14 febbraio 2007

Non si cura un cancro prendendo l'aspirina

Calcio. I cervelli sono da attivare. Non i tornelli
di Alberto Caprotti

Silenzio, si fischia. La domenica dei lunghi tornelli è finita regalando altro indignato stupore solo a chi si era illuso che bastasse un'aspirina per curare il tumore. Cervellotiche scelte a singhiozzo, stadi aperti e stadi chiusi senza una logica vera, code, proteste, ipocrisia. E fischi, vigliacchi, a Roma, durante il minuto di silenzio per onorare la memoria di Filippo Raciti da parte di una porzione della curva giallorossa che ovviamente non ha capito nulla. Ma anche quattro ultrà interisti arrestati a Verona, dove allo stadio non si poteva entrare. Oltre a un arbitro malmenato in un torneo juniores a Binasco, una rissa in Campania tra dirigenti di due club di Eccellenza in puro stile Bronx, e un bel petardo recapitato dall'esterno sugli spalti deserti dello stadio di Bergamo. Come bollettino della giornata della memoria calcistica, quella del "pentimento" e della "riflessione", non c'è male davvero. Ma anziché aggiungere altro inutile sdegno a quello già versato, buono soprattutto per inorgoglire gli autori di certe imprese che altro non aspettano per sentirsi vivi, le nuove vergogne domenicali potrebbero paradossalmente servire a qualcosa di buono. A convincere del tutto cioè chi si affanna a trovare soluzioni che anziché inseguire la pelosa politica dei tornelli, sarebbe ora di affrontare quella dei cervelli. Chiudere la baracca calcio o meglio ancora metterla sotto tutela con provvedimenti inutili, sembra essere l'unico obiettivo di chi non vuole uscire dall'equivoco e che sembra vivere su un altro pianeta. Esattamente come quei dirigenti di club che in due giorni e due notti hanno sanato inadeguatezze strutturali negli impianti antiche di mesi. Una dimostrazione di efficienza insolita, da una parte, e deprimente dall'altra. Buona per mettersi a posto la coscienza, per piazzare in coda insieme agli abbonati la nostra inadeguatezza reattiva. Perché la violenza di questi tempi che usa il calcio come palcoscenico, è ribellione allo stato puro. Alle istituzion i, alle regole, alla convivenza civile: la polizia è il nemico, distruggere la parola d'ordine. E questo va capito e affrontato. La bandiera è un alibi, lo stadio chiuso un dettaglio, la partita non interessa affatto, il tornello per regolamentare l'entrata della gente per bene una barzelletta che loro - quelli che stanno fuori e fuori uccidono - si raccontano compiaciuti. Le istituzioni, il mondo del calcio, i genitori, noi tutti insomma, siamo chiamati a capire che chi si prende a pugni per un parcheggio non è troppo diverso da un ultrà. Che gli stadi "a norma" non risolvono nulla ma sono lo specchio di quella norma, cioè normalità delle regole, puntualmente svilita e disattesa nella nostra vita quotidiana dove la legge, la legalità, l'educazione, la tradizione e il buon senso sono considerate semplici usanze tribali. Modificabili, opzionali. Opporsi, stravolgere, andare contro natura, incendiare: a questo ci vogliono abituare. Salvo poi scandalizzarsi e invocarne la chiusura solo quando sullo sfondo c'è un pallone, volenti o nolenti terza azienda del Paese. Ma se la cultura (distorta) ed il modello organizzativo del calcio italiano non possono cambiare in pochi mesi, le condizioni che rendono possibile il cambiamento sì. A patto che non sia un tornello il termine di paragone con il passato.
«Avvenire» del 13 febbraio 2007

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