24 febbraio 2007

Luzi, la vita come poesia

Esce postumo un volume del grande poeta che raccoglie testi e riflessioni critiche
Di Mario Luzi
«Negli anni Trenta pativo l’assenza di carità nel leggere e il giudizio sul mondo di Montale e Ungaretti»
Vi premetterò che c'è una poco manifesta ma reale crudeltà per un poeta a parlare di sé, qualcosa di profondamente iniquo perché inverso al senso della propria natura. Infatti in questo atto egli mette in un'effimera evidenza, riduttiva o meritoria a seconda dei suoi umori, il già fatto, mentre è tutto teso al da farsi, questa è la sua particolarità soggettiva. Si trova dunque in una situazione di squilibrio etico, penoso come una profanità, quando esprime qualche sentenza o conclusione o desume qualche argomento dimostrativo del lavoro lavorato e l'esperienza di esso gli sembra che sia anche un peso poco desiderabile e ingombrante.
Quello che dico come considerazione generale si moltiplica per cento o per mille, se riferito a un autore molto avanzato negli anni, che, con tutta la buona volontà, non riesce a rimuovere da sé il prodotto del tempo vissuto. Il paradosso sottilmente angoscioso della situazione di cui sto dicendo si complica in questo caso di un sentimento di inanità che credo solo a Dante, il quale si è cimentato nel «poema sacro a cui han posto mano e cielo e terra», sia stato risparmiato. E questo sentimento viene dalla dissonanza tra il desiderio di captare il mondo, sia nella sua molteplicità sia nella sua nuda essenza, che il poeta porta in sé come sigillo originario, e la povertà del raccolto.
Interviene la rassegnazione a riconoscere come solamente simbolico il suo lavoro: che può ambiguamente tradursi in esaltazione al pensiero di questa esigenza connaturale dell'umanità di simbolizzarsi...
Ma il bilancio lo stesso inevitabilmente geme. Del mondo, della vita che da sempre in te hanno premuto perché tu le esprimessi, per essere detti e comunicati ai tuoi fratelli. Che cosa è rimasto delle tue molte pagine? Ripeto: un sentimento di sconforto interrotto e alternato da una conquista dell'anima e della conoscenza: che la piccolezza consentita all'uomo rispetto alla grandezza impensabile della vita sia sentita misericordiosamente e accetta ta con umiltà. L'umiltà è forse la sommità della nostra conoscenza.
Ma torniamo un momento all'inizio di questa confidenza: alla necessità intrinseca del «fare» che è appunto un'attitudine o stigma che distingue il poeta. Il poiéin è appunto la sua condizione vitale. Il che non significa «fare per fare», ma produrre qualcosa che prima non c'era, accrescere l'esistente. È vero che esiste un'altra possibilità, che è quella di commentare l'esistente: a questa si devono molti decori e preziosi arricchimenti e possiamo ben intenderlo quest'anno, nell'occasione celebrativa del Petrarca, che fu impareggiabile commentatore dell'esistente, naturalmente non solo, ma, a mio parere, fortemente condizionato da quella sua attitudine primaria e che, per questo, ci appare tanto distante, al punto che le fitte celebrazioni di questo suo anno sono state piuttosto atti dovuti, ma non accrescimenti, come capita invece tutte le volte che si prende in mano Dante, la cui «divinità» incisa nell'autorità dell'opera impedisce la divagazione, il decoro e il prezioso. Un lungo destino di commento è nella nostra tradizione letteraria, indubbiamente, proprio per la sua paternità petrarchesca, ed è anche importante e, per certi aspetti consustanziale: bisogna prendere atto che quando è uno sguardo caritatevole e lucente a leggere in profondo lo stato delle cose e a commentarlo, allora si produce un incremento del nostro conoscere.
Quando cominciai a scrivere negli anni Trenta pativo la mancanza di tale carità e il giudizio duro e negativo sul mondo da parte dei poeti più importanti del tempo, come Montale e Ungaretti, per rimanere nel nostro giardino italiano. In entrambi non c'era spazio per l'esperienza e per la vita nel suo farsi, sia che pensiamo al «no» di Montale, deciso e replicato, a non viaggiare o vivere nel mondo, né mi rassegnavo a definizioni o schemi mentali.
Penso a questo punto anche all'importanza che ebbe la lezione di Bo, la sua particolare modalità di critica, c osì lontana dalla pratica definitoria nella lettura, aperta invece all'ascolto e all'illuminazione del testo, allo scandaglio, per usare una parola che a Bo piaceva molto e che è sua, di qualcosa che non è mai apparente e non finisce mai di essere misterioso dentro il testo. L'identificazione tra letteratura e vita fa sì che la lettera non possa essere considerata un marmo, ma sia suscettibile di continuo incremento di vita in chi la riceve. Si è poeti nel cercare appunto dentro il linguaggio, attraverso l'inesplicabile del linguaggio, questa ragione primaria.
Si trattava, allora, di rigenerare dentro la poesia e il linguaggio una vita che, nella quotidianità, ci veniva negata, umiliata. Nello stesso tempo eravamo invitati a cercare dentro di noi quello che fuori non c'era e quindi a frugare nelle ragioni più interne della letteratura e della poesia.
Bo fu tra di noi chi vide tutto ciò assai nitidamente: Letteratura come vita, che poi diventò quasi un manifesto, era la estrema coniugazione di un'esigenza di dignità e profondità accettabile della nostra vita con una prospettiva di espressione adeguata, non illusoria, non ingannevole, soprattutto non traditrice della nostra richiesta di verità, della nostra introspezione disperata. Dico disperata perché era fatta in un clima di rifiuto.
Cosa chiede Bo alla poesia? Non la ripartizione o la rappresentazione dell'esistente, non la chiarificazione di qualcosa che può essere spiegato con mezzi anche esterni, ma un salto dal conosciuto, dal già dato e donné, verso l'assolutezza irraggiungibile forse, che può balenare prodigiosamente attraverso la parola.
«Avvenire» del 22 febbraio 2007

Nessun commento: