20 febbraio 2007

La scienza senz'anima?

Alcuni studi sulla mente e sul cervello tendono a negare l’esistenza di una realtà soprannaturale. Una questione che finisce per interpellare anche i teologi

Bianchi: «Non ha senso distinguerla dal corpo: l’uomo è creatura unitaria»
Il termine «anima» è tra i più comuni nelle lingue e nelle culture del mondo, ma il suo significato è assai vario, ambiguo, sovente indeterminato. Se Gianfranco Ravasi, nel suo Breve storia dell'anima, scrive che nella Bibbia ebraica il termine nefesh assume «un impressionante arcobaleno di significati», a seconda del contesto in cui appare, ciò vale a maggior ragione per le accezioni connesse al termine «anima» lungo i venti secoli della tradizione cristiana. Ma ciò che mi preme sottolineare in questa riflessione è il fatto che, a partire dalla metà del secolo scorso, questa parola ha avuto uno strano destino. Prima di allora era un termine tra i più attestati all'interno della tradizione teologica, spirituale e liturgica delle chiese, e in particolare della chiesa cattolica. Si pensi ad espressioni quali: «salvarsi l'anima», «il prete ha cura delle anime», «la tal parrocchia conta ... anime», «l'anima va all'inferno, in purgatorio, in paradiso», «che bell'anima ha quella persona», e potremmo continuare. Poi è subentrato un atteggiamento che definirei più che critico, reticente, da parti molti nello spazio cattolico.
Oggi non si parla più con facilità di «anima», poiché si è adombrato e indebolito il concetto di immortalità a favore di quello, più propriamente neotestamentario, di resurrezione della carne. Siamo certamente di fronte a un influsso dell'esegesi scritturistica recente e della teologia che ne consegue. Tali discipline, mettendo maggiormente in luce la veritas judaica e ridimensionando l'apporto ellenistico intervenuto con l'inculturazione del cristianesimo nel mondo greco, miravano a ritrovare la prospettiva biblica, ossia a ricollocare al centro della fede cristiana la resurrezione di Cristo e della carne, la resurrezione di tutti gli uomini alla fine dei tempi in vista del giudizio. Un piccolo libro di Oscar Cullmann dal ti tolo Immortalità dell'anima o resurrezione dei morti? esprimeva bene quel clima di rinnovamento biblico e teologico. Ma è soprattutto la riforma liturgica postconciliare a evidenziare il particolare destino del termine «anima».
Certamente oggi è ormai un dato acquisito da tutte le discipline cristiane che il messaggio biblico e patristico, seppur con diverse modalità espressive, intendeva definire l'essere umano come una realtà unitaria: le differenti ottiche antropologiche espresse nella lingua ebraica o nel greco dei Settanta attestano infatti l'unitarietà radicale dell'uomo, pur mettendo in rilievo i diversi aspetti del suo essere e del suo agire. L'uomo della Bibbia non ha bensì è un'anima, un corpo, uno spirito, cioè un essere vivente appartenente a questo mondo, una creatura mortale e fragile, un io in relazione con gli altri, col mondo, con Dio. È significativa in proposito una riflessione di Agostino nei Soliloqui: «Desidero avere la conoscenza di Dio e dell'anima (Deum et animam scire cupio). E nulla di più? No, proprio nulla!» (I, 2, 7). Conoscenza di Dio e di tutto l'uomo, dunque!
Nel cristianesimo la dottrina dell'anima si è arricchita nel corso dei secoli di molti elementi derivanti dall'esperienza e dall'incontro con le diverse culture, ciò che rende necessario uno sforzo di sintesi allo scopo di coglierne il significato essenziale. L'anima è: - il principio spirituale della persona, alla quale Dio ha conferito la dignità di figlio; - la dimora del Maestro interiore, dell'efficace Unctio magistra, ossia il luogo dove lo Spirito santo può agire, insegnare, ispirare; - la vita dell'uomo che può essere perduta o salvata; - tutta la persona umana, colta attraverso ciò che di più intimo vi è in essa, attraverso l'immagine e la somiglianza di Dio che in essa è impressa (cf. Gen 1,26-27).
Allargando un poco l'orizzonte, poss iamo cogliere nell'idea di anima il richiamo all'esperienza dell'uomo e alla voce della sua coscienza, a ciò che l'uomo aspira a vivere nel suo essere capax boni, nella sua apertura alla verità, alla libertà e alla bellezza, nel suo desiderio di felicità e di beatitudine, nella sua sete di vita eterna, nella sua capacità di accogliere la presenza di Dio... E così, di fatto, si apre un itinerario di esplorazione dell'anima come luogo della vita spirituale.

Andreoli: «Non è possibile "misurarla", è la nostra finestra aperta su Dio»

Vorrei sottolineare un pericolo che può sorgere da una esasperazione delle scoperte del cervello. Premetto che troppo spesso nella filosofia si cerca di «mantenere tutto» ossia conservare valore attuale a ogni affermazione dei filosofi antichi: Socrate, Platone, Aristotele; invece, molti pensieri, teorie, principi oggi appartengono a un fenomeno puramente storico e vanno sostituiti con quello che è l’apporto della mente, perché sono termini della mente. Ma c’è un pericolo e il pericolo è che si crei una mitologia del cervello.
La mitologia del cervello sta nel ritenere che adesso tutto sia riducibile al cervello. E non è una strada che sia stata percorsa solo dai riduzionisti, che sostengono che tutto ciò che non è ancora cervello, diventerà poi spiegabile in termini di molecole quando si perfezioneranno le ipotesi, i metodi e soprattutto gli strumenti di prova scientifica.
È un pericolo, questa mitologia, per le stesse scienze comportamentali, per esempio per la psichiatria, che rientra in questa categoria perché si occupa del comportamento sia pure estremo, sia pure con caratteristiche particolari.
Allora mentre amo le ricerche del cervello e sostengo che debbano moltiplicarsi e che nel tempo contribuiranno a cambiare la nostra vita, però bisogna anche stare attenti perché ormai all’interno delle neuroscienze c’è un vero delirio sul cervello, per cui il cervello sa tutto e del cervello sappiamo tutto.
Invece il comportamento – normale o patologico – è comunque la risultante di tre fattori: uno è certamente il cervello, tanto con la sua determinante genetica che con la plasticità di cui si è detto; il secondo è la storia personale, le esperienze che ciascuno di noi ha fatto. E infine c’è l’ambiente. Per cui per capire qualsiasi comportamento bisogna tenere in considerazione il fattore biologico, il fattore esperienziale, quello che chiamiamo la personalità (quindi le psicologie) e, terzo, il fattore ambientale. Questo, dunque, è il campo dell’uomo e per studiarlo è centrale il ruolo della relazione tra un soggetto e l’altro, e quindi diventa necessario, per comprenderlo, dare particolare attenzione all’esperienza e alla mente. E di questo si occupa la psichiatria, che Giorgio Colombo ha definito: scienza infelice.
Insisto, dunque, nel sostenere che sull’anima non posso dir niente o soltanto che non è un campo riferibile o risolvibile nei termini scientifici. Dallo studio dell’uomo nascono, infatti, dei problemi che non posso risolvere e che si riferiscono specificamente all’anima, quelle due caratteristiche cui ho fatto cenno all’inizio: l’immortalità e l’immaterialità, perché escono dai limiti dell’umano, appunto, lo trascendono. Anzi, se per capire il comportamento ci sono tre fattori, cioè il cervello, la personalità e l’ambiente, per l’anima invece esiste un’altra triade: morte, fede e Dio. Senza affrontare questi aspetti, il problema della fine, il problema della fede, il problema di Dio, non possiamo accedere a nulla che riguardi l’anima.
Queste caratteristiche proprie dell’anima, distintive rispetto al concetto di mente, si sono arricchite di significato con l’apporto del linguaggio del Nuovo Testamento che ha mostrato come l’anima sia trascendente, quindi non immanente, non dentro l’uomo, non parte di sé. E non vi è dubbio che tutto ciò che trascende l’uomo, non può essere oggetto di scienza, è anima. Proprio ciò che vorremmo si chiamasse anima in distinzion e dalla mente, qualche cosa che, in definitiva, riguarda Dio. Ma è chiaro che, cadendo Dio, cade anche l’anima: se uno non crede a Dio crolla la fede, e con questa l’idea stessa di anima. Ma c’è di più: se l’anima è qualche cosa che si unisce con Dio, certamente per farlo deve avere un luogo che non sia quello della Terra, ed ecco che c’è un destino escatologico che viene mediato attraverso la fede. Come scienziato mi trovo di fronte a un problema della fede, al problema del credere e a quali sono le caratteristiche perché si possa appunto credere. È un problema che deve essere rivolto agli studi dell’anima.

«Avvenire» del 15 febbraio 2007

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