14 febbraio 2007

Quella selva di telecamere dice la nostra impotenza

I campi di calcio e le ricette illusorie
di Marina Corradi

In questa domenica di stadi sbarrati, e, fuori, le bande dei ragazzi del tifo organizzato; mentre pare affermarsi l'idea che, quando i campi da gioco saranno "in regola", la violenza attorno al calcio sarà risolta o almeno sotto controllo, sorge un dubbio, di fronte alle cronache italiane degli ultimi mesi. Perché, davanti ai sedici o diciassette anni degli accusati dell'omicidio di Catania, la risposta partorita dal "sistema" pare fondamentalmente consistere nel mettere telecamere, tornelli, sbarramenti divisori in tutti gli stadi? Interventi necessari, ma l'aspettativa diffusa che si avverte - come se sotto quella rete di controllo, sotto quegli "occhi" che registrano ogni gesto, tutti dovessero diventare bravi - sembra illusoria. E somiglia a quelle risposte frettolose che si danno ai problemi più gravi, quando non li si vuole, in fondo, nemmeno ammettere. Stadi chiusi contro i giovani ultrà; e, a Napoli, dopo l'omicidio di un sedicenne si ipotizza il coprifuoco per i minorenni, oltre una certa ora della notte. Violenze compiute da ragazzi che pochi anni fa avremmo chiamato bambini spingono il dibattito sull'abbassamento dell'età per l'imputabilità. E l'uso delle telecamere dei cellulari a riprendere vittime impotenti, anche fra i banchi, porta all'idea di vietare i telefonini a scuola. Ovunque emerga un'ansia di violenza tra adolescenti, la prima risposta, e spesso anche l'unica, pare essere: vietare, chiudere, proibire. Arriviamo con qualche anno di mediterraneo ritardo a un vago sentore della "tolleranza zero" del Blair degli anni Novanta. A fronte di scoppi di una distruttività che ci sbalordisce, perché a quell'età noi giocavamo ancora, quasi un istinto collettivo di difesa degli adulti insorge: vietare, proibire, sbarrare. E forse, almeno in certe emergenze, è inevitabile. Purché non ci si racconti che è la soluzione. Perché vietare è una cosa, educare tutt'altra. Le telecamere puntate sui nostri figli non dicono forse della nostra impotenza? Il segno non di una società efficiente e "regolata", ma di un mondo che si è dimenticato di dare, ai propri figli, le ragioni e il senso del vivere: quella spinta che ogni generazione dà all'altra, quella direzione di un oltre migliore, verso cui sia desiderabile, e magari appassionante, andare. I padri reduci dalla guerra hanno indotto i figli a ricostruire l'Italia; i figli di quei figli hanno radicalmente contestato il mondo ricevuto, ma anche nelle derive più drammatiche mostravano ancora una volontà di agire sulla realtà, di cambiarla con la energia dei propri vent'anni. I figli dell'oggi, paiono tranquilli, pacifici eredi di un mondo appagato. Salvo improvvise esplosioni di una violenza che non tende a nulla, solo a annichilire. Come un'energia negata e repressa, che non trovi il canale in cui allargarsi pianamente. Come se nessun padre avesse detto a questi figli il senso buono dell'alzarsi al mattino, lavorare, studiare. E in mancanza di un senso in tanti girassero disorientati su se stessi, annoiati di tutte le cose che hanno in mano. Ogni tanto, come colti da una rabbia strana, spaccando, picchiando, in un vandalismo di cui il giorno dopo non sanno dar ragione. Chiudiamo, puntiamo occhi elettronici su stadi e locali, mettiamo vigili e agenti ovunque, a controllare. Ma mille vigili che dirigono il traffico, scrisse Eliot, non dicono ai viandanti dove andare, e perché.
«Avvenire» dell’11 febbraio 2007

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