16 febbraio 2007

Ma il netto rifiuto della violenza finora è mancato

Terrorismo tra passato e presente
di Carlo Cardia

Giorno dopo giorno, le trame di terrorismo scoperte e i pericoli scongiurati si estendono e lasciano sbigottiti. Piani precisi per colpire ed uccidere, depositi di armi che tradiscono collegamenti nazionali e internazionali, brigatisti che svolgono normali attività sindacali. Ancora dopo gli arresti, altre rivendicazioni e volantini. Sembra un tuffo nel passato, invece è cronaca del presente. Forse non c'è coscienza che stiamo parlando dell'Italia di oggi.
C'è un motivo forte per avere fiducia nelle istituzioni. Il lavoro fatto da polizia e magistratura ha meritato il plauso generale. E il ministro dell'Interno ha saputo interpretare sentimenti e timori che animano la gente e lo spirito pubblico del Paese. Ma c'è anche un clima di smarrimento, c'è anche sfiducia che l'emergenza possa essere superata veramente.
Alcune analisi che leggiamo in questi giorni non superano la soglia della cronaca, o ripetono gli schemi del passato. Non c'è uno stringersi compatto e convinto dei partiti e delle organizzazioni sociali attorno alle istituzioni. Ci si poteva attendere una risposta etico-politica all'altezza dei rischi, ma non è venuta.
Manca la consapevolezza che c'è qualcosa di malato nel nostro Paese. Dobbiamo riconoscere che non è mai stato reciso quel cordone ombelicale che lega grumi di società al sovversivismo, al brigatismo, alla violenza. Questo è la prima radice del male. È mancato il rifiuto netto, aperto, della violenza comunque si manifesti, da parte di gruppi e movimenti politici. Mentre è filtrata la comprensione, qualche volta la giustificazione, per tante cose che alla violenza sono vicine. Le parole educazione, formazione, etica sono scomparse dal vocabolario di molti.
Nessuno ha mai riflettuto su un punto. Non c'è alcun Paese europeo ed occidentale nel quale esistano gruppi di giovani, e meno giovani, che combattono l'esercito, i carabinieri e la polizia, in quanto tali. Le proteste sociali e politiche ci sono ovunque, ma soltanto da noi assumo no i toni della violenza anti-istituzionale. La polizia è combattuta agli stadi, o quando difende i summit internazionali. Le forze armate sono vilipese quando sono in missione di pace, e quando i militari sono uccisi ad opera di terroristi.
Una verità semplice su questo male non viene mai detta, neanche in questi giorni. C'è un terreno di coltura nella quale si formano e crescono tanti giovani, alcuni dei quali poi scelgono la svolta estrema. Ma questa svolta estrema non è che un girare l'angolo rispetto a tutta una educazione fondata sull'antitesi amico-nemico, sull'esibizione della micro-violenza, sulla politica come strumento di divisione.
Sin dall'inizio della sua presidenza Giorgio Napolitano ha ripetutamente chiesto di abbassare i toni e di usare parole alte. Ed ha invitato i politici ad agire come protagonisti della dialettica democratica, non come avversari irriducibili. Tanto forte avvertiva questo bisogno che ne ha parlato nell'incontro con Benedetto XVI ed ha chiesto alla Chiesa di contribuire al rasserenamento della società e della politica.
Oggi si deve dire che il presidente della Repubblica non è stato ascoltato da tutti. Anche il giorno dopo la scoperta dei covi delle Br, si sono udite dichiarazioni gravi e pesanti di leader politici. Alcune forze, che stanno dentro e fuori le istituzioni, hanno addirittura contestato le preoccupazioni del ministro dell'Interno sulla manifestazione di Vicenza. Anche questo è parte del male che affligge l'Italia.
Magistratura e forze dell'ordine meritano il plauso generale. Ma non ci si può illudere che siano soltanto loro a risolvere problemi che affondano le radici nella nostra storia e nel nostro tessuto sociale. Se a distanza di anni dalla sua sconfitta una organizzazione terroristica riesce ad essere attiva, a crescere, e sul punto di realizzare gravi attentati, vuol dire che il male non è stato debellato. Non è stato sconfitto perché non si sono attivati gli antidoti alla violenza: l'educazione al rispet to degli altri, la formazione delle nuove generazioni, l'indicazione di valori etici che siano fondamento del vivere civile.
«Avvenire» del 16 febbraio 2007

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