14 febbraio 2007

L’uso «tattico» della lotta armata e il filo degli anni ‘80

di Giovanni Bianconi
Il primo foglio clandestino risale all’aprile 1999, un mese prima dell’omicidio D’Antona. Gli altri erano già pronti ad uccidere il consigliere del ministro Bassolino, mentre loro cominciavano ad elaborare teorie. Sempre relative all’«avanguardia comunista combattente», ma con un’altra prospettiva. Tanto che il secondo documento, datato ottobre 2000, critica l’«eccessiva concretezza militare» delle nuove Br, frutto di una «analisi lacunosa di un bilancio complessivo dell’attività del movimento comunista internazionale e della stessa politica italiana». Linguaggio involuto, tipico di brigatisti o aspiranti tali. Volevano dire che il delitto D’Antona era una fuga in avanti. Così come l’omicidio-fotocopia di Marco Biagi, marzo 2002; il numero 0 della rivista clandestina Aurora, stampato nell’estate di quell’anno, esprime «apprezzamento» per l’azione, anche se «il livello di intervento è ritenuto troppo alto se rapportato alle attuali condizioni politiche della massa che deve seguire un percorso di maturazione graduale». Dopo la drammatica esperienza del delitto politico rispuntato dal nulla nel ‘99, gli investigatori dell’antiterrorismo non tralasciano di analizzare nemmeno una riga di documenti come questi. Capiscono e annotano che sta nascendo una nuova fazione brigatista, con evidenti richiami alle idee che nel 1984 portarono la «seconda posizione» delle Br a fondare l’Unione dei comunisti combattenti. Criticavano la «strategia della lotta armata» ridottasi al rituale di un omicidio all’anno, rivendicando l’uso tattico della violenza per arrivare a un più ampio consenso popolare e insurrezionalista. Il miraggio finale era perfino la costruzione di un partito semi-legale che facesse da sponda all’organizzazione clandestina in armi, come in Irlanda e nei Paesi baschi. Il paradosso fu che per propagandare quelle posizioni contrarie all’assassinio seriale e poco più, l’Udcc dovette compiere azioni armate: il ferimento dell’economista Da Empoli (1986) e l’omicidio del generale Giorgieri (1987). Si sparava per dire che bisognava dare agli spari un significato diverso, ma il risultato era sempre qualcuno lasciato sull’asfalto, azzoppato o morto. Oggi il rischio intravisto da polizia e magistrati è esattamente lo stesso. Questa nuova formazione che forse si chiama «Partito comunista politico-militare» si porrà pure in disaccordo con gli assassini di D’Antona e Biagi, le Br-pcc, ma per affermare la propria linea doveva mettersi sullo stesso piano: la lotta armata. Tattica anziché strategica, ma sempre lotta armata. Che certamente non ha i campi da arare degli anni Settanta, ma può ancora fare proseliti e soprattutto è un pericolo per le vittime potenziali. Il seguito delle indagini dirà se gli obiettivi di cui si parla in queste prime fossero in reale e imminente pericolo; di sicuro, chi predica la lotta armata attraverso mosse e pubblicazioni clandestine (e accumula armi e soldi, e si esercita nottetempo) prima o poi deve praticarla. S’è visto che basta un pugno di uomini e donne a commettere delitti che irrompono sulla vita pubblica (oltre che in quella privata delle vittime) con effetti devastanti. Anche ora che la rivoluzione e la sigla Br sembrano più un vessillo da sventolare contro la mediazione dei conflitti che un reale pericolo per le istituzioni democratiche. Di qui la decisione di intervenire preventivamente, pima che la nuova organizzazione facesse danni più seri di una rapina andata a vuoto o di un attentato a una sede neo-fascista (non firmato, altra similitudine con le Br-pcc che alle azioni minori riservavano sigle diverse, per dare l’idea di un fermento inesistente). La decisione del presunto capo (un clandestino volontario, cioè con falsa identità anche se non ricercato) di dichiararsi «prigioniero politico» rappresenta una prima conferma alle conclusioni, ancora parziali, di un’indagine «pura», condotta con metodo quasi scientifico tra mille difficoltà, utilizzando tutti gli strumenti possibili: dalle intercettazioni ambientali decise e realizzate quasi in tempo reale, al «ritardato arresto» di chi commetteva reati ma bisognava continuare a seguire per risalire agli altri rami dell’organizzazione. L’inchiesta fa intravedere anche la ripresa di antichi rapporti tra brigatisti del tempo che fu, e il ritorno in attività di criminali comuni convertiti alla militanza politica. Vecchi scenari che si riaffacciano dietro un gruppo in cui la maggior parte degli arrestati ha un’età che ha consentito loro di respirare il clima della lotta armata propagandata negli anni Ottanta, quando già era cominciato il tramonto e si dividevano tra prime e seconde posizioni, appunto. Ma c’è pure chi è nato negli anni Settanta, o addirittura nel 1984. Una novità rispetto alle Br che hanno ucciso D’Antona e Biagi; segno inquietante del fascino che quel consunto vessillo sventolato a colpi di pistola o mitraglietta può ancora esercitare su qualche giovanissimo.
«Corriere della sera» del 13 febbraio 2007

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