24 febbraio 2007

Italiani: prigionieri del passato

Sergio Romano ripercorre gli eventi del 2006
di Marzio Breda
Istituzioni, economia, giustizia: è un groviglio di nodi irrisolti
Il luogo comune secondo il quale in Europa ci amano ma non ci stimano fu contraddetto, anni fa, da Alexandre Sanguinetti, potente ex ministro del presidente francese Charles de Gaulle. Ragionando su una delle nostre infinite crisi e proiettandola sullo scenario continentale, pronunciò una profezia divenuta famosa: noi italiani saremmo usciti indenni da ogni rischio grazie a «una speciale capacità di adattamento», perché siamo - così diceva, quasi alla lettera - «anguille antropologiche votate alla sopravvivenza intelligente». Anche se alludeva più all’istinto di autoconservazione che alle virtù civili, la sentenza andava comunque oltre la semplice simpatia. Ora, chiunque potrebbe ripetere cose analoghe oggi, dopo che il Paese ha visto il crollo della Prima Repubblica, la tabula rasa del vecchio sistema dei partiti e diverse torsioni istituzionali. Siamo infatti sopravvissuti. Cioè traccheggiamo sempre uguali a noi stessi, in un’adolescenza interminabile perché non prevede l’avvento della maturità. A Roma sono cambiate molte cose, alcune in positivo, come dimostra l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra al potere. Ma non abbiamo ancora vinto la scommessa più importante, quella di modernizzarci davvero. È su questo particolare aspetto della nostra transizione che Sergio Romano ha concentrato le riflessioni e gli interrogativi del suo ultimo saggio, Saremo moderni? (Longanesi). Una storia del tempo presente cresciuta settimana dopo settimana nel corso del 2006, scritta in francese perché destinata in origine al solo pubblico d’Oltralpe, ma subito voluta pure dall’editore italiano. È un catalogo di fatti analizzati senza ipocrisie o conformistici moralismi, in una cifra stilistica che ondeggia tra il tono confidenziale del diario e l’asciuttezza di un commento da prima pagina, con l’obiettivo di accendere qualche lampo nella nebbia. Il risultato «somiglia a quegli album in cui una lunga sequenza di immagini rappresenta un essere umano nei suoi spostamenti successivi», e lega insieme politica, economia, cultura, religione, costume, sport persino (che pesa parecchio anche nella politica). Un dossier in 52 capitoli, lungo il crinale di una stagione carica di attese che sono in gran parte andate deluse. L’anno si apre con «l’eterna battaglia anticomunista» di Silvio Berlusconi - «ancora un buon argomento», per il centrodestra - e con la ripresa della «guerra delle memorie» che tiene ognuno ostaggio del proprio passato e dei propri rancori. E si chiude con la reprimenda natalizia del capo dello Stato in televisione, accolta da applausi bipartisan benché la sua chiamata di correo sia indirizzata a entrambi i fronti, dato che recrimina sulla «distanza preoccupante apertasi tra politica e società», tale da giustificare addirittura timori per la «tenuta democratica» della nazione. Nei dodici mesi che scandiscono il 2006 c’è di tutto, compreso quanto abbiamo già rimosso per non deprimerci. C’è ad esempio il voto di primavera, con doppio cambio d’inquilini, a Palazzo Chigi e sul Colle. E ci sono le affannose alchimie di una maggioranza bifronte, da un lato i riformisti dall’altro i neocomunisti, per tenere a battesimo un governo la cui saldezza risulta comunque minata dalle contraddizioni. Intanto la gerontocrazia al potere resiste e preclude sempre il ricambio. Poi si sussegue una serie di scandali, ai quali siamo ormai mitridatizzati al punto che non fanno quasi più scandalo: dal caso del calcio corrotto agli assalti a banche e giornali, dall’inchiesta sull’erede Savoia («principe briccone?» o «principe maniaco sessuale?») a quella più inquietante delle intercettazioni, per le quali i lettori provano «un piacere malsano». C’è la bravata della vignetta antimusulmana esibita dal ministro leghista Roberto Calderoli, una provocazione che costa tredici morti a Bengasi. Pesano i paradossi di una politica estera ondivaga, con il ministro Massimo D’Alema «inseguito dal suo passato» e che s’inventa la formula dell’«equivicinanza» tra israeliani e palestinesi per superare i quotidiani interdetti di frange radicali pronte ad avventurarsi in piazza schiumanti di rabbia. Mentre non si può dimenticare il melodramma andato in scena su due «nuovi santi di una società laica», Oriana Fallaci e Tiziano Terzani, in nome dei quali la gente riscopre il gusto di dividersi, ancora e ancora. Vicende, queste e altre, che Sergio Romano racconta con la nitida chiarezza che i lettori del «Corriere della Sera» conoscono. Concedendosi alcuni ritratti, folgoranti ma senza iperboli, a partire da quelli di Prodi e Berlusconi. Alla fine, l’equilibrio del diplomatico cosmopolita, irrigato dal rigore dello storico che si sforza di considerare gli eventi «da una maggiore altezza», si rivela una chiave appropriata per interpretare l’Italia. E per spiegarla in particolare ai cugini francesi, che «hanno qualche difficoltà» a capirci. Confondendo magari le nostre virtù (molte, nonostante tutto) con i nostri vizi (speculari). La nostra vita pubblica, sostiene Romano, è frustrata da un cortocircuito permanente perché, «nella diffidenza del nuovo», non abbiamo colmato i passi mancanti per rinnovare le strutture dello Stato. Abbiamo perso l’appuntamento con la modernità ogni volta che abbiamo tentato, ma senza una seria convinzione, di riformare una Carta costituzionale nata da un mediocre compromesso e ormai inadeguata. Un groviglio di nodi irrisolti ci paralizza, prigionieri come siamo di inettitudini, disinganni, conflitti e una vacillante autostima. Il Paese dovrebbe dotarsi degli strumenti necessari per sopravvivere, «ma la sinistra radicale non ama il capitalismo, i Verdi si oppongono alle grandi opere, i sindacati sono conservatori, gli industriali hanno poco coraggio e la classe politica, per non perdere l’appoggio degli elettori, preferisce rimandare le grandi decisioni alla legislatura successiva» e insomma, «la sopravvivenza è più importante del futuro». Di qui una scontata domanda: il futuro dell’Italia è disperato? «Dipende dalle ambizioni degli italiani», è la provvisoria risposta del diario. Nelle cui ultime righe si rammenta il modo in cui il leader britannico descrisse un giorno il suo Paese: «La Gran Bretagna è una nazione che fa a pugni al di sopra del proprio peso». Evidentemente, conclude Romano, «gli italiani senza ambizioni si accontentano di un Paese che continuerà a boxare al di sotto del proprio peso».
L’autore e il saggio Sarà in libreria a partire da domani il nuovo saggio di Sergio Romano, «Saremo moderni? Diario di un anno» (pagine 258, 14), edito da Longanesi
Si tratta di un’agile panoramica che accompagna il lettore lungo i principali avvenimenti del 2006 ed ha come filo conduttore gli sforzi compiuti nel nostro Paese, non sempre coronati dal successo, allo scopo di modernizzare l’economia e le istituzioni L’autore, nato a Vicenza nel 1929, è stato a lungo ambasciatore e ha insegnato in diversi atenei. È editorialista del «Corriere» e di «Panorama». Le sue opere più recenti, pubblicate da Longanesi, sono «Europa, storia di un’idea» e «Libera Chiesa. Libero Stato?»
«Corriere della sera» del 21 febbraio 2007

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