21 febbraio 2007

Ma la legge naturale vale anche per i laici

Abbandonata perché troppo «da cattolici», l’idea che per l’uomo non tutto sia convenzione può essere invece un orizzonte comune per riportare al centro l’identità degli individui
Di Giuseppe Angelini
La categoria si fonda sulla ragione universale, non su una scelta di fede. E non è vero che è solo una soglia minima, da non trasgredire, ma è l'istanza massima alla quale si richiama ogni tradizione culturale

L'ultimo litigio italiano - quello relativo ai Pacs, o ai Dico - ha offerto rinnovata occasione per la querelle antica: le leggi umane debbono attenersi addirittura alla natura, o non debbono più modestamente disciplinare l'equità di rapporti convenzionali? Che mai è questa famosa natura? Quale soggetto storico potrebbe essere autorizzato a definirne le esigenze? Non è forse ogni appello alla natura destinato ad assumere la forma di una ingenua, o magari tendenziosa, difesa della tradizione? Magari si tratta di tradizioni millenarie, ma pur sempre di tradizioni storiche; forse addirittura tradizioni di un'umanità bambina, non invece della voce di una pretesa natura immutabile. Il carattere solo relativo delle tradizioni umane appare sanzionato dalla concezione corrente di esse quali espressioni della cultura. Il modello di pensiero che oppone natura e cultura pare essere fino ad oggi quello assolutamente prevalente. L'idea di natura è stata da tempo abbandonata dalla massima parte del pensiero laico, quello dunque che procede come se Dio non ci fosse. Ancor più decisamente abbandonata è l'idea di una legge naturale, che si imporrebbe da sempre e per sempre alla libertà degli umani. Tale idea continua invece ad essere tenacemente difesa dalla cultura cattolica, e dal magistero cattolico. Non sorprende in tal senso che quell'idea sia diventata criterio discriminante per distinguere laici e cattolici. Non basta a correggere questo stato di cose il fatto che i cattolici protestino con sempre rinnovato fervore la tesi che l'idea di natura non è né cattolica né laica, è invece imposta dalla ragione universale. Nonostante tale protesta, rimane di fatto corrente - con pochissime eccezioni marginali - l'idea che il cattolico sia in favore della legge naturale, mentre il laico sia a favore del carattere solo convenzionale del costume, e dell'assoluta impossibilità di realizzare un sindacato di merito sulle decisioni del singolo. Soprattutto, la cultura laica sostiene che le leggi umane non possono riferirsi a criteri come quelli di bene e di male in senso morale; fosse pure da riconoscere una pertinenza a categorie tanto enfatiche (ciò che il pensiero filosofico tardo moderno fondamentalmente mette in dubbio), esse sarebbero insuperabilmente soggettive e non potrebbero essere tenute in alcun conto dalle leggi umane. Queste debbono attenersi al criterio esclusivo di garantire al singolo la massima libertà compatibile con la libertà di ogni altro. Il successo conosciuto dal modello laico del pensiero è garantito soprattutto da fattori diversi da quelli di carattere ideologico. Mi riferisco in specie alla decisa dominanza del modello mercantile per rapporto alla generalità dei rapporti umani. Lo scambio è inevitabile; esso sarebbe però scambio reale, scambio cioè di cose, di beni e di servizi definiti nella rispettiva identità a prescindere da ogni riferimento alla coscienza del singolo. Dei beni scambiati ciascuno farà poi quel che crede; quello scambio in nessun modo lega le persone. Soltanto a questa condizione è garantita la libertà nello scambio. I fautori della legge naturale affermano invece che lo scambio tra gli umani conosce forme che hanno consistenza simbolica e non solo "reale"; in tal senso esse impegnano la stessa identità della persona, e non solo i suoi beni; esse non possono essere consegnate all'arbitrio della convenzione, ma esigono il rimando a un consenso ideale. Appunto a tali forme di scambio assegnerebbe fisionomia univoca la natura stessa, e quindi le norme di comportamento che ne scaturiscono. A questo genere di forme appartengono tipicamente i rapporti tra uomo e donna, quelli tra genitori e figli, e magari anche quelli tra fratelli. Poiché proprio su questi rapporti elementari si regge l'alleanza sociale tutta, e la possibilità per il singolo di trovare una propria identità, massima dovrebbe essere la cura sociale per essi. La trasformazione antropologica delle società complesse conduce di fatto a una progres siva indeterminazione dell'identità dell'uomo e della donna, del rapporto stesso di generazione. Che tali processi comportino consistenti rischi per il destino storico dell'umanità comincia forse ad essere percepito dagli osservatori più sensibili. Tale consapevolezza stenta ad affermarsi nel dibattito, vittima inesorabile dei noti processi declamatori, che polarizzano in fretta tutti i dissensi. Al di là di tali tratti deteriori del dibattito pubblico, paiono per altro concorrere a rendere difficile l'intesa le forme nelle quali è affermata l'istanza di una legge naturale. Essa è per lo più concepita come una soglia minima, che non si potrebbe in alcun modo trasgredire. Non la si deve forse concepire invece come istanza massima, che, pur non potendo mai essere adeguatamente definita in termini di precetti materiali, sempre deve essere considerata nei laboriosi processi di determinazione di quei precetti? Non la si deve forse concepire come l'orizzonte al quale ogni cultura di necessità rimanda, senza poterlo mai definire? Non è forse proprio per riferimento a questo orizzonte che può e deve essere istruito il confronto tra le diverse culture, e la ripresa interpretante di ogni tradizione culturale? Ha certo una giustificazione il fatto che la coscienza cristiana reagisca con particolare rigidità a fronte di leggi umane che riguardano i comportamenti materiali più elementari, nei quali trova espressione il necessario riferimento dei rapporti umani alla legge disposta dal Creatore. Proprio tali leggi paiono infatti sanzionare la tendenza più generale della nostra epoca a ridurre la legge umana a mera convenzione, cancellando anche solo il ricordo della legge naturale. E tuttavia appare improprio ridurre la legge naturale a quei divieti. Essi possono essere al massimo intesi come la rifrazione della legge (morale) naturale a livello di diritto; scontano in tal senso la differenza indubitabile tra diritto e morale - una differenza questa, oltre tutto, per la quale l'Occidente è debitore nei confronti del cristianesimo.
«Avvenire» del 20 febbraio 2007

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