27 febbraio 2007

Perché Dio abita in alto

Le fedi hanno sempre collocato i luoghi sacri sulle vette: per indicare trascendenza o distacco? Uno scrittore non credente e un teologo a confronto
Erri De Luca: «Di fronte alla roccia si riconosce la nostra friabilità»
«Ma nella Bibbia le montagne non sono stabili, per non farne idolo: solo l’Onnipotente può dare rifugio»

Le montagne sono al loro posto da prima di noi e dureranno dopo la scomparsa della nostra specie. Di fronte alla loro consistenza si riconosce meglio la nostra friabilità. Solo le ossa, nostra dotazione minerale, tentano imitazione.
Vado alle montagne per approfondire il sentimento di essere un intruso del pianeta, il contrario del possidente. Mi aiuta l'origine meridionale, residenza di vulcani e scosse periodiche, maestre di tarantella e di precarietà. Quando il suolo si mette a friggere come il sole nella costellazione del Leone, si sta tra due fuochi. Noi del Sud siamo pulci che saltano a comando.
In scrittura sacra neanche le montagne sono stabili, per insegnare che neppure in loro si trova via di scampo. Dopo il diluvio l'umanità si arrocca su una torre fortezza avvitata nei cieli. Ma rifugiarsi in un'opera è affidarsi a un idolo. Il Dio unico scende a sgomberare il cantiere.
In scrittura sacra unico riparo è la divinità, la salvezza è affidarsi al suo sbaraglio. Perché mai da lei proviene una prudenza, una via di mezzo: si deve conquistare la terra promessa in schiacciante inferiorità numerica, Mosè è spedito all'assurda impresa di staccare un popolo di schiavi dalla superpotenza dell'Egitto, Geremia va a gridare in Gerusalemme assediata la resa a Nabucodonosor, Giona ad annunciare il finimondo a Ninive.
Amo la scrittura sacra perché è estremista, più di qualunque altra. Perciò neanche la geografia sta quieta: «Le montagne saltarono come arieti, le valli come cuccioli di gregge» racconta il salmo (114,4). E il Sinai vallo a trovare, prova a piantarci sopra la bandierina, se sai dove sta. Il Sinai è il Horeb, due nomi sono il minimo per una montagna introvabile e data per trovata varie volte, nel gioco dell'oca dell'archeologia.
Il Sinai, Horeb, har Eloh ìm, monte di Elohìm, ha due soli alpinisti, in solitaria: Mosè, tre volte in vetta, Elia che si accampò in una sua grotta a ricevere la più speciale manifestazione fisica della divinità, la voce in una polvere sottile.
Con Mosè finisce l'alpinismo della storia sacra, che è iniziato alla rovescia, in discesa, con Noè che si ritrova attraccato alla cima dell'Ararat col suo barcone a cesto e da lì scende insieme ai rappresentanti della zoologia salvata.
L'alpinismo prosegue con la torre costruita nella valle di Shinàr, dispersa dal brusio di lingue spiccate tutte insieme dalle labbra, perciò detta Babele, voce che viene da un verbo di mescola e d'impasto. La fabbrica tentata per impiantarsi in cielo fallì, restando però il più visionario edificio della specie umana.
Mentre la costruiscono anche la scalano. Una scalata è una costruzione di passi verso l'alto, un'opera sul vuoto. Come quelli della torre, gli alpinisti sono costretti a scendere. La cima è un vicolo cieco, dove si sbatte contro lo sbarramento del cielo. Ogni discesa da una cima contiene una piccola parte della ritirata dalla torre.
L'appuntamento sulle alture della scrittura sacra comporta la salita dell'uomo e la discesa divina. S'incontrano lassù perché più sopra il bipede senz'ali non può andare. È un movimento a fisarmonica fra la terra e i cieli, che si contraggono in un punto, raggiungono la coincidenza, chiusura di strumento, poi si separano in direzioni opposte. Uno riscende a valle, l'altro scompare dietro la curva dell'universo.
Tutta la storia sacra è a fisarmonica. Il popolo d'Israele s'allontana dalla divinità esigente, poi fa ritorno, oppresso da nemici ma pure da una nostalgia, perché così è l'amore che si sono giurati. Le loro solitudini, quella di un Dio unico e totale e quella di un popolo staccato dagli altri, combaciano. Staccato da tutti gli altri, non «eletto»: il verbo ebraico è quello di chi compie una separazione, non una preferenza.
Il Golgota spellato come un tesch io è l'ultima stazione di montagna. La storia ebraica del monoteismo, dopo di quella, prosegue in pianura, naviga, emigra verso l'Occidente. La storia di quel piccolo popolo incastrato tra il Giordano e il mare, tra il Libano e il deserto, si trasferisce verso il nuovo mondo, Atene, Roma, Americhe di allora.
Matino: però anche Satana sta sul monte delle tentazioni
«La divinità è dove si respira pulito. Invece l’uomo sta in basso e solo pochi possono toccare la cima»
Dove risiede Dio, da dove governa il tutto? La domanda non è retorica, è decisiva. La risposta è talmente importante che qualifica la fede: la giustifica o la nega. «Mostrami il tuo volto» è la preghiera di chi cerca conforto nell’Assoluto, di chi spera in una mano potente per sconfiggere i nemici e per rifugiarsi in luoghi sicuri.
«Dove abiti?» (Gv 1,37) è una domanda ancora più incalzante. È una provocazione, sconcertante. È una bestemmia per chi nega residenze all’Assoluto, tuttavia indica percorsi, faticosi itinerari di chi nel dolore cerca carezze, altre mete, mura diverse da quelle della storia di soli uomini con uomini. Invocazioni, preghiere che fanno da eco alle proteste generate dallo stesso desiderio, questa volta tradito, deluso, infangato: «Se tu fossi stato qui!» (Gv 11,21).
Forse per questo le fedi nell’Assoluto hanno sempre collocato molto in alto, sulle alte vette, il luogo caro alla divinità. Olimpo o Sinai, Tibet o Kilimangiaro, Aconcagua o Himalaia sono sempre luoghi dove l’aria diventa più pura, più sottile, difficile da respirare. Luoghi che quasi nessuno, solo qualche eletto, può raggiungere, perché si rischia la vita.
L’altezza indica la differenza tra Dio e l’uomo, la distanza qualitativa, l’impossibilità di rintracciare. Dio è Dio e l’uomo è uomo. Dio sta in alto, l’uomo in basso e quando la sofferenza, la nostra, pone domande è sempre possibile rifugiarsi nell’idea della differenza: il problema è qui, giù da noi. In alto è diverso, là si respira a ria pulita. Tutte le religioni tendono ad avvicinare il credente alla vetta, senza mai concedergli di raggiungerla. Non è dell’uomo arrivare alla cima.
Tuttavia il lento arrampicarsi sui pendii del sacro permette di abituarsi all’altezza, all’aria pura non inquinata che rinnova quella corrotta dal tormento del peccato. Sarà per questo che i luoghi di preghiera, sempre più alti, come navicelle puntate verso l’imprendibile, sembrano toccare il cielo con guglie, minareti, campanili carichi di attese, di dolore, di speranze. Montagne costruite da uomini col chiaro intento di rimandare alle vette, le vere, che restano l’unico luogo dove il cielo incontra la terra, dove un Dio potrebbe costruire la sua dimora.
Ogni religione ha i suoi monti: il più sacro è sempre il più alto. Stranamente, però, anche il diavolo, il principio del male, frequentatore di fogne, abisso e non altezza, frequenta alte vette e una in particolare gli è abbastanza familiare. Fatto sta che proprio su un alto monte tenta il Signore. Ma che fa Satana su per i monti? L’aria rarefatta può essere respirata da chi ha inquinato con ogni nefandezza il progetto originario? Non è l’altezza da niente quella dove conduce il Maestro. Ognuno si aspetta che le idee chiare e distinte trovino conferma nella separazione precisa tra bene e male e nella netta distinzione dei luoghi: Dio sta in alto, il diavolo in basso. Eppure l’altezza in questione non solo è ragguardevole ma anche superiore alle altre.
Il silenzio rumoroso delle vette fa paura, ma fa pensare, fa decidere: decidere di pensare o, per paura, decidere di non decidere. Forse è meglio restare sulla linea di confine tra i diversi destini, per natura separati: Dio a casa sua, l’uomo al suo posto. «Tutto questo sarà tuo», ma a quale prezzo? La scelta non è facile: si rischia di cambiare il gioco.
Dall’alto di un monte puoi vedere vette sorelle che si stagliano precise e aspettano ansiose di essere scalate per guardare in basso da un’altra visuale. Raggiu ngerle non sembra facile, ma è dello scalatore lasciarsi provocare dalle altezze più insidiose. Quelle cime potrebbero diventare nuova storia. Sta al Maestro decidere se scalarle, se ne vale la pena.
«Avvenire» del 27 febbraio 2007

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