20 febbraio 2007

Il cattivo gusto che fa pubblicità

di Luca Doninelli
La notizia è brevissima. A Roma uno stilista italo-persiano, Farhad Re, ha fatto sfilare la propria nipotina di cinque anni con indosso una t-shirt che recava la scritta «I love Diet», amo le diete. Fosse finita lì, direi: carino, un po' di spaesamento non guasta mai. Ma lo stilista poi, non contento, teorizza che si può amare tutto, tant'è che, dietro la bambina, compaiono alcune modelle anche loro armate di t-shirt con scritte come «Amo l'alcol», «Amo la droga», e così via. Banalizzando così l'ingresso, lievemente vertiginoso, della bambina.
C'è qualcosa di triste in tutto questo - oltre al fatto che, probabilmente, queste magliette saranno acquistate da molti. Mi riferisco, in primo luogo, all'idea mediatica, per nulla originale e decisamente opprimente, che ci sta sotto. Il rapporto con i media conosce quattro fasi.
Nella prima si viene semplicemente ignorati dai media - cosa che tutti, ormai, anche le casalinghe, vogliono evitare: essere visti, e soprattutto vedersi in tv, almeno una volta nella vita. Nella seconda ci si affanna per catturare l'attenzione dei media, e qui ogni mezzo è lecito, come nel caso del poco noto stilista Farhad Re o come nel caso di tanti artisti che, stanchi (o incapaci) di dipingere bellissimi quadri di cui nessuno si occupa, decidono di sporcare di merda la statua della Madonna o di far baciare tra loro crocefissi gay (ma questo è già più comprensibile, poiché, per quanto detestato, il cristianesimo costituisce il solo linguaggio simbolico di noi occidentali).
Nella terza si è famosi, e sono i media a rincorrerti. La notizia sei tu, non hai più bisogno di fare colpo. È la gloria. C'è, poi, un quarto livello, che è quello del mito dove, semplicemente, i media non servono più: che si occupino o meno di Padre Pio, dei Beatles o dello Chanel N° 5, non ha più molta importanza: il mito è superiore ai media.
Tutti i guai cominciano nel tentativo di passare dal primo al secondo stadio. È lì che il destino bussa veramente alla porta, ed è lì che si commettono gli omicidi: l'omicidio del gusto, l'omicidio della verità, l'omicidio dell'intelligenza e l'omicidio e basta. Il minuto decisivo, i venti secondi che possono cambiare il tuo destino.
Generalmente, questo passaggio riesce se qualcuno s'indigna. Specialmente se è importante ma al tempo stesso poco pericoloso, come ad esempio la Chiesa. L'indignazione è la solita fonte di pubblicità. Lo stilista Farhad Re sceglie, invece, di definire addirittura l'amore. Si può amare tutto, dice: le diete, la droga, l'alcol, mettiamoci pure Marx, che è démodé, o il Duce, Gesù, i Guns n’ Roses, la pillola del giorno dopo.
Il guaio è che, poi, c'è sempre qualcuno che ci crede, o perché è scemo o perché crede nell'improbabile, o perché - più realisticamente - ha una gran confusione in testa. E poiché il pensiero a sua volta non è molto di moda, sono sempre in pochi quelli che si domandano: se tutto questo amore fosse vero, noi dovremmo essere già tutti felici, invece com'è che non lo siamo affatto?
«Il Giornale» del 29 gennaio 2007

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