14 febbraio 2007

«Vendette, sangue, esecuzioni: il lato oscuro dei partigiani»

Il nuovo libro di Guccini
di Cazzullo Aldo

«La trama è questa: c’è un partigiano comunista, delle Brigate Garibaldi, che viene giustiziato da altri partigiani comunisti, accusato di un delitto - un efferato omicidio: una questione privata, ma anche politica - che forse non ha commesso. Santovito, il personaggio che ho inventato con Loriano Macchiavelli, alla sua ultima avventura deve scoprire se il giustiziato era o no innocente. Trova una lettera, che lo riporta agli ultimi mesi di guerra ». Il prossimo giallo di Francesco Guccini, Tango e gli altri, esce mercoledì prossimo da Mondadori. Una discesa agli inferi dell’inverno tra il 1944 e il ‘45 sull’Appennino. «Ci siamo documentati in modo scrupoloso. Abbiamo ascoltati i superstiti della Resistenza. Ci siamo imbattuti in storie molto aspre. Un vecchio partigiano mi ha raccontato di due compagni fatti ammazzare per aver rubato un prosciutto e qualche bottiglia d’olio. E anche "Lupo" Musolesi, l’eroe di Marzabotto cui è dedicata la strada qui dietro che fa angolo con via Paolo Fabbri, tenne appeso un compagno a un palo perché aveva portato via una bottiglia di liquore. È che in quel periodo c’era di tutto. Efferatezze da entrambe le parti. A volte dettate dalla fame; il che spiega l’atteggiamento dei contadini, la rabbia e la paura per "‘sti ladri", indispettiti com’erano dalle requisizioni, magari in cambio di un buono che chissà se sarebbe stato mai onorato. Testimonianze che incrociano i miei ricordi personali. Anni fa, sull’Appennino, una mia amica mi mostrò il tavolo di casa ancora bucato dai proiettili: suo padre, partigiano, era stato ucciso da altri partigiani sbandati dopo la guerra. Sono calati in branco, hanno immobilizzato tre o quattro carabinieri, hanno fatto razzia, sparso il panico in tutto il paese e sono fuggiti. Ma li hanno presi». Ovviamente, Guccini non ha scritto un libro contro la Resistenza. «Io combatto il revisionismo. Leggo Bocca, non Pansa. Non penso affatto sia in malafede, ma considero i suoi libri inopportuni, in un momento in cui un tribunale dà torto a Rosario Bentivegna e dà ragione all’esponente di An che lo addita come il vero colpevole delle Fosse Ardeatine. Ma i libri scritti da chi stava dall’altra parte li ho letti, eccome. Conosco i testi di Pisanò: l’elenco delle vittime che ne viene dato è impressionante. Ho letto Tiro al piccione e A cercar la bella morte. Ma anche Guareschi parlava sempre delle vendette partigiane. Non ignoro che ci sono state davvero. In quella guerra c’era di tutto. Cani e porci, come si dice. I partigiani non erano mica tutti paladini di Francia; e, come oggi in Libano, non bastò dire di deporre le armi per farle tacere. A chi piange su piazzale Loreto ricordo che il corpo del Duce fu portato là non per caso, ma perché là erano stati appesi i corpi dei partigiani. Alcune vendette furono conseguenza della guerra civile. Poi c’erano le bande che si comportavano come criminali comuni. E c’erano partigiani che avevano masticato rivoluzione fine al giorno prima e volevano cominciarla davvero, eliminando i nemici di classe, nonostante le indicazioni della segreteria del Pci: perché Togliatti sapeva bene che la rivoluzione in Italia non si poteva fare». Il racconto di Guccini non sposta di una virgola il giudizio morale su chi avesse torto e chi avesse ragione; però non concede nulla all’ipocrisia, alla retorica, all’occultamento della realtà. «Certo, finita la guerra c’è stata un’esaltazione troppo forte della Resistenza. Che però è stata un fenomeno importantissimo, nel bene e anche nel male. È stato creato un mito, ad opera del partito comunista. Ma per diverse buone ragioni». Una minoranza di resistenti salvò l’anima della nazione e consentì alla maggioranza di non fare i conti sino in fondo con il passato fascista. «Da ragazzo rimasi molto colpito sfogliando un numero di Life. C’era la foto di maquisard francesi con una pistola con cui eliminavano un collaborazionista. Però nessuno in Francia si pone oggi la questione se il maquis avesse ragione o torto: anche perché dall’altra parte c’era Hitler. I partigiani del nostro libro assomigliano a quelli dello scrittore che secondo me ha raccontato in modo più fedele la Resistenza, Beppe Fenoglio». Hanno nomi immaginifici ma non lontani da quelli reali: Tango, appunto; e poi Lepre, Autiere, Calabrese, Ballerina. Il presunto omicida che viene giustiziato si chiama invece Bob. «Nella zona combattevano le brigate Matteotti di montagna, comandate dal capitano Antonio Giuriolo, nome di battaglia Toni, un veneto amico di Meneghello, lo scrittore. Morì nel tentativo di soccorrere un ferito. Da Montefiorino scesero gli uomini di Armando, della Garibaldi. Poi c’erano quelli di Giustizia e Libertà, tra cui Enzo Biagi. I lanci per i garibaldini non arrivavano mai. Così a volte si arrangiavano da sé: arrivavano a mitra spianati e portavano via la loro parte. Ho chiesto come avvenissero le esecuzioni, se fosse un plotone a sparare. Mi hanno risposto che non avevano certo munizioni da gettar via. Bastava un solo partigiano, con una sola raffica, cui seguiva il colpo di grazia». «Sul confine orientale accadde di peggio. Conosco bene, e non da oggi, la tragedia di Porzus, dove partigiani comunisti uccisero altri partigiani tra cui il fratello di Pasolini e lo zio di Francesco De Gregori, che ne porta il nome. È una vicenda che incrocia quella delle foibe: crimini del nazionalismo slavo su cui a lungo è calato il silenzio per ragioni politiche e diplomatiche. Da ragazzo ho fatto il militare a Trieste, ricordo l’odio per gli "sciavi", gli sloveni che di notte tracciavano scritte minacciose nella loro lingua sulla nostra caserma. E ricordo che i comunisti bolognesi diffidavano dei profughi istriani come di gente che aveva rifiutato Tito; una volta un loro treno fu bloccato in stazione, non volevano lasciarli proseguire». Non ci sono pentimenti o ripensamenti nell’ultimo libro di Guccini, tanto meno nelle sue riflessioni. Ma se il cantautore forse più coerente nel rivendicare da sempre l’appartenenza alla sinistra ambienta il suo ultimo giallo nei giorni ora gloriosi ora oscuri della guerra partigiana è segno che per gli intelletti liberi nessun argomento oggi è tabù, neppure quelli destinati ad aprire discussioni. Di tanto in tanto, Guccini si riserva alcuni interventi nella vita politica, come quando nel 2004 ha portato il futuro sindaco Cofferati in giro per il suo quartiere, la Cirenaica, o all’ultima lezione del Mulino ha incoraggiato Prodi con il triplice «resistere» coniato da Borrelli. Ma ha sempre tenuto separata la politica dalle canzoni, e dai romanzi. La «fiaccola dell’anarchia» della Locomotiva, spiega, è una suggestione sentimentale e letteraria, non un’adesione politica. «Prodi un vecchio democristiano? Sarà, ma non mi dispiace affatto. Deve avere una pazienza infinita, visti gli alleati con cui ha a che fare... dall’altra parte però c’è Berlusconi». Le rimprovereranno che questo libro è pubblicato da lui. «Una volta il mio editore era Feltrinelli. Ma mi dissero che i gialli non interessavano. La Mondadori mi ha sempre trattato benissimo. E poi a dirigere gli editor non c’è di sicuro Berlusconi».
«Corriere della sera» dell’11 febbraio 2007

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