimprovera Kim di «cianciare con i negri». Gli ufficiali che arrivano dall’Inghilterra, che sono stati allattati da donne bianche e hanno studiato l’India solo sui libri, capiscono poco; se l’impero si regge - e così bene, secondo Kipling - lo deve ai semplici soldati come Mulvaney, Ortheris e Learoyd, protagonisti di tanti racconti; ancor più agli indiani come Gunga Din, l’umile portatore d’acqua che muore in battaglia; anche ai cavalli e agli elefanti, e a tutta quella «bassa forza» che appare l’unica depositaria autentica dei valori dell’impero ed è pronta a dare una mano, con un’autorità dell’esperienza che non ha a che vedere con alcuna rivendicazione, a quei poveri ufficiali, funzionari e diplomatici - per tacere dei politici - che da soli non combinerebbero nulla. L’armonia generale comprende pure un pacifico e sorridente sincretismo religioso, che mette insieme, rispettandoli e senza prenderli troppo sul serio, dèi e culti di tutte le religioni, con una punta di irritazione per l’alterigia cristiano-protestante che liquida come pagani due terzi degli abitanti del mondo e con la simpatia dell’irlandese per il cattolicesimo, che appare a Kipling vicino al suo sentimento fraterno-epico-picaresco di accettazione corale della vita e delle sue insensatezze. Pure gli dèi d’Oriente e di Occidente convivono promiscuamente nell’indulgente bazar di Kim. Altrove, invece, si contrappongono in un fato inconciliabile, sebbene tutti coinvolti nell’universale consunzione delle cose. In un capolavoro come I costruttori di ponti l’impero è la modernità, la tecnica che invade e aggredisce la giungla, l’ingegneria che sfida la piena del Gange e gli antichissimi dèi: dèi-animali il cui tempo è immensamente più lungo della breve storia umana (e tanto più di quella imperiale), ma è anch’esso limitato e dunque è un breve battito di ciglia rispetto all’eternità. Questo tempo sgretola gli imperi e risucchia indietro gli dèi, sino a farli ritornare al quasi-nulla delle origini, al grumo di fango e di muco da cui sorgono la vita e le sue immagini. Creatore talora corrivo di facili miti, Kipling ha una grande potenza mitica, una profonda intuizione del carattere mitico della tecnica e del legame fra l’arcaico e il moderno. Come scriveva Cecchi nel suo famoso saggio del 1910, egli coglie l’aspetto terribile e vitale della vita contemporanea; averla colta nelle brulicanti ed eterogenee metropoli asiatiche gli ha permesso di afferrare il corto-circuito fra l’arcaicità e la tecnica, il rapporto fra gli dèi e le macchine («Un cui tocco può alterare tutto quanto esiste», dice una ballata), fra le costruzioni d’acciaio e i templi in rovina nella giungla. La vitalità tecnologica e metropolitana affascina e incute angoscia; Kipling ha saputo esprimere questa seduzione e quest’orrore. La macchina, la tecnica diventano in lui vive, diventano linguaggio; egli sa far parlare un motore come un cobra antichissimo che custodisce un tesoro sepolto. Il bardo imperiale, in ritardo sui tempi e sordo a tanti aspetti del progresso, diviene così uno scrittore ultramoderno, la cui lingua - una delle più varie, complesse e complete della letteratura inglese, secondo Burgess e Eliot - diviene la lingua stessa della modernità tecnologica. Senza questa lingua kiplinghiana, osserva Wilson, non esisterebbe l’Ulysses di Joyce. Non a caso Brecht ha imparato anche da Kipling uno stile che è montaggio e smontaggio della realtà e dell’uomo stesso. Tutto ciò ha implicazioni angosciose e apre inquietanti misteri sulla vita e sull’uomo; la sensibilità di Kipling per l’irrazionale, il paranormale, l’inspiegabile è connessa alla duplice fascinazione del misticismo e della tecnica, spesso inscindibili come nel racconto Senza fili, in cui il tema - presente anche altrove - delle vite anteriori s’intreccia alla telegrafia. La Ruota dalla quale il lama di Kim vuol liberarsi, muove la tecnica e ne è mossa; gli uomini, miseri e gloriosi, vengono macinati fra i suoi raggi senza lamentarsi: giusta è la Ruota, dice il lama. Se quest’ultimo vive tutto ciò con serenità, Kipling ne è turbato e cerca nella tecnica, nel lavoro, un rimedio a quell’angoscia che lo stesso lavoro, la febbrile trasformazione tecnologica del mondo gli incute. In un’inquietante poesia, Inno alla pena fisica, Kipling ha espresso la terribile incapacità di persuasione, l’impossibilità di vivere che caratterizza la modernità: la fatica che consuma notte e giorno gli uomini li opprime e li incalza senza sosta, sicché essi invocano una tregua, ma se cessa questa furia di fare e se si placa il morso della pena, si ridesta nell’animo l’angoscia del vivere, l’orrore della vita nuda, inconcepibile e insostenibile. È la droga che permette di vivere, qualsiasi droga: l’oppio nella Porta dei cento affanni (testo mirabile, in cui la lenta dissoluzione dell’io diviene il ritmo del racconto), il furore di vendetta in Dray wara vow dee o il frenetico lavoro dei funzionari, degli ingegneri, dei soldati in tante novelle. La pena fisica impedisce di godere il mondo e altrettanto lo impedisce il suo placarsi. Kim è invece un libro in cui il mondo c’è ancora - oggettivo, vero, tangibile, seducente - e c’è ancora, almeno per il protagonista, la possibilità di amarlo e goderlo con abbandono, come nella grande pagina in cui Kim, riemergendo dallo sfinimento, riscopre la sua vastità amica, percepisce i suoi colori, le sue forme e sente che il suo essere sta riagganciandosi alla realtà esterna. È una felicità - un particolare stato di felicità, scrive Alberto Manguel - di Kim, non di Kipling; il primo, a differenza del secondo, non è stato strappato all’infanzia indiana e non è stato costretto a crescere.
Tra i romanzi più celebri di Kipling: «Il libro della giungla» (1894), «Il secondo libro della giungla» (1895), «Kim» (1901). Tra le sue poesie: «Gunga Din» (1892) e «Se» (1895)
«Corriere della sera» dell’11 marzo 2007

20 marzo 2007

Se si cancella un singolo ricordo

di Andrea Lavazza
La fantascienza si è esercitata in mille simulazioni di memorie manipolate, ma il desiderio (e la paura) di poter intervenire sui ricordi sono un «topos» delle letteratura universale. Anche Shakespeare mette in scena un Macbeth che chiede al medico una pozione che rimuova dalla mente della moglie le immagini insostenibili del delitto compiuto e la sollevi dal peso del rimorso. «Il malato trovi da sé il rimedio», è la risposta nella tragedia. Oggi, quella «medicina» comincia a prendere corpo. Un gruppo di ricercatori del Center for Neural Science della New York University, guidato da Joseph LeDoux, è riuscito a cancellare un singolo ricordo dal cervello di topi di laboratorio. O meglio, come spiegano in un articolo anticipato online su «Nature Neuroscience», hanno impedito che un elemento mnemonico legato a un'emozione di paura passasse dalla memoria a breve termine a quella di lungo termine. Gli sperimentatori hanno sottoposto alcuni topi a un condizionamento classico (pavloviano): si addestrano gli animali a temere due toni musicali somministrando loro nello stesso tempo una scarica elettrica. L'associazione ripetuta di suono e scossa fa sì che il topo si aspetti la scarica ogniqualvolta senta il tono musicale. La paura è misurata come risposta fisiologica di blocco motorio, che anticipa il dolore temuto. Metà degli animali sono poi stati trattati con una sostanza (chiamata UO126) che agisce sulla cascata di processi molecolari alla base del consolidamento dei ricordi. Una volta somministrato tale «farmaco», a tutti i topi veniva fatto risentire uno dei toni musicali capaci di suscitare timore preventivo. Il giorno dopo si è testata nuovamente la memoria dei due suoni: nel gruppo di controllo la situazione era immutata, mentre le cavie «narcotizzate» non manifestavano più paura rispetto al tono ripetuto durante il riconsolidamento; nessuna conseguenza invece sull'altro suono, che continuava a suscitare terrore e a fare immobilizzare gli animali. Il meccanismo soggiacente è dato dal fatto che un certo ricordo, quando viene riattivato nel cosiddetto consolidamento, entra in uno stato di labilità legato alla sintesi di alcune proteine e ciò avviene in una porzione di cervello chiamata amigdala (dalla forma simile a una mandorla). Se si interferisce in tale processo - grazie al citato inibitore delle chinasi Mek, cioè gli enzimi che regolano l'espressione dei geni coinvolti nel complesso meccanismo -, non si ha il potenziamento dei collegamenti sinaptici - ovvero delle connessioni fra neuroni, i quali creano appunto la rete che costituisce materialmente la sede dei ricordi. Va precisato che una simile «ablazione» della memoria riguarda per ora una precisa finestra temporale e ricordi molto specifici. Un'altra recente ricerca segnala infatti che alcuni tipi di ricordi - quelli che soggettivamente definiremmo importanti - vengono scritti in modo «imperituro» nel cervello. LeDoux e colleghi pensano che l'UO126 (non ancora approvato per l'uso sull'uomo) potrà essere utile per combattere il disturbo da stress post-traumatico. Altri ritengono che queste frontiere delle neuroscienze siano potenzialmente minacciose della nostra identità personale e si prestino ad abusi. Comunque sia, con esse dovremo fare i conti.
«Avvenire» del 20 marzo 2007

Il gossip ci soffoca ma lo vogliamo noi

Trasmissioni, riviste, blog: quasi anneghiamo
di Giorgio Ferrari
La tragicomica vicenda che prende il nome di "vallettopoli" merita una piccola riflessione sul ruolo dei media e su quello scarto, quello slittamento socio-semantico che ha consentito che la sfera privata dell'individuo divenisse sempre più un fatto pubblico, senza che nessuna barriera o quasi si potesse innalzare a difesa di ciò che un tempo si chiamava onore, riserbo, dignità. Chiariamo subito che il gossip (inteso come: "venticello", "spiffero" e in senso lato "maldicenza") è sempre esistito. I graffiti pompeiani, la ricca messe di iscrizioni funerarie romane testimoniano della mai sopita propensione umana a far sapere al mondo vizi e debolezze non solo dei potenti, ma perfino degli anonimi vicini di casa. Nulla è davvero cambiato sotto le stelle, sebbene una differenza sostanziale fra il passato - anche recente - e i giorni nostri vi sia: un tempo non esistevano i canali perché il gossip giungesse a forare la soglia di attenzione pubblica e comunque nessuno si sarebbe sognato di farlo. Un esempio, fra i tanti: John Fitzgerald Kennedy era un impenitente donnaiolo. Per lui si riesumò addirittura un termine del teatro elisabettiano, womanize, ad indicare il suo svago prediletto nonostante fosse sposato e presidente degli Stati Uniti. Tutti ne erano al corrente, il servizio segreto che lo sorvegliava giorno e notte, il suo staff, l'Fbi ed anche i giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Ma nessuno - pur nella patria del giornalismo d'inchiesta, dei premi Pulitzer, della libertà di stampa ad ogni costo - scrisse mai una riga sui suoi incontri eccellenti né su quelli più oscuri ed anonimi. Perché? Perché il corpo sociale stava ancora al di qua di una certa soglia, e il giornalismo, che pure non risparmiava stoccate mortali al potere (non fu forse Walter Cronkite a seppellire il presidente Lyndon Johnson e a stroncare l'avventura americana in Vietnam in una memorabile corrispondenza televisiva?) ne era lo specchio o forse l'eco. Se dovessimo giudicare oggi la società italiana dal comportamento dei suoi media, il ritratto sarebbe raggelante: pensiamo a una tv che programma fin dal pomeriggio, laddove un tempo c'era solo la Tv dei ragazzi, una marea di imbecillità che hanno in comune solo il gossip, il turpiloquio, il nudo ossessivo e offensivo; pensiamo a gran parte della stampa quotidiana, che dai rotocalchi e dalle testate-spazzatura ha preso il vezzo di raccontare vizi, amori, malefatte come fossero le notizie più importanti alimentando un mercato che un tempo non esisteva. In fondo è una verità lapalissiana: se nessuno comprasse certi servizi fotografici a nessuna agenzia fotografica verrebbe in mente di commissionarli. Il lettore - si giustificano gli artefici di questo trend al ribasso - esige da noi queste notizie». Ma non è vero. La Bbc, il New York Times, Le Monde, Le Figaro, El Pais, la nuovissima al-Jazeera International - i migliori giornali del mondo, per capirci - fanno a meno di tutto ciò. E restano autorevoli, seguitissimi, popolari e soprattutto credibili. Anche senza gossip. Che strano.
«Avvenire» del 18 marzo 2007

Dal blog ai reality, l’adolescenza scrive i suoi romanzi

di Chiara Zocchi
L'essere umano. Quel mistero con due braccia e due gambe. Quel groviglio di capelli, vene, arterie e pensieri. Quell'ombra perennemente alla ricerca della forma corrispettiva reale, della quale non è altro che un'immagine gonfiata, storpiata, ondeggiante. E che esiste solo grazie al fascio di luce che è in grado di autoproiettarsi - oltre che di proiettare - semplicemente per il fatto che è la metafora di Dio. L'essere umano, dicevo… mentre il suo involucro si involve, mentre la sua pelle si accartoccia, mentre i suoi capelli e i suoi peli sbiadiscono fino a perdere tutto il pigmento, fino a indebolirlo di un elemento descrittivo cardine, tanto che un uomo con i capelli rossi e un uomo con i capelli neri invecchiando diventano due uguali uomini con i capelli bianchi. Mentre l'invecchiamento del corpo ci avvicina le fisionomie, rendendoci descrittivamente più simili. Tanto che persino il colore degli occhi con l'età tende ad ingrigire, affievolendo la luce che gli permetteva sia di essere visti che di accedere al visibile. L'essere umano, dicevo… mentre in quanto materia si involve, in quanto essenza si evolve. Mentre il suo-nostro «fuori» cresce-cresce-cresce-cr e ad un certo punto si ferma, incominciando lentamente a degradare, a sfaldarsi, a corrodersi, a corrompersi; mentre il limite della crescita fisica risulta visibile e fotografabile, quello della crescita meta-fisica è invisibile e difficilmente fotografabile. Se penso che sulla mia carta d'identità da circa 10 anni permangono invariati i 164 centimetri di altezza, e che, invece, da quasi trent'anni il mio spirito si evolve continuamente, seppur con delle pause, che si rivelano poi essere momenti di rincorsa da fermi, dopo i quali ci si ritrova sempre molto più avanti che se si fosse proceduto con un'andatura costante, mi rendo conto del perché sulla carta d'identità vengano descritti elementi più o meno stabili della nostra identità fisica (il colore degli occhi, dei capelli, l'altezza, i «segni particolari») e trascurati gli elementi dell'identità interiore (i pensieri, le idee, il linguaggio…). Se si dovesse fabbricare anche una carta d'identità per il «dentro», essa dovrebbe essere rinnovata con una tale frequenza che il suo solo supporto possibile sarebbe l'immateriale, la pagina web. Una specie di carta d'identità interiore sono i sempre più diffusi Blog, ovvero «diari in rete», il cui «lucchetto» è costituito da una password personale con cui vi si accede e i cui contenuti sono aggiornabili (modificabili) in qualsiasi momento del giorno e della notte. Il termine Blog nasce dalla contrazione dei termini Web e Log, ovvero «traccia (di pensiero) su rete». E coloro che li utilizzano sono definiti «blogger». Il blogger è qualcuno che scrive e che, scrivendo, è come se fotografasse il suo stato interiore. Il diario è un mondo in cui sembra non avvenire nulla, in cui l'intorno può essere dissolto, in cui l'io è talmente messo a fuoco da sfocare il resto del mondo. Il diario è anche la nascita del romanzo moderno, in cui il protagonista è l'io, la cui presenza, la cui «voce» sono così potenti da rendere insignificanti l'azione e la descrizione. Leggere un diario è un po' come ascoltare la radio. È l'esigenza del nulla intorno. Ma il romanzo moderno pare giunto al suo funerale. E in Italia ne stanno decretando la morte i romanzi che conquistano gli occhi che amano andare da sinistra a destra, e poi giù, di riga in riga. Ultimo fra tutti il caso - che mi rifiuto di ignorare - di Federico Moccia. Autore di libri che non sono più paragonabili alla radio, ma piuttosto alla televisione e ai suoi reality show, il cui contenuto è il frutto di un'osservazione e di un ascolto di una parte cronologica della società (il mondo degli adolescenti), mostrato senza alcun filtro dell'autore, che sembra semplicemente trascrivere, come fosse un osservatore in trance davanti ad un mondo improvvisamente vuoto. Improvvisamente svuotato (di senso). Nel quale avvengono cose banali, che però rivendicano il loro diritto di essere raccontate.
«Avvenire» del 18 marzo 2007

In fuga dalle PP. AA.

«Exit» e «Voice»:la doppia proposta del giuslavorista Pietro Ichino per salvare i servizi pubblici italiani. Quando si può (scuola, sanità) dobbiamo puntare alla possibilità di scegliere, creando vera concorrenza.Altrimenti, è ora di alzare la voce
Di Pietro Ichino
Pretendiamo, negli enti finanziati con i soldi di tutti, il modello del Nord Europa: totale trasparenza su costi, attività, persone. Invocare il segreto è autoritarismo, non tutela della privacy
Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni Novanta della nostra amministrazione pubblica? Quando, nel 1993, si è esteso quasi interamente il diritto del lavoro privato al rapporto di impiego pubblico, si è definita meglio la distinzione tra indirizzo politico e responsabilità di gestione e si è sancita la natura contrattuale del rapporto, attivando l'autonomia negoziale delle parti. Si è sancita la responsabilità dei dirigenti per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal potere politico, e si è affidato a quest'ultimo il compito di controllare che tali obiettivi venissero effettivamente conseguiti.
La disciplina del rapporto di lavoro pubblico è stata così quasi del tutto parificata rispetto a quella vigente nelle aziende private. Non si è, però, tenuto adeguatamente conto del fatto che nel settore pubblico manca per lo più la "molla" potentissima che muove il dirigente privato, vale a dire la concorrenza tra operatori diversi, che consente la dura sanzione del mercato contro l'inefficienza: una "molla" che il potere politico, per sua natura, non è capace di sostituire con l'esercizio di un controllo rigoroso e imparziale. Nel mercato l'utente/cli-ente/consumatore sanziona l'inefficienza rivolgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman chiama l'opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi sentire, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l'opzione voice. Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta nel fatto che non si concede al cittadino nessuna delle due opzioni: né exit, né voice. La voice contro l'inefficienza dovrebbe essere esercitata dalla cittadinanza attraverso i propri rappresentanti politici, che purtroppo però tendono a interferire con l'amministrazione per fini del tutto diversi da quelli del miglioramento della sua efficienza.
Quando la libertà di scelta dell'utente sia effettiva, siano ci oè garantite concorrenza aperta tra operatori e simmetria di informazione, l'opzione exit costituisce una grande garanzia di equità e di benessere per l'utente medesimo. Dovunque sia possibile offrire al cittadino questa opzione, in un settore dei servizi pubblici, si può attivare uno stimolo assai efficace nei confronti della dirigenza.
Una libertà di scelta effettiva oggi è offerta all'utente, in qualche misura, nel settore dell'istruzione e in quello della sanità; ma potrebbe essere offerta anche altrove, e in modo assai più esteso e incisivo. Se, per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università avvenisse interamente attraverso il sistema dei voucher (previa abolizione del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scelgono male i professori, o comunque dove si insegna poco e male, sarebbero costretti a chiudere; e se, nell'istituire tale sistema, si attribuisse ai rettori e ai presidi una piena discrezionalità nella selezione e nella gestione delle risorse, allora li vedremmo assai più e meglio mobilitati di quanto non siano oggi per scegliere i professori migliori, e per stanare quelli inerti dalle loro nicchie; li vedremmo attivarsi per sanzionare gli assenteisti e allontanare gli incompetenti, per spostare le persone di cui dispongono dove sono più utili e non dove fa loro più comodo.
Nel rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini si possono introdurre anche altri meccanismi di mercato che diano agli utenti, almeno in parte, un'opzione exit: per esempio, si possono mettere gli sportelli che offrono uno stesso servizio (anagrafe comunale, rinnovo della patente di guida, rinnovo del passaporto) in concorrenza tra loro, attribuendo un premio agli addetti allo sportello che riesce a dimostrarsi più efficiente.
In molti settori dell'amministrazione pubblica, però, i meccanismi "di mercato" non si possono introdurre. Per esempio, se un corpo municipale di vigili urbani funziona male, non è possibile consentire ai cittadini di avvalersi di un altro corpo di vigilanza concorrente, né premiare con un maggiore flusso di risorse un servizio alternativo.
Dare voce al cittadino-utente presuppone, innanzitutto, che egli sia compiutamente informato. Il panorama internazionale ci offre su questo terreno molte esperienze di grande interesse: per esempio nel settore scolastico, in quello della formazione professionale, in quello dei servizi nel mercato del lavoro, dove da decenni ormai vengono sperimentati e affinati metodi e tecniche di rilevazione degli indici di efficienza ed efficacia dei servizi. Le associazioni degli utenti, i giornalisti specializzati e i centri di ricerca, quando dispongono dei dati necessari, si sono dimostrati capaci di controllare l'efficienza e produttività delle strutture pubbliche. Questa capacità costituisce una risorsa preziosa, un grande "tesoro nascosto" che può essere attivato e utilizzato dalle amministrazioni pubbliche a costo zero: basta imporre il principio della totale accessibilità dei dati. Introdurre questo principio anche nel nostro sistema potrebbe avere un effetto tonificante straordinario.
Immaginiamo, per esempio, che in una grande città venga garantita la totale disponibilità, per chiunque vi sia interessato, dei dati analitici sul funzionamento del servizio di vigilanza urbana: le retribuzioni degli agenti, gli orari di lavoro, le mansioni effettive, le assenze e i motivi che le giustificano, quanti vigili si occupano del commercio, quanti del traffico, quante contravvenzioni ciascuno di questi ultimi ha verbalizzato, quante e quali sanzioni disciplinari sono state irrogate, per quali mancanze, e così via.
Immaginiamo poi che una volta all'anno l'organo di controllo comunale sia tenuto a confrontare in un dibattito pubblico le proprie valutazioni con quelle espresse dalla società civile: solo allora si incomincerebbe a scoprire e a misurare con precisione, per esempio, di quanto l'impegno di alcuni vigili sia maggiore di quello di altri, di quanto il tasso di assenteismo e quello di vigili imboscati negli uffici sia superiore a quelli che si registrano nelle altre città europee, se e quanto le promozioni siano in rapporto con il merito effettivo, quanto più raro sia vedere un vigile in un quartiere periferico della città rispetto al centro, quanto sia difficile ottenere l'intervento di un vigile in piena notte, quanto e quando sia esercitato effettivamente il potere disciplinare, quale sia il tasso di soddisfazione della cittadinanza per il servizio e tanti altri dati importanti. A quel punto anche gli obiettivi di miglioramento del servizio, invece che essere negoziati tra potere politico e management nel chiuso di un ufficio, potrebbero essere discussi pubblicamente e decisi dall'autorità politica sotto il controllo effettivo della cittadinanza.
Oggi i nostri ricercatori possono accedere a tutti i dati relativi alle amministrazioni della California o della Svezia, ma non a quelli relativi alle amministrazioni italiane, che si tratti della vigilanza urbana o della giustizia, di personale sanitario o docente. Da noi vige di fatto il principio esattamente contrario a quello della trasparenza; la prassi (giuridicamente infondata) è quella del segreto. Questo viene sovente giustificato con la protezione della privacy degli addetti al servizio, ma il principio della privacy qui non c'entra per nulla: il riserbo con cui si occultano i dati analitici sul funzionamento delle nostre amministrazioni risponde semmai all'antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii, che da sempre protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti. Oggi da noi esso protegge le posizioni di rendita diffusamente annidate nelle pieghe del pubblico impiego, a cominciare da quelle dei dirigenti negligenti o inetti. In un regime veramente democratico, invece, deve potersi conoscere tutto.

«Avvenire» del 20 marzo 2007

Un'altra economia: parola di Yunus

Incontro con il premio Nobel per la pace fondatore del microcredito, intervenuto ieri all'Università Roma Tre
di Paola Springhetti
«I poveri sono come i bonsai, non hanno il terreno, lo spazio per crescere; ma la povertà si può debellare. Ed è un compito del libero mercato»
Riusciremo a mettere la povertà in un museo, dove le future generazioni andranno a vedere una cosa che non esiste più, e inorridiranno a scoprirne la passata esistenza? Uno che ci crede, nel fatto che la povertà possa essere definitivamente sconfitta, è Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, noto in tutto il mondo come fondatore della Grameen Bank e inventore del microcredito: uno strumento di lotta alla povertà che consiste nel fornire ai poveri prestiti piccoli, ma sufficienti per avviare piccole attività di lavoro autonomo e imprenditoriale. La sola Grameen Bank ha concesso 7 milioni di prestiti ad altrettanti poveri (il 97% dei quali donne), ma il modello è stato esportato in tutto il mondo, anche in Italia, dove già esiste ma avrebbe bisogno di un maggiore sviluppo.
Yunus ieri era a Roma per una lectio magistralis all'Università degli Studi Roma Tre, e ha appassionatamente ripetuto che la povertà si può sradicare, se lo si vuole, perché in fondo i poveri sono come i bonsai: non hanno il terreno, lo spazio per crescere. Se glielo dai, ci penseranno da soli, a cambiarsi la vita.
«Molti problemi del mondo, incluso quello della povertà», spiega Yunus, «persistono ancora oggi a causa di una interpretazione restrittiva del capitalismo: quella che parte dal presupposto che gli imprenditori sono esseri umani ad una dimensione, che hanno un unico obiettivo: massimizzare i profitti. Questa interpretazione esclude gli imprenditori da tutte le altre dimensioni della loro vita: politica, emotiva, sociale, spirituale, ambientale che sia. Il successo del libero mercato ci ha spinto a fare di tutto per trasformare noi stessi negli uomini unidimensionali definiti dalle teorie».
Se si prende coscienza di questo, si sentirà il bisogno di cambiare il carattere del capitalismo: «Dobbiamo imparare a risolvere all'interno della logica del libero mercato molti dei problemi sociali ed economici a tutt'oggi irrisolti. Dobbiamo cioè supporre che l'imprenditore invece che un u nico obiettivo (massimizzare i profitti), ne abbia due: il profitto, ma anche rendere migliore il mondo e la gente. Questo porta a un nuovo tipo di business: il social business».
Una specie di capitalismo non profit, se così si può dire, in cui «chi investe nel social business può rifarsi del capitale investito, ma non prenderà dividendi dall'azienda. Il profitto sarà reinvestito in essa perché possa ampliare e migliorare la qualità dei servizi». Qualcosa di molto simile alle nostre imprese sociali, parrebbe, ma capace di diventare modello generale: «Una volta che il social business sarà riconosciuto dalla legge, molte delle attuali aziende creeranno attività di questo tipo che andranno a sommarsi a quelle per cui sono nate. E molti attivisti del terzo settore saranno attratti da questa possibilità: invece di un terzo settore perennemente impegnato a raccogliere fondi per sostenere le proprie attività, avremo un mondo in grado di autosostenersi, e anzi di creare le risorse per espandersi».
All'interno del social business, comunque, si colloca anche un altro modello: quello delle aziende profit ma controllate dai poveri. Anche la Grameen Bank rientra in questa categoria. «Chi ha ricevuto un prestito», dice ancora Yunus, «compera un po' di azioni, e non può venderle a chi non abbia beneficiato dei prestiti. Nei Paesi in via di sviluppo, i donatori potrebbero facilmente creare questo tipo di social business: quando donano una somma per costruire un ponte, ad esempio, potrebbero creare una "azienda del ponte" posseduta dai poveri del luogo, e con i profitti si potrebbero altre infrastrutture. Perché il social business possa svilupparsi adeguatamente, poi, bisognerebbe creare un social stock market, agenzie di rating, una terminologia adeguata, corsi di formazione per manager, e anche pubblicazioni finanziarie specializzate».
Grameen ha già creato in Bangladesh due aziende di questo tipo: una fabbrica di yogurt, insieme alla Danone, per i bambini malnutriti, e una c atena di centri per la cura degli occhi.
Gli ambiti in cui il social business potrebbe essere attivo sono molto ampi: la salute per i poveri, i servizi finanziari, le tecnologie informatiche, l'educazione e istruzione sempre per i poveri, oltre che le energie rinnovabili…
Ci sarebbe un'obiezione possibile: non spetta al secondo settore, cioè al pubblico, la risposta ai bisogni fondamentali, come la salute? «In questo la maggior parte dei governi del Terzo mondo ha fallito. Il primo settore, cioè il privato, potrebbe fare di più. Ma il profitto personale su cui il primo settore si fonda ha una propria agenda, che entra in conflitto con l'agenda a favore dei poveri, delle donne, dell'ambiente». È per questo che è arrivato il momento di globalizzare quello che in Italia chiameremmo privato sociale.
«Avvenire» del 20 marzo 2007

Una cura per l'Onu malata

Lo storico inglese Kennedy al capezzale delle Nazioni Unite:l’architettura del ’45 è inadeguata alle nuove sfide della «governance» planetaria
di Edoardo Castagna
Assurdo che oggi la Francia conti ancora più di India e Brasile insieme e che ci siano diritti di veto paralizzanti. Occorre riformare, ma anziché grandi (eutopistici) piani meglio piccoli passi
Il malato è grave, ma curabile. L'Onu così com'è non funziona - e forse porta più danno che guadagno -, ma non è ancora il momento di rottamarlo: spazi per una sua riforma, o meglio per una serie di riforme, ce ne sono ancora. Diagnosi e prognosi sono di Paul Kennedy, lo storico inglese che nel suo Il parlamento dell'uomo passa in rassegna, attraverso una serie di casi esemplari, l'attività delle Nazioni Unite dal 1945 a oggi. Sotto la sua lente soprattutto le operazioni di pace condotte negli ultimi quindici anni; dai loro ripetuti fallimenti, parziali o totali, Kennedy cerca di trarre qualche indicazione sui punti di forza già esistenti e sulle possibili innovazioni da innestare sul malandato tronco dell'Onu. Alla fine quella che distilla non è «la» medicina, l'idea risolutiva che trasformerà il pachiderma del Palazzo di vetro nel grande attore del governo mondiale del XXI secolo, ma piuttosto un piano di cura composito e fatto di piccoli passi, apparentemente poco incisivi - e perciò spesso già rigettati da quanti auspicano un radicale rinnovamento dell'Onu - ma gli unici verosimilmente percorribili, nelle condizioni attuali. La cosa da fare subito, per Kennedy, è chiarirsi le idee su quali siano le ragioni che dovrebbero costringere l'Onu a riformarsi. La prima osservazione è quasi banale, ma non per questo è stata finora capace di far breccia al Palazzo di vetro: oggi gli equilibri di potere non sono più quelli del 1945. Il diritto di veto concesso ai cinque vincitori della Seconda guerra mondiale - Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia - nel 2007 non solo è anacronistico, non solo perpetua l'umiliazione degli sconfitti e delle ex colonie, ma paralizza l'Onu. La piccola Francia conta più di India e Brasile messi insieme, per non parlare della condizione da mezzi paria che ancora relega in secondo piano l'ex Asse di ferro (Italia, Germania, Giappone). Storicamente, l'escamotage dei diritti particolari per le grandi pot enze ha avuto un senso - impedire loro di sfilarsi o paralizzare il sistema internazionale, come accaduto negli anni Trenta -, ma escludere dalla stanza dei bottoni tanti Paesi che pesano davvero, oggi, condanna all'irrilevanza le Nazioni Unite. L'impasse è evidente a tutti e i progetti di riforma non mancano; anzi, ce ne sono troppi, frutto di ambizioni incompatibili le une con le altre e che finiscono, di fatto, per annullarsi a vicenda. C'è chi punta il dito sugli sprechi e le inefficienze della miriade di agenzie che fanno capo all'Onu, e vorrebbe sforbiciare costi e dipendenti; chi invece progetta una riscrittura da capo a piedi della Carta delle Nazioni Unite - processo che richiede un'improbabile convergenza dei due terzi dell'Assemblea generale e, naturalmente, dei Paesi con diritto di veto. Anche in settori più ristretti, come la riforma del Consiglio di sicurezza, si va dagli immobilisti assoluti che vorrebbero che nulla mutasse, alla bagarre di quanti reclamano per sé un posto al sole. Impedendo, di fatto, ogni passo avanti: la Cina non vuole concedere né il diritto di veto né un seggio permanente al Giappone, Francia e Gran Bretagna non abdicherebbero volentieri a un seggio dell'Unione europea, l'Italia si oppone alla Germania, il Pakistan all'India, l'Argentina al Brasile, la Nigeria al Sudafrica, tutti i "piccoli" a tutti i "grandi"... Lo storico inglese propone allora di tenere una via media, fatta di «una serie di cambiamenti incrementali e pratici, proposte che siano del tutto ragionevoli e non costituiscano una minaccia per nessun governo». Per coordinare il tutto e dettare la linea, Kennedy suggerisce di tenere ben presenti le effettive esigenze del mondo di oggi. Le sfide, ineludibili, che si trova davanti ogni progetto di governance mondiale si chiamano riscaldamento globale, industrializzazione selvaggia dell'Asia, terrorismo internazionale: questioni nemmeno ipotizzabili nel 1945, davanti alle quali gli strumenti approntati allora risultano inservibili. L'Onu nacque ancorato agli Stati-nazione, eppure oggi «deve trovare il modo - scrive Kennedy - di gestire gli Stati in dissoluzione. Come hanno dimostrato gli eventi accaduti in Bosnia, in Africa occidentale, in Somalia, in Afganistan e in molte altre regioni del mondo, non è un compito facile». Il Consiglio di sicurezza potrebbe essere non stravolto, ma soltanto ampliato un po', conservando il principio della rotazione, magari prorogando i termini del mandato. Sul decisivo fronte del peacekeeping, e in attesa delle sempre auspicate forze armate internazionali, utili potrebbero essere le più semplici creazioni di una centrale di intelligence Onu e di un coordinamento dei vari interventi nelle aree di crisi. Facendo attenzione, soprattutto, al «servizio post operatorio», al sostegno delle società civili anche dopo la rimozione dei «cattivi» e l'interruzione degli scontri armati. È proprio quanto è mancato fin qui, da Haiti a Timor Est e, potenzialmente, anche in Afganistan e in Iraq. «Perciò - conclude Kennedy - le pur dolorose esperienze degli ultimi quindici anni ci insegnano a diffidare dell'uniformità. Suggeriscono piuttosto un approccio variegato».

Paul Kennedy, Il parlamento dell'uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Garzanti. Pp. 444; € 25,00

«Avvenire» del 17 marzo 2007

16 marzo 2007

Liberi o condizionati?

Parte prima l’impulso elettrico che regola i nostri movimenti o l’input della nostra volontà? Studi recenti erodono l’idea di libero arbitrio. Ma alcuni studiosi non sono d’accordo
di Andrea Lavazza
De Caro: «L’esperimento di Libet è parziale e dà per scontate troppe cose» Tagliasco:«È un errore identificare l’individuo col suo cervello» Possenti: «È il tarlo di Cartesio»
Poniamo che vi vengano messi degli elettrodi nel cervello (niente paura, una volta forato il cranio, non si sente dolore, la materia grigia è "insensibile") e si registri l'attività elettrica localizzata che accompagna una funzione esecutiva, ad esempio prendere il bicchiere che sta davanti a voi. Niente di strano, sarà compito degli studiosi decifrare i risultati delle rilevazioni. Ma poniamo che vi si chieda anche di guardare uno speciale orologio e di dire il momento esatto in cui decidete di muovere il braccio, quella frazione di secondo nella quale è come se diceste ora prendo il bicchiere e contemporaneamente l'arto si solleva. Se il neuroscienziato che vi esamina avesse già scoperto che la consapevolezza di una stimolazione (una piccola scossa) compare solo dopo 500 millisecondi dal suo inizio, benché noi reagiamo istintivamente (e inconsciamente) anche in modo molto più rapido, allora andrebbe subito a controllare se quel ritardo non compaia anche nell'esperimento in questione. E la risposta, per Benjamin Libet, è positiva. In altre parole, «le attività cerebrali che danno inizio a un atto volontario cominciano molto prima che la volontà cosciente di agire sia adeguatamente sviluppata». «Molto prima» significa 400 millisecondi, mentre al soggetto ne restano un centinaio per "fermare" l'intenzione. Intervalli rilevabili solo con apparecchiature sofisticate, ma capaci di dare un colpo se non mortale certo assai duro al nostro concetto di libero arbitrio. Ci rimarrebbe solo la capacità "negativa" di bloccare un'intenzione che sorge in modo automatico dai nostri neuroni. Gli esperimenti condotti da Libet nei primi anni Ottanta sono ormai diventati un classico (seppur assai contestato) delle neuroscienze, finendo poi con l'influenzare la riflessione filosofica sull'argomento. L'idea che la libertà del volere sia un'illusione, come si intitolano alcuni libri pubblicati recentemente in ambito anglosassone, viene anche di qui. Ora diventa disponibile in italiano il volume divulgativo in cui l'autore (professore emerito alla University of California di San Francisco) riassume le sue ricerche (Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, pp. 246, 23,80 euro). Un'occasione per riaccostarsi a uno dei «temi più intrattabili», qual è spesso definito il libero arbitrio. «Se si prende per buono l'esperimento del ritardo della consapevolezza, le conclusioni per la nostra libertà sono sconfortanti, ed anche per ciò che da essa dipende: responsabilità morale e dignità della vita - spiega Mario De Caro, docente di Filosofia a Roma Tre e autore di diversi studi in materia -. Il punto è che la metodologia dell'esperimento risulta parziale, implica che libero arbitrio equivalga a essere sempre consapevoli di ciò che facciamo e, soprattutto, presuppone un riduzionismo degli eventi mentali agli eventi cerebrali». Un'obiezione quasi banale, che è stata mossa fin dal principio, è che le persone coinvolte nell'esperimento in effetti agiscono liberamente seguendo, a loro piacimento, l'indicazione di muovere il braccio entro un certo intervallo di tempo, anche se poi pare registrarsi un breve sfasamento tra l'attivazione neuronale e la consapevolezza. «Mi sembra che a volte i neurofisiologi discettino di cose che non conoscono usando implicitamente un argomento retorico ad hominem: ovvero, siamo autorevoli in un campo specialistico, possiamo parlare anche di libero arbitrio - attacca Vincenzo Tagliasco, che all'università di Genova è titolare della prima cattedra italiana di Coscienza ed emozioni -. Dal punto di vista psicologico si compiono azioni senza avvertire in modo consapevole un'urgenza, un desiderio o un'intenzione. L'essere umano non è il suo cervello, ritenere che lo sia comporta una fallacia». Concorda Vittorio Possenti, docente di Filosofia morale a Venezia: «La posizione di un'antropologia non materialistica è che la libertà del volere non può determinarsi con un esperimento scientifico. Se si nega l'e lemento spirituale volitivo - che non equivale alla separazione tra mente e corpo di Cartesio -, non c'è spazio che per l'assoluto determinismo delle cause fisiche». E aggiunge: «Si introduce un assunto riduzionistico basato sul postulato che soltanto la scienza empirica conosce (e l'ontologia viene quindi privata di legittimità)». Per non rinunciare a un dato che al senso comune sembra indubitabile ed è essenziale per come concepiamo la nostra vita, si può tornare alla prospettiva kantiana. «Secondo il grande filosofo - spiega De Caro -, esistono due modi di vedere l'essere umano: oggetto di natura, per cui vale il determinismo della fisica; ed ente libero, che può cominciare nuove catene causali. Sono due schemi concettuali non collegati che, se entrambi corretti, paiono tuttavia confliggere. Ma non ogni scienza particolare (ad esempio, la biologia) deve tendere all'unità e uniformarsi al riduzionismo che riporta tutto alla fisica». «La posizione che definirei polare sostenuta da Tommaso d'Aquino (l'anima come forma del corpo, con un'unità dell'atto di esistenza) può risolvere il dilemma del libero arbitrio, che si gioca tra intelletto e volontà - precisa Possenti -. E nelle scelte morali il volere ha l'ultima parola sulle valutazioni dell'intelletto». Le neuroscienze alla Libet, però, mettono in discussione proprio l'idea dell'autonomia del mentale. «Prove della "spiritualità" della mente (come la capacità del pensiero di attingere concetti universali, mentre la materia è sempre individuata) a parere di molti hanno ancora validità», ribatte Possenti. «Il rischio - da me direttamente sperimentato, sia con i miei figli, sia con i miei allievi - è che gli studenti facciano propria una visione semplificata dell'uomo, in cui le neuroscienze pretendono di avere già spiegato tutto, mentre moltissimo resta ancora da chiarire», sottolinea Tagliasco. Eppure molti eminenti ricercatori stanno alzando il velo sui meccanismi che presiedono alle nostre sensazioni e ai nostri c omportamenti. «Sì, producono studi elegantissimi, ma il modo di vedere la realtà dal laboratorio non può essere l'ultima parola». Liberi di crederci o meno ...
«Avvenire» del 14 marzo 2007