27 febbraio 2007


Vignetta di Giannelli apparsa sul Corriere della sera del 25 febbraio 2007,
relativa alla crisi del governo Prodi

Perché Dio abita in alto

Le fedi hanno sempre collocato i luoghi sacri sulle vette: per indicare trascendenza o distacco? Uno scrittore non credente e un teologo a confronto
Erri De Luca: «Di fronte alla roccia si riconosce la nostra friabilità»
«Ma nella Bibbia le montagne non sono stabili, per non farne idolo: solo l’Onnipotente può dare rifugio»

Le montagne sono al loro posto da prima di noi e dureranno dopo la scomparsa della nostra specie. Di fronte alla loro consistenza si riconosce meglio la nostra friabilità. Solo le ossa, nostra dotazione minerale, tentano imitazione.
Vado alle montagne per approfondire il sentimento di essere un intruso del pianeta, il contrario del possidente. Mi aiuta l'origine meridionale, residenza di vulcani e scosse periodiche, maestre di tarantella e di precarietà. Quando il suolo si mette a friggere come il sole nella costellazione del Leone, si sta tra due fuochi. Noi del Sud siamo pulci che saltano a comando.
In scrittura sacra neanche le montagne sono stabili, per insegnare che neppure in loro si trova via di scampo. Dopo il diluvio l'umanità si arrocca su una torre fortezza avvitata nei cieli. Ma rifugiarsi in un'opera è affidarsi a un idolo. Il Dio unico scende a sgomberare il cantiere.
In scrittura sacra unico riparo è la divinità, la salvezza è affidarsi al suo sbaraglio. Perché mai da lei proviene una prudenza, una via di mezzo: si deve conquistare la terra promessa in schiacciante inferiorità numerica, Mosè è spedito all'assurda impresa di staccare un popolo di schiavi dalla superpotenza dell'Egitto, Geremia va a gridare in Gerusalemme assediata la resa a Nabucodonosor, Giona ad annunciare il finimondo a Ninive.
Amo la scrittura sacra perché è estremista, più di qualunque altra. Perciò neanche la geografia sta quieta: «Le montagne saltarono come arieti, le valli come cuccioli di gregge» racconta il salmo (114,4). E il Sinai vallo a trovare, prova a piantarci sopra la bandierina, se sai dove sta. Il Sinai è il Horeb, due nomi sono il minimo per una montagna introvabile e data per trovata varie volte, nel gioco dell'oca dell'archeologia.
Il Sinai, Horeb, har Eloh ìm, monte di Elohìm, ha due soli alpinisti, in solitaria: Mosè, tre volte in vetta, Elia che si accampò in una sua grotta a ricevere la più speciale manifestazione fisica della divinità, la voce in una polvere sottile.
Con Mosè finisce l'alpinismo della storia sacra, che è iniziato alla rovescia, in discesa, con Noè che si ritrova attraccato alla cima dell'Ararat col suo barcone a cesto e da lì scende insieme ai rappresentanti della zoologia salvata.
L'alpinismo prosegue con la torre costruita nella valle di Shinàr, dispersa dal brusio di lingue spiccate tutte insieme dalle labbra, perciò detta Babele, voce che viene da un verbo di mescola e d'impasto. La fabbrica tentata per impiantarsi in cielo fallì, restando però il più visionario edificio della specie umana.
Mentre la costruiscono anche la scalano. Una scalata è una costruzione di passi verso l'alto, un'opera sul vuoto. Come quelli della torre, gli alpinisti sono costretti a scendere. La cima è un vicolo cieco, dove si sbatte contro lo sbarramento del cielo. Ogni discesa da una cima contiene una piccola parte della ritirata dalla torre.
L'appuntamento sulle alture della scrittura sacra comporta la salita dell'uomo e la discesa divina. S'incontrano lassù perché più sopra il bipede senz'ali non può andare. È un movimento a fisarmonica fra la terra e i cieli, che si contraggono in un punto, raggiungono la coincidenza, chiusura di strumento, poi si separano in direzioni opposte. Uno riscende a valle, l'altro scompare dietro la curva dell'universo.
Tutta la storia sacra è a fisarmonica. Il popolo d'Israele s'allontana dalla divinità esigente, poi fa ritorno, oppresso da nemici ma pure da una nostalgia, perché così è l'amore che si sono giurati. Le loro solitudini, quella di un Dio unico e totale e quella di un popolo staccato dagli altri, combaciano. Staccato da tutti gli altri, non «eletto»: il verbo ebraico è quello di chi compie una separazione, non una preferenza.
Il Golgota spellato come un tesch io è l'ultima stazione di montagna. La storia ebraica del monoteismo, dopo di quella, prosegue in pianura, naviga, emigra verso l'Occidente. La storia di quel piccolo popolo incastrato tra il Giordano e il mare, tra il Libano e il deserto, si trasferisce verso il nuovo mondo, Atene, Roma, Americhe di allora.
Matino: però anche Satana sta sul monte delle tentazioni
«La divinità è dove si respira pulito. Invece l’uomo sta in basso e solo pochi possono toccare la cima»
Dove risiede Dio, da dove governa il tutto? La domanda non è retorica, è decisiva. La risposta è talmente importante che qualifica la fede: la giustifica o la nega. «Mostrami il tuo volto» è la preghiera di chi cerca conforto nell’Assoluto, di chi spera in una mano potente per sconfiggere i nemici e per rifugiarsi in luoghi sicuri.
«Dove abiti?» (Gv 1,37) è una domanda ancora più incalzante. È una provocazione, sconcertante. È una bestemmia per chi nega residenze all’Assoluto, tuttavia indica percorsi, faticosi itinerari di chi nel dolore cerca carezze, altre mete, mura diverse da quelle della storia di soli uomini con uomini. Invocazioni, preghiere che fanno da eco alle proteste generate dallo stesso desiderio, questa volta tradito, deluso, infangato: «Se tu fossi stato qui!» (Gv 11,21).
Forse per questo le fedi nell’Assoluto hanno sempre collocato molto in alto, sulle alte vette, il luogo caro alla divinità. Olimpo o Sinai, Tibet o Kilimangiaro, Aconcagua o Himalaia sono sempre luoghi dove l’aria diventa più pura, più sottile, difficile da respirare. Luoghi che quasi nessuno, solo qualche eletto, può raggiungere, perché si rischia la vita.
L’altezza indica la differenza tra Dio e l’uomo, la distanza qualitativa, l’impossibilità di rintracciare. Dio è Dio e l’uomo è uomo. Dio sta in alto, l’uomo in basso e quando la sofferenza, la nostra, pone domande è sempre possibile rifugiarsi nell’idea della differenza: il problema è qui, giù da noi. In alto è diverso, là si respira a ria pulita. Tutte le religioni tendono ad avvicinare il credente alla vetta, senza mai concedergli di raggiungerla. Non è dell’uomo arrivare alla cima.
Tuttavia il lento arrampicarsi sui pendii del sacro permette di abituarsi all’altezza, all’aria pura non inquinata che rinnova quella corrotta dal tormento del peccato. Sarà per questo che i luoghi di preghiera, sempre più alti, come navicelle puntate verso l’imprendibile, sembrano toccare il cielo con guglie, minareti, campanili carichi di attese, di dolore, di speranze. Montagne costruite da uomini col chiaro intento di rimandare alle vette, le vere, che restano l’unico luogo dove il cielo incontra la terra, dove un Dio potrebbe costruire la sua dimora.
Ogni religione ha i suoi monti: il più sacro è sempre il più alto. Stranamente, però, anche il diavolo, il principio del male, frequentatore di fogne, abisso e non altezza, frequenta alte vette e una in particolare gli è abbastanza familiare. Fatto sta che proprio su un alto monte tenta il Signore. Ma che fa Satana su per i monti? L’aria rarefatta può essere respirata da chi ha inquinato con ogni nefandezza il progetto originario? Non è l’altezza da niente quella dove conduce il Maestro. Ognuno si aspetta che le idee chiare e distinte trovino conferma nella separazione precisa tra bene e male e nella netta distinzione dei luoghi: Dio sta in alto, il diavolo in basso. Eppure l’altezza in questione non solo è ragguardevole ma anche superiore alle altre.
Il silenzio rumoroso delle vette fa paura, ma fa pensare, fa decidere: decidere di pensare o, per paura, decidere di non decidere. Forse è meglio restare sulla linea di confine tra i diversi destini, per natura separati: Dio a casa sua, l’uomo al suo posto. «Tutto questo sarà tuo», ma a quale prezzo? La scelta non è facile: si rischia di cambiare il gioco.
Dall’alto di un monte puoi vedere vette sorelle che si stagliano precise e aspettano ansiose di essere scalate per guardare in basso da un’altra visuale. Raggiu ngerle non sembra facile, ma è dello scalatore lasciarsi provocare dalle altezze più insidiose. Quelle cime potrebbero diventare nuova storia. Sta al Maestro decidere se scalarle, se ne vale la pena.
«Avvenire» del 27 febbraio 2007

Gli scrittori stranieri non leggono gli italiani

Il «Times» anticipa i titoli più letti da centoventicinque narratori internazionali
di Pierluigi Panza
Nemmeno uno tra i primi venti. Comandano Tolstoj, Flaubert e Nabokov
Che scrittori piacciono ad alcuni tra gli scrittori occidentali più famosi del mondo? La risposta è questa: russi, inglesi, francesi ma rigorosamente non gli scrittori italiani. In una classifica stilata da 125 tra i più influenti scrittori inglesi, americani e australiani, che sarà pubblicata in un libro («The Top Ten: writers Pick their Favorite Books») e che è stata anticipata da «The Times», tra i primi venti autori e rispettivi libri preferiti dai 125 narratori non figura nemmeno un italiano. I vari Norman Mailer, Tom Wolfe e Stephen King se ne guardano bene dal leggere Manzoni o Pirandello, Svevo o Calvino e tantomeno Boccaccio o l’Ariosto. Quando, come comuni mortali, vanno a letto e accendono la luce del comodino loro si mettono a leggere, nell’ordine, Anna Karenina di Lev Tolstoj, Madame Bovary di Gustav Flaubert o Guerra e Pace pure di Tolstoj. Seguono Nabokov, Mark Twain e William Shakespeare. Ci sono Cervantes, Dickens, Dostoevskij e anche García Márquez tra i primi venti. Omero strappa il 15esimo posto con il libro dei libri, l’Odissea. La Bibbia è citata tra i libri preferiti solo da sei dei 125 autori, largamente meno di Lolita. Sarà il segno dei tempi. Si ricorda di noi italiani - almeno dai dati che compaiono nell’anticipazione di «The Times» - solo la non nota scrittrice di Sheffield Margaret Drabble che, bontà sua, si ricorda della Divina Commedia e la piazza al sesto posto, con la consolazione, se non altro per Dante, di essere preceduto al quinto posto dal maestro Virgilio con l’Eneide. Veniamo ad alcuni autori noti. Norman Mailer flirta solo con la letteratura russa: piazza ai primi quattro posti i due capolavori di Tolstoj e due di Dostoevskij, in una top ten list che comprende anche Moby Dick, Il rosso e il nero e i Buddenbrook. Se Mailer ama i russi, Tom Wolfe preferisce i francesi. Ai primi tre posti della sua personale classifica dei più letti figurano Émile Zola, Honoré de Balzac e Guy de Maupassant. Quanto al re del brivido Stephen King leggerebbe in primo luogo The Golden Argosy, un’antologia di racconti di Faulkner, Poe, Fitzgerald e altri seguito da Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e dai Versetti satanici di Salman Rushdie. Molti di loro ricordano soprattutto i libri diventati film con indimenticabili protagonisti. Con buona pace per l’importanza assegnata alla scrittura. È un po’il trionfo del plot sul bello stile, insomma, anzi il ritorno del romanzo e del romanticismo. Niente di male, il parere dei grandi autori d’oltremare non è il giudizio divino, forse un campanello d’allarme per la nostra letteratura. E, se vogliamo, anche per la letteratura contemporanea visto che nessuno dei 125 autori pare voglia leggersi, ad esempio, Ian McEwans. Come si risponde dal Belpaese? In una recente e analoga riflessione proposta dal premio Mondello a quindici autori italiani (erano Vanessa Ambrosecchio, Camilla Baresani, Giosuè Calaciura, Mario Desiati, Philippe Forest, Margherita Ganeri, Giuseppe Genna, Pietro Grossi, Filippo La Porta, Raffaele Manica, Alessandro Piperno, Evelina Santangelo, Domenico Scarpa, Antonio Scurati, Gonzalo M. Tavares) Italo Svevo era risultato il più nominato, con Proust, Kafka e Joyce. Alessandro Piperno metteva nel suo Olimpo personale anche Mann, Broch, Gadda, Nabokov e Bellow mentre Antonio Scurati invitava a guardare a una pluralità di riferimenti. Nessuno citava i grandi del romanzo russo in testa alla classifica presentata da «The Times». Perché? «Il romanzo russo ha grandezza effettivamente incomparabile e impareggiabile», afferma Scurati. «Il perdurare della gloria di Tolstoj dimostra come il problema della lingua sia un falso problema. Quel che conta è l’immaginario, il romanzo come reticolo di topoi; siamo al passaggio dall’elocutio alla topica, dalla scrittura all’immaginario. E su questo terreno la nuova narrativa italiana si muove con forza, ma all’estero non se ne sono accorti». Anche Stefano Zecchi, scrittore e professore di Estetica a Milano, pensa che il problema stia nel fatto che «in Italia ci sono scrittori, ma non romanzieri. Qui si scrive per il Nobel o per la politica, ma non per l’intrattenimento, per la creazione di storie. Anzi, chi scrive storie romantiche e thriller, in Italia, è guardato con una certa derisione».

TU QUALI CONOSCI?

LA CLASSIFICA

  1. Anna Karenina di Lev Tolstoj
  2. Madame Bovary di Gustave Flaubert
  3. Guerra e Pace di Lev Tolstoj
  4. Lolita di Vladimir Nabokov
  5. Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain
  6. Hamlet William Shakespeare
  7. Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald
  8. Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust
  9. Racconti di Anton Cechov
  10. Middlemarch di George Eliot
  11. Don Chisciotte di Miguel de Cervantes
  12. Moby Dick di Herman Melville
  13. Grandi Speranze di Charles Dickens
  14. Ulisse di James Joyce
  15. Odissea di Omero
  16. Gente di Dublino di James Joyce
  17. Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij
  18. Re Lear di William Shakespeare
  19. Emma di Jane Austen
  20. Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez
  21. L’urlo e il furore di William Faulkner

Il libro e il curatore Afferma J. Peder Zane, che ha curato il libro «The Top Ten: writers Pick their Favorite Books» ( Norton, £. 9,99): «Mai, prima d’ora, abbiamo avuto tanti libri tra i quali scegliere. Ma ogni scelta diventa una tortura»

«Corriere della sera» del 25 febbraio 2007

Nella hit parade degli scrittori classico batte contemporaneo

125 autori del mondo anglosassone hanno scelto i libri più belli di tutti i tempi
Vince la letteratura dell'Ottocento, con Tolstoj. Poche citazioni per quella di oggi
di Enrico Franceschini
Fra i primi venti solo il libro di un vivente: Cent'anni di solitudine

Classici battono contemporanei dieci a zero. O giù di lì. Non si tratta di calcio, bensì di letteratura: un sondaggio tra 125 scrittori americani, inglesi e australiani per scoprire quali sono i romanzi più belli di tutti i tempi, i dieci libri che ognuno dovrebbe portare con sé su un'isola deserta, o al limite anche su un'isola abitata, insomma i libri da non perdere. Ebbene, gli scrittori di oggi hanno scelto, quasi esclusivamente, scrittori di ieri, o anche di ieri l'altro.
La letteratura dell'Ottocento stravince questa speciale graduatoria, con gli scrittori russi che occupano in maggioranza le primissime posizioni e uno su tutti che risulta, per così dire, il campione del mondo: Lev Tolstoj, che con i suoi due capolavori "Anna Karenina" (primo posto) e "Guerra e pace" (terzo), conquista due delle prime tre piazze.
Segno che gli scrittori contemporanei non hanno una grande opinione dei libri che loro stessi scrivono? Il sospetto è legittimo. Martin Amis, Ian Mc Ewan e Salman Rushdie, per citare tre di quelli più stimati dalla critica e più premiati dalle vendite, hanno ricevuto appena un pugno di citazioni dai centoventicinque intervistati, che comprendevano gli stessi Amis, Mc Ewan, Rushdie, e tra gli altri Norman Mailer, Stephen King, Tom Wolfe.
Alle spalle di Tolstoj, in seconda posizione, si è classificato un altro grande classico dell'Ottocento, Flaubert, con "Madame Bovary". La lista dei primi dieci è completata, nell'ordine, da "Lolita" di Vladimir Nabokov, "Le avventure di Huckleberry Finn" di Mark Twain, "Amleto" di Shakespeare, "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald, "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust, "I racconti" di Anton Checov e "Middlemarch" di George Eliot. Trai primi venti, c'è un solo scrittore vivente: Gabriel Garcia Marquez, con "Cent'anni di solitudine", il romanzo che ha fatto vincere allo scrittore colombiano il premio Nobel per la letteratura e che ha affermato nel mondo la narrativa latinoamericana.
I risultati del sondaggio diventeranno a loro volta un libro, intitolato "Top ten" (I primi dieci). Prima ancora di leggerlo, ognuno di noi può chiedersi se è d'accordo con la classifica compilata dagli scrittori e domandarsi quali sono i nostri personali "top ten", i dieci libri da non perdere, quelli che bisogna assolutamente aver letto. Chissà se anche i non addetti ai lavori preferirebbero i classici ai contemporanei.
«La Repubblica» del 23 febbraio 2007

Contro il pensiero unico scientista

Parla il filosofo Adriano Fabris: «Il sapere scientifico ha un approccio parziale, eppure punta all'egemonia»
di Andrea Galli
«È decisivo riconoscere la legittimità delle tante domande di senso che salgono dall'uomo»
Uno degli stimoli recenti più suggestivi per quanto riguarda la riflessione sul concetto di "ragione" viene dal discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Ne parliamo con Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all'Università di Pisa.
Professore, cosa pensa della denuncia dei limiti di un una scientificità ridotta a «sinergia di matematica ed empiria» fatta a novembre dal Pontefice?
«Credo che quel passo evidenzi con chiarezza il pericolo di cadere in una sorta di "pensiero unico", unilaterale e uniforme, che verrebbe a caratterizzare il nostro rapporto con il mondo e con gli uomini. Si tratta, come viene ben detto, di un pensiero che mira ad acquisire certezze e che fa dipendere queste certezze dal rapporto sinergico di matematica ed empiria. È indubbio che esso è espressione di un progetto di egemonia da parte del sapere scientifico, nonostante la parzialità del suo approccio. Di conseguenza la filosofia, la psicologia, la sociologia e le altre discipline che si occupano dell'uomo si trasformano, appunto, in "scienze umane" e devono uniformarsi a un modello di "scienza" ben determinato. C'è il rischio però, in questa prospettiva, di ridurre all'irrilevanza questioni fondamentali, di cui queste discipline si sono sempre occupate. Fra di esse, decisiva è la questione del senso. E se gli uomini sempre di più, in questo tempo, si rivolgono con grandi aspettative alla filosofia, alla psicologia, alla sociologia e via dicendo, è perché nelle spiegazioni scientifiche, per quanto sofisticate che esse siano, non trovano risposta agli interrogativi di senso che sono propri della loro vita».
Benedetto XVI, oltre che a riflettere sui limiti, invitava a «mettere in questione», attivamente, la «riduzione del raggio di scienza e ragione». Come, secondo lei?
«Conseguenza dell'interpretazione unilaterale della ragione di cui parlavamo è anche la riduzione del problema Dio a qualcosa di "irrazionale". È questo, fra l'altro, lo sfondo ideologico che sembra legittimare tutta un a serie comportamenti sociali e di decisioni politiche perlomeno discutibili. Anche perciò vanno allargati i confini della razionalità, risemantizzando le nozioni di "ragione" e di "intelligenza", come peraltro stanno facendo oggi alcune scienze umane. Non bisogna dimenticare, infatti, ciò che ha mostrato il filosofo della scienza Paul K. Feyerabend: che l'indagine scientifica, anche quella delle scienze esatte, non può fare a meno, per il suo sviluppo, di ricorrere a presupposti ben precisi».
Potrebbe essere, questo ampliamento del raggio della scienza, la via per superare quelli che appaiono due errori contrapposti: l'esplosione della sfera magico-irrazionale e l'esaltazione della potenza trainante e taumaturgica della tecnica?
«Lo è senz'altro. Né bisogna dimenticare che il termine "scienza", così come la parola "metodo" e altre categorie del pensiero, hanno anch'essi molti significati. E su questa ricchezza semantica, precisamente articolata, bisogna far leva contro il "pensiero unico". Con un'importante avvertenza, però. È necessario elaborare un concetto di "ragione" che sia capace davvero di esprimere le esigenze vitali degli uomini. La domanda che s'interroga sul "perché" è la domanda di chi è alla ricerca di un senso: una domanda che si ripropone anche quando vengono date tutte le spiegazioni che, in una data epoca, le scienze possono avanzare. Credo che proprio recuperando uno spazio di legittimità per la domanda di senso e rivendicando a pieno titolo la razionalità dei tentativi di dare a essa una risposta, sia non solo possibile individuare la condizione per un vero dialogo fra le religioni».
La Chiesa, lo si deduce anche dalla semplice lettura del discorso di Ratisbona, difende la nobiltà e l'altissima capacità della ragione umana. Si batte contro chi la vuole appiattire, sminuire o amputare. Eppure questa posizione viene ancora rovesciata dai suoi critici in una caricaturale accusa di oscurantismo. Come spiegare questa mistificazione?
«Viviamo pu rtroppo in un momento in cui, più che il desiderio di dialogare, prevale la volontà di contrapporsi. Ma, al di là di quest'aspetto specifico, io credo che la tesi dell'irrazionalismo religioso sia la conseguenza di un più generale tentativo ideologico di ridurre la tradizione religiosa a qualcosa di marginale, o addirittura di ghettizzarla nel privato. Salvo poi concedere al credente, con mossa politically correct, la facoltà di esprimere, beninteso solo entro questi limiti, le proprie convinzioni. Ritengo invece che proprio nella rivendicazione di una ragione aperta e allargata nei suoi spazi possa essere mostrato che l'impegno della Chiesa, anche sul piano della riflessione teorica, non è finalizzato alla prevalenza di una parte, ma si pone, una volta di più, al servizio di tutti gli uomini».
«Avvenire» del 267 febbraio 2007

Inquietudine per la frontiera aperta a Londra

Si può alterare l'embrione
di Marina Corradi
La possibilità di alterare il patrimonio genetico dell'embrione entro il quattordicesimo giorno di vita, ipotizzata in Gran Bretagna in vista della nuova legge sulla riproduzione assistita, è ammessa - afferma il progetto del governo Blair - solo «per fini di ricerca». Esclusivamente «per fini di ricerca» dunque si potrà intervenire sul Dna di embrioni, che comunque verranno poi distrutti. Ma il limite, si precisa in una clausola del "libro bianco" anticipato dalla stampa inglese, vale «per il futuro prevedibile, e finché non siano garantite l'efficacia e la sicurezza di questi interventi».
E dunque, l'inquietudine suscitata dalla nuova frontiera aperta a Londra appare giustificata. Certo che la sperimentazione è "a fini di ricerca": ma quando questa ricerca approdasse a risultati concretamente applicabili, che cosa impedirebbe di offrire alla società le opzioni "migliorative" ottenute? Del resto, nel "libro bianco" si afferma anche che "il governo non è convinto della necessità di precludere ricerche che alterino la struttura dell'embrione". In questa logica, quando gli interventi sugli embrioni fossero «sicuri e efficienti», il primo passo sarebbe la eliminazione dei caratteri che apportano malattie ereditarie. Cominciando dalle più gravi per poi estendersi a più veniali "difetti", se non addirittura ai casi in cui il nascituro ha non la certezza, ma solo buone probabilità di sviluppare, a una data età, una data malattia.
Che la china su cui si avvia il governo Blair nell'aggiornare il "vecchio" Human Fertilisation and Embryology Act apra a una possibilità di eugenetica pare perciò possibile. La Gran Bretagna del terzo millennio potrebbe diventare il luogo in cui si verifica la profezia di Francis Crick, uno degli scopritori del Dna: «In un futuro nessun nascituro potrebbe essere dichiarato umano fino a che non abbia superato una batteria di test sul suo patrimonio genetico, e non superando questi test potrebbe perdere il diritto alla vita».
Ora, che ad opera di un governo labour, da una tradizione socialdemocratica, si apra la strada che potrebbe portare a un diritto alla vita soltanto dei sani, potrebbe apparire paradossale. I valori storici di quella sinistra non si richiamano forse, nella difesa operaia, nella creazione del welfare, alla tutela delle parti sociali più deboli? Eppure proprio l'"illuminato" Blair socchiude la porta a una prospettiva che per ora non è ammessa né in Europa né negli Usa, mentre ipotizzando la vendita di ovociti da parte di donatrici retribuite ammette anche il libero mercato del materiale genetico.
Paiono, gli ultimi colpi del governo Blair, il rumorio stonato e confuso di una cultura che imploda su se stessa. Dove alla difesa storica della classe operaia è subentrata la difesa della middle class borghese; e al diritto collettivo a condizioni di vita dignitose si sono sostituite inclinazioni individuali, che pretendono di farsi diritti. Metamorfosi possibile se al centro di un progetto politico c'è non l'uomo, ma - alla fine - il suo presunto benessere nell'accezione più materialista.
La briglia sciolta in materia di riproduzione assistita e ricerca non solo soddisfa i "desideri-diritti" di chi vuole un figlio fuori dalla naturalità, ma fa della Gran Bretagna l'avanguardia in una ricerca economicamente promettente. I soggetti deboli di queste mutazioni - i nascituri che non nasceranno nella logica del "diritto al figlio sano", i figli senza padre o assegnati a coppie gay nella logica del "diritto al figlio" - non scioperano, e non hanno sindacati. Nemmeno proletari ma "ultimi" davvero, dimenticati da una politica che ha perso orientamento e memoria nell'inseguire non un bene comune, ma l'appagamento, possibilmente immediato, dei privati desideri.
«Avvenire» del 27 febbraio 2007

La Storia divisa

Le polemiche seguite a «Pasque di sangue» sugli omicidi rituali che sarebbero stati commessi alla fine del Medioevo
di Sergio Luzzatto
Caso Toaff: il rischio di un pensiero unico se il dibattito è fuori dallo spazio e dal tempo
Dopo che il libro di Ariel Toaff sugli ebrei d’Europa e gli omicidi rituali nel tardo Medioevo, Pasque di sangue, era stato giudicato «aberrante» dai rabbini d’Italia prima ancora che ne avessero potuto leggere una singola pagina, era lecito augurarsi due cose. La prima: che gli storici di mestiere aprissero intorno al volume un dibattito critico. La seconda: che gli intellettuali difendessero comunque la persona di Toaff, la sua piena libertà di ricerca e di espressione. Il dibattito critico si è effettivamente aperto, con il contributo di alcuni fra i maggiori studiosi italiani del Quattro e del Cinquecento (sul Corriere della Sera di venerdì 23 febbraio, Carlo Ginzburg). È stato un dibattito serio, quanto può esserlo una discussione intorno a problemi complessi che si svolge sulle pagine di giornali a larga tiratura anziché in sedi accademiche o scientifiche. E sono emersi due limiti gravi del lavoro di Toaff. Anzitutto, la scarsa chiarezza del suo discorso intorno al carattere episodico o seriale dei reati di sangue da lui attribuiti ai «fondamentalisti» dell’ebraismo ashkenazita tardomedievale. Inoltre, l’impiego disinvolto di testi prodotti dalla controversistica cattolica del Sei o del Settecento, troppo spesso viziati da un pregiudizio antisemita. Ma è stato un altro l’argomento principale brandito dai critici di Toaff, sulla base del quale il libro è stato gettato alle ortiche della storiografia, o addirittura alla sentina dell’etica: l’autore avrebbe preso per buone, quali fonti a sostegno della sua tesi sulla reale occorrenza di omicidi rituali, testimonianze estorte agli imputati attraverso l’uso della tortura. Argomento in apparenza solido, e di sicuro effetto mediatico. Peccato che si tratti di un argomento tre volte pretestuoso. È pretestuoso perché Toaff stesso, lungi dall’ignorarlo, lo prende in conto ad ogni pagina del suo libro, salvo rispondere che a testimonianze di quel genere va riconosciuto un valore, ove se ne trovino riscontri in altre fonti dell’epoca. È pretestuoso perché non soltanto Pasque di sangue, ma molti altri libri importanti di storia religiosa del Quattro e del Cinquecento si fondano sopra fonti inquisitoriali identiche a quelle impiegate da Toaff: testimonianze estorte con la tortura, ma riscontrate mediante controlli incrociati. Ed è pretestuoso perché rimprovera a Toaff di avere fornito «indizi» anziché «prove»: quasi che lo studioso di crimini commessi sei secoli fa possa muoversi sulla scena del delitto con gli strumenti di un ispettore del Ris, trovando in un angolo la pistola ancora fumante, oppure anche meglio tracce organiche da sottomettere alla prova del Dna... Naturalmente, che qualcosa venga confessato sotto tortura non è una prova che quel fatto sia vero. Però, non è neppure una prova che quel fatto sia falso. Lo sanno bene gli aguzzini del ventunesimo secolo, che ancora si servono della tortura non solo per architettare teoremi accusatori o teorie del complotto, ma anche per estorcere ai seviziati informazioni utili circa attività passate, trame presenti, progetti futuri. Da questo punto di vista, escludere a priori che alcuni ebrei fanatici del Medioevo abbiano compiuto gesti omicidi, per il solo motivo che l’hanno confessato sotto tortura, è un ragionamento che dovrebbe offendere qualsiasi intelligenza. Di là dalla discussione di metodo sul libro di Toaff, avvilente è stato lo spettacolo offerto dagli intellettuali italiani in quanto comunità scientifica. Rare, rarissime sono state le prese di posizione in difesa della libertà della cultura, come quella ferma e forte di Piero Ignazi sul Sole-24 Ore. Abbondanti, abbondantissime sono state le reazioni scomposte e le denunce infondate. Colleghi che fino al giorno prima della pubblicazione di Pasque di sangue avevano condiviso con Toaff la direzione della maggiore rivista accademica sulla storia degli ebrei in Italia hanno improvvisamente scoperto che si erano seduti per anni accanto a un dilettante della storiografia, e lo hanno altamente proclamato sui maggiori giornali. Insigni studiosi hanno accusato Toaff di attentare, nientemeno, alla sacralità del Giorno della Memoria: suggerendo un nesso (introvabile, se non nel delirio dell’antisemitismo) fra quanto possa essere accaduto a Ratisbona o a Trento nel tardo Quattrocento e quanto è avvenuto in Europa al tempo della Shoah. Appena pochi giorni prima dell’uscita di Pasque di sangue, la preoccupazione per i rischi insiti nel principio di una «verità storica di Stato» aveva spinto un nutrito gruppo di studiosi a firmare un appello contro il progettato decreto del ministro della Giustizia Mastella, che elevava a reato la negazione della Shoah. Dunque, persino le farneticazioni di quanti negano l’esistenza delle camere a gas erano sembrate degne di tutela giuridica a quanti difendono un’idea di storia come libera ricerca sul passato. Mentre gli studi di un professore da tutti stimato fino a un mese fa, anni e anni di lavoro nelle biblioteche e negli archivi, anni e anni di confronto intellettuale con colleghi e studenti, gli hanno meritato da un giorno all’altro una reputazione infamante. Il fatto che Toaff sia stato lasciato solo ad affrontare la bufera scatenata dal suo libro spiega gli sviluppi successivi della vicenda. La minaccia pendente sul suo capo di perdere il posto di docente universitario in Israele. Il tentativo di alcuni colleghi dell’università Bar-Ilan di prenderne le difese, salvo arrendersi alle ragioni politiche della situazione israeliana e alle pressioni economiche della diaspora americana. Infine, l’abiura di Ariel Toaff: il libro ritirato dal mercato italiano; i diritti d’autore devoluti alla medesima organizzazione ebraica statunitense, l’Anti-Defamation League, che senza nulla sapere del contenuto del volume lo aveva dichiarato ignobile; le scuse presentate da Toaff agli ebrei d’Israele e del mondo. La morale dell’intera vicenda va tratta da un’intervista rilasciata a la Repubblica dal padre di Ariel, Elio Toaff. L’ex rabbino capo della comunità ebraica di Roma si è pubblicamente compiaciuto dell’abiura del figlio, salutandone il ritorno all’ovile del pensiero unico sulla storia dell’ebraismo. Un pensiero che non ammette neppure la possibilità che gli ebrei abbiano avuto una storia in comune con altri uomini e altre donne, i «gentili»: storia fatta di incontri e di scontri, di convivenza e di intolleranza, di rispetto e di odio. Un pensiero che ha bisogno di considerare gli ebrei come al di fuori dello spazio e del tempo: mai nel bene o nel male attori vivi della storia, ma sempre, comunque, unicamente personaggi disossati, agnelli sacrificali, vittime vittime vittime. «Non è parlando di sciocchezze come queste che si salvaguarda la vera essenza dell’ebraismo», ha dichiarato Toaff padre a proposito del libro del figlio. E si avrebbe voglia di replicare, al venerando rabbino emerito della comunità di Roma: «Maestro, siamo proprio sicuri che l’essenza dell’ebraismo si salvaguardi con l’interdetto etico e scientifico? Siamo sicuri che l’abiura alla quale suo figlio è stato obbligato non rappresenti, al contrario, una vergogna per gli ebrei così come per i gentili?».
«Corriere della sera» del 26 febbraio 2007

L’Europa impari dall’America arrogante il rispetto per i vinti

di Pierluigi Battista
Chi detesta l’America, la sua arroganza imperiale, il suo culto della potenza, il suo disprezzo per i deboli e i perdenti, dovrà pur spiegare perché l’odiata America, e solo l’odiata America, sia invece così incline a comprendere e far proprie le ragioni dei «vinti», a meditare sul cuore umano della sconfitta, a raccogliere con gesto pietoso le bandiere imbrattate di fango e stracciate dai vincitori. E perché, al contrario, con molta difficoltà gli europei, così culturalmente blasonati, così inebriati dalla sensazione di essere gli unici titolari della finezza e della nobiltà di spirito, potrebbero concepire e realizzare un film nobile e generoso come «Lettere da Iwo Jima» di Clint Eastwood. Appare infatti come un gesto spontaneamente «americano» la scelta di raffigurare i vinti giapponesi di una battaglia che gli Stati Uniti ricordano con orgoglio, diventata, grazie a quella immagine della bandiera sorretta dai «nostri» a Iwo Jima di cui è dubbia l’autenticità fattuale ma non quella morale, un monumento iconografico nella memoria nazionale. I giapponesi impauriti e smunti, ma che combattono con onore, non cancellano la loro umanità, escono dalla dimensione mostrificata costruita attorno ai lineamenti di un nemico astratto, disincarnato, svilito a pura negatività. Eastwood, dopo il suo «Flags of our Fathers», ha reso esplicita questa scelta di guardare l’altra faccia della guerra santificata dalle ragioni dei vincitori. Non una «riabilitazione» dei vinti, ma un omaggio che in Europa oggi suonerebbe inconcepibile, sospetto, inopportuno. Non è per esempio pensabile che in Francia un film, non un libro per pochi lettori, ma un film destinato a colpire e plasmare l’immaginazione collettiva, possa onorare l’umanità della Vandea: ancora oggi, a secoli di distanza, una scelta del genere verrebbe considerata un oltraggio ai principi immortali della Rivoluzione. Ma in Spagna, in Germania, in Italia, in Gran Bretagna, è immaginabile che i vincitori, forti e convinti di se stessi, orgogliosi di ciò che sono, sappiano tuttavia chinarsi nella contemplazione rispettosa dei vinti? In America sì, questo miracolo ha sempre funzionato. Uno dei film più famosi e celebrati di tutti i tempi, «Via col vento», ruota sulla rappresentazione del mondo dei vinti, dell’universo simbolico, culturale ed affettivo del Sud sconfitto, non certo rivalutato nella sua dimensione schiavista e tuttavia rispettato come un pezzo della storia americana che non può essere cancellato e annichilito dalla «damnatio memoriae». Una guerra civile devastante, vinta dalla parte «giusta», non ha però portato alla diffamazione demonizzante ed eterna della parte «sbagliata», sconfitta dalla storia, ma pur sempre ricompresa e rielaborata con il rispetto che si deve alla memoria di chi ha perduto. Da noi invece il gesto di Clint Eastwood, che non «riabilita» i giapponesi di Iwo Jima, ma non può più caricaturizzarli come stereotipi del nemico, verrebbe guardato con diffidenza e malumore. Da noi persino una fiction storica che semplicemente conferisce ai «vinti» un fondo di umanità viene sottoposta al fuoco di una critica abituata a misurare con pignoleria il grado di correttezza politica e storiografica ogni trasposizione di una vicenda storica nel campo della fiction. Come se la guerra non fosse finita. Come se non fosse compito di chi la guerra l’ha vinta di non rinchiudersi per sempre nella protervia del vincitore sordo alle memorie irriducibili di chi la guerra perduta non può nemmeno scriverla. Un’altra lezione, dall’America arrogante e imperiale. Molto più umile e umana, però, di chi in Europa, non sa rinunciare alla pretesa della propria superiorità.
«Corriere della sera» del 26 febbraio 2007

Poca cultura. E la creatività di un Paese svanisce

di Francesco Alberoni
Se un Paese perde le sue radici culturali, la sua storia, la sua arte, la sua lingua diventa incapace di creare, e svanisce. Al tramonto dell’impero romano, gli artisti non erano più capaci di fare un ritratto, di scolpire una statua, nemmeno un capitello. E oggi io vedo, in Italia e in Europa, la stessa pericolosa decadenza della capacità di creare. L’Italia distrutta e povera del dopoguerra ha prodotto un grandissimo cinema e grandi scrittori come Moravia, Buzzati, Gadda. E pensiamo alla fioritura culturale francese con pensatori come Sartre, Camus, Barthes, Foucault, Morin. Ma non voglio annoiarvi con i nomi. Basta dire che questi due Paesi, anche da soli, davano un contribuito essenziale alla cultura mondiale. Oggi non è più così. E non si può attribuirlo, all’improvviso irrompere di autori indiani, cinesi, giapponesi o arabi. Dobbiamo domandarci se non abbiamo compiuto qualche errore fatale. Io penso di sì. L’abbiamo fatto quando abbiamo incominciato a disprezzare la nostra cultura, la nostra storia, la nostra scuola classica, la nostra filosofia, la nostra lingua, quando abbiamo rinunciato a prendere come modelli da imitare i nostri grandi personaggi. E quando abbiamo ristretto i programmi scolastici di italiano, di latino, di storia, di filosofia, a pensare che tutto si possa ridurre ad apparenza, immagine. A credere che la lingua, il pensiero razionale sistematico non siano più importanti e si possa fare ogni cosa improvvisando, e che basti un vocabolario di mille parole. E che la storia sia inutile, per cui anche i manager, i professionisti, i politici affermati spesso non sanno chi erano Giacobbe, Teodorico o Ruggero Bacone e, nonostante la mondializzazione, non sanno nulla della storia dell’India o della Cina. Certo, conoscono i cantanti, i calciatori, i politici, seguono i talk show e sfogliano i giornali. Ma questo tipo di cultura non consente di leggere e di capire un qualsiasi libro serio di saggistica o di filosofia. E chi non sa leggere questi libri non saprà mai nemmeno scrivere. E nemmeno fare un progetto, perché non saprà pensare in grande e in modo logico e sistematico. Ma paradossalmente questa cultura non basta nemmeno a fare buoni programmi televisivi (che, infatti, ormai acquistiamo dall’estero) e film che si impongano nel mercato mondiale. Se non vogliamo svanire dobbiamo tornare a spostare tutti i nostri standard verso l’alto: verso il rigore, la cultura, la fantasia, l’eccellenza.
«Corriere della sera» del 26 febbraio 2007

24 febbraio 2007

Toaff, il triste epilogo della rinuncia

di Franco Cardini
Ariel Toaff chiede all'editore Il Mulino di ritirare il suo «Pasque di sangue», di recente comparso nelle librerie e che aveva suscitato, come si sa, molto interesse ma anche molte polemiche. La quarta di copertina del libro che non vedremo più in circolazione, o che ricomparirà magari tra qualche mese in edizione "riveduta e corretta", o che saremo costretti ad acquistare e a leggere in una lingua diversa dalla nostra, diceva che questo libro «affronta coraggiosamente uno dei temi più controversi nella storia degli ebrei d'Europa». In un articolo comparso il 10 scorso su "Repubblica", che discuteva appunto tale libro e che conteneva peraltro molte interessanti e condivisibili osservazioni, uno studioso che ammiro, Adriano Prosperi osservava: «Non si capisce bene dove sia il coraggio visto che la tesi qui sostenuta legittima le accuse dei vincitori e le persecuzioni dei vinti»: ma, parlando di «vincitori», Prosperi alludeva evidentemente a quelli ch'erano stati tali alcuni secoli fa, ma che senza dubbio - da allora - hanno subìto una forte e dura sconfitta dinanzi alla storia. Ora, penso che anch'egli si sia ricreduto: se Ariel Toaff è giunto a un passo del genere, è evidente che la situazione attorno a lui si era fatta pesante; e, siccome nessun essere umano è tenuto a un coraggio illimitato, egli ha esaurito la sua scorta. Lo comprendo: io, l'avrei esaurita molto prima. Poiché era appunto evidente in che cosa consistesse il coraggio di Ariel Toaff: nel fatto cioè che oggi il discutere di qualunque tema storico riguardi ebrei ed ebraismo è divenuto estremamente difficile e delicato. Tra il sereno confronto fra tesi e ipotesi storiche da una parte, il mondo ebraico dall'altra, v'è l'ombra tragica della Shoah con tutto quel che comporta: comprese le penose discussioni relative a revisionismo e negazionismo. Non fingiamo che tutto ciò non ci riguardi, non dissimuliamo il nostro turbamento dinanzi al pericoloso gorgo d'interferenze continue tra ricerca storica, uso della storia, speculazione politica e quindi condizionamento della libertà d'espressione che tutto ciò comporta. Dalla proposta Mastella di sancire per legge quale sia la verità storica, che ricalca altre penose scelte del genere adottate da altri paesi europei, sino alla decisione di Toaff corre un filo nero che rischia di strangolare la libertà, e quindi anche la cultura e la ricerca scientifica, che senza libertà non possono svilupparsi appieno. E tutto ciò in un paese del "nostro Occidente" così fiero della sua democrazia e delle sue libere istituzioni che pretende addirittura d'essere in diritto d'esportare. Magari con la forza, come s'è di recente visto. Questa è una cocente sconfitta per tutti, per la nostra cultura e per la nostra società. Un libro ritirato dal commercio, a pochi giorni dalla sua uscita, equivale a un libro distrutto. A un libro bruciato. I libri, li bruciavano gli inquisitori e i nazisti. Non nascondiamoci dietro un dito. Uno studioso serio è stato sommerso da un torrente di critiche alcune delle quali magari plausibili e sotto il profilo scientifico perfino sacrosante o comunque legittime, ma altre del tutto extrascientifiche e per giunta formulate aprioristicamente, addirittura prima che il suo libro uscisse e da gente che evidentemente nemmeno l'aveva letto. Non so se abbiamo il diritto di chiedere ad Ariel Toaff spiegazioni su quanto ha dovuto fare. Un senso di rispetto e di pietas (non solo - e non tanto - nei suoi confronti) m'indurrebbe quasi a ritenere che di questo brutto episodio sarebbe meglio non parlar più. Finger che non sia mai accaduto. Il fatto è che, purtroppo, è successo. E questo obbliga tutti noi a farci un sacco di tristi, dure, compromettenti domande. Verso quale altro 1984, verso quale altro «Fahrenheit 451» si sta dirigendo la nostra iperliberissima società?
«Avvenire» del 16 febbraio 2007

Obbligati a essere sani

In Europa si fanno strada politiche sanitarie aggressive: campagne per stili di vita corretti e sanzioni per chi sgarra. Misure controverse e talvolta poco sensate
di Eugenia Tognotti
Sarà l'opposizione al salutismo di stato a creare un nuovo movimento di disobbedienti? Parrebbe di sì, a giudicare dall'annuncio di possibili interventi punitivi nei confronti di comportamenti dannosi per la salute, il cui costo sociale grava sul sistema sanitario. Dopo alcune avvisaglie a livello europeo, giunte dopo l'ultimo congresso di Istanbul sull'obesità, il governo ha annunciato, nell'ambito del piano Guadagnare salute, un pacchetto contro le morti evitabili, con campagne di sensibilizzazione per contrastare fumo, obesità e pratiche alimentari scorrette. Per i più riottosi a cambiare abitudini potrebbero essere previste, in futuro, sanzioni e misure di dissuasione.
Una filosofia sostenuta da importanti società medico-professionali. Qualche settimana fa, durante il suo 67° congresso, la Società italiana di cardiologia ha ipotizzato l'aumento del ticket su visite e analisi per coloro che si ammalano perché fumatori o sovrappeso. Una proposta che fa eco a quella della Gran Bretagna: tabagisti irriducibili e obesi finiranno in fondo alle liste di attesa per operazioni chirurgiche e trapianti cardiaci (a meno che non rinuncino ai loro vizi).
La salute rappresenta anche una responsabilità individuale, ha detto il ministro della Salute Livia Turco, annunciando possibili misure correttive per i recalcitranti. Sotto accusa obesità, fumo ed eccesso di alcol, un tempo compresi nella triade della perdizione (sanitaria) Bacco, Tabacco, Venere. Insomma, guai a fumatori, bevitori, oversize, sedentari.
Il modello Tony Blair fa scuola e anche da noi si profila lo «stato tata», per riprendere un'espressione del quotidiano inglese Telegraph che, dopo avere proposto l'interrogativo «il governo dovrebbe obbligarci a vivere più sani?», è stato sommerso dagli interventi critici dei lettori. I laburisti, ha scritto uno di loro, dovrebbero smetterla di condannare i comportamenti dannosi per la salute e preoccuparsi piuttosto di quelli che l'hanno perduta, cui il servizio sanitario non offre diagnosi e cure tempestive («La devono finire di dirmi che bevo troppo se non mi curano per la mia malattia»).
Se la maggioranza critica uno stato tutore sempre più invadente, che entra in cucina a misurare il sale e a legiferare su ogni aspetto della vita, non mancano commenti sul pericolo di sottovalutare alcuni fattori di rischio. Perché non mettere sotto accusa, propone un altro lettore, anche «i perversi stili di vita» che comportano malattie a trasmissione sessuale per le quali la Gran Bretagna è prima in Europa?
Invece di abbassare i limiti d'età per il consenso al sesso omosessuale, non sarebbe meglio promuovere la monogamia e la fedeltà? L'accusa, velata, di essere un peso per il sistema sanitario ha fatto arrabbiare i gay: non tutti sono sieropositivi, hanno protestato alcuni. Considerarli un peso per il sistema sanitario, ha scritto uno di loro, «è come ritenere gli esquimesi responsabili del riscaldamento globale».
Si affacciano così, nel concreto quotidiano, i temi cruciali di un dibattito che impegna da tempo esperti di sanità ed eticisti. Tutti concordano sulla responsabilità personale per la salute e sulla strategia di investire su campagne educative fondate su basi scientifiche, come nel caso del fumo. Sulle procedure d'intervento però, e sulle forme di coercizione, ci sono riserve e dubbi. Che valgono anche per l'Italia.
È lecita, per esempio, l'interferenza nella delicata sfera delle libertà dell'individuo, le cui scelte autonome possono avere conseguenze per la salute? C'è poi la questione della classificazione dei comportamenti rischiosi. «Noi oggi colpevolizziamo i fumatori e disapproviamo gli obesi e chi fa vita sedentaria» ha scritto il noto bioeticista americano Daniel Callahan (in La medicina impossibile, Baldini & Castoldi).
«Ma raramente facciamo obiezioni a coloro che praticano il deltaplano, il paracadutismo acrobatico, l'alpinismo e simili». Inoltre si rischia di trascurare le determinanti ambientali, sociali ed economiche e di colpevolizzare le vittime, con la pretesa che modifichino comportamenti su cui esercitano un limitato controllo.
Per adottare misure punitive occorrerebbe essere certi che alcune patologie sono causate da stili di vita scorretti. Ma molti sono i possibili cofattori nell'insorgenza di una malattia, compresa la predisposizione genetica. A innescare i tumori possono contribuire fumo, condizioni ambientali e lavorative, inquinamento.
Il problema della causalità si pone a proposito delle malattie legate a quella che viene indicata come «una dieta scorretta e sbilanciata». Quali prove esistono che cibi ricchi di grassi animali, per esempio, siano responsabili di malattie cardiovascolari? Studi comparativi su grasso e livelli di colesterolo in diverse culture e luoghi sono lungi dall'offrire elementi univoci.
Così Creta, con la sua dieta mediterranea, ha una delle più basse incidenze di malattie di cuore e un'alta aspettativa di vita nonostante l'alta quota di grassi introdotti (40 per cento). Sale addirittura al 48 per cento quella degli olandesi che godono di una delle più elevate aspettative di vita in Europa.
Insomma, un rompicapo, e non solo in Occidente. Il Giappone si trova di fronte al paradosso di un decremento dei tassi di morbilità per malattie di cuore in una società che ha una delle più alte percentuali al mondo di fumatori e che, negli ultimi 40 anni, ha conosciuto un incremento del 40 per cento nel consumo di grassi saturi. Nell'epidemiologia non v'è certezza, quando sono presenti più effetti e più cause (tra cui fattori ambientali e genetici).
Certo, la gente eviterebbe molte patologie se si prendesse maggior cura della propria salute. Il fatto è che non fumare e non bere, controllare la dieta, costringersi all'esercizio fisico richiede una forza di volontà pari a quella che sosteneva i santi nelle loro rinunce per la felicità eterna. Sennonché questa certezza è negata agli asceti laici del nostro tempo. Privarsi di una parte dei piaceri della vita non significa che qualcuna delle temute patologie, dal diabete all'infarto, non insorgano.
Non per questo sono inutili le campagne tese a diffondere linee guida, a responsabilizzare i singoli, a predicare la prevenzione. A patto di non scivolare nell'interventismo integralista o nel salutismo di stato, con un ministero della Salute trasformato in una sorta di sovrintendenza medico-sanitaria.
In un altro momento storico, all'indomani delle scoperte degli agenti patogeni di malattie infettive, l'interventismo dello stato, cedendo all'ossessione igienista, coltivò la velleità di riplasmare il corpo fisico e sociale e lo spazio urbano con i grandi risanamenti. Era l'utopia del Risorgimento sanitario. Le campagne sulla salute del nostro tempo usano invece il linguaggio dell'economia e dell'anatema nei confronti degli stili di vita considerati politicamente scorretti.
«Panorama» del 19 febbraio 2007

Il Duce meglio di Dante

Dagli archivi riemerge un’apologia del ’38 pubblicata sulla rivista fascista "Augustea". L’autore è il poeta Giorgio Caproni, futuro intellettuale di sinistra: un caso analogo a quelli di Gatto o Quasimodo
di Mirella Serri
A volte le parole sono ingannevoli. Riescono ad «allettare sempre, tessendo una maglia di labili convincimenti». Però ci sono parole e parole. Ce ne sono di «straordinariamente semplici e nude». Che risultano efficaci, incisive e dure. Non esortano alla pace ma alla guerra e sono destinate a non rivelarsi mai fallaci: sono quelle dei poeti e dei condottieri.
Questa distinzione la avanza lo scrittore Giorgio Caproni in una sua sofisticata prosa d’arte del 1938. Il brano, edito dalla rivista fascista Augustea, appare sul numero del 28 ottobre, celebrativo dell’anniversario della Marcia su Roma, e s’intitola Testimonianze al Capo. L’omaggio destinato a solleticare l’ego di Colui che non sbaglia mai - infallibile non solo nell’azione ma anche nel verbo: viene paragonato a Dante e Machiavelli - è del poeta più ritroso e meno desideroso di apparire della letteratura italiana. Il documento getta nuova luce sui rapporti di Caproni con il regime ed è stato ritrovato per caso dalla studiosa Paola Frandini. La ricercatrice - dopo aver raccolto le toccanti lettere degli ebrei italiani al Duce, scritte a ridosso delle leggi razziali (uscite di recente in Ebreo, tu non esisti. Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini) - era sulle tracce di ben altro. Cercava qualche pronunciamento degli intellettuali italiani sui provvedimenti razziali che mettono al bando i cittadini israeliti. Niente. I faldoni si sono rivelati vuoti mentre è emersa quest’esternazione di fede e di sconfinata ammirazione di una delle più importanti voci poetiche del secolo passato.
Il 1938 è un anno cupo per tutta Europa. Sono terribili i venti di guerra che soffiano, mentre settembre è il mese più crudele per gli ebrei italiani che assistono inermi all’escalation razzista. Non è un anno invece particolarmente feroce per l’autore del Passaggio di Enea. Di origini modeste, il padre Attilio è ragioniere, la mamma una sartina, Caproni ha dovuto faticare sia per imporsi nel mondo delle lettere che per assicurarsi il pane. Finalmente, però, ha trovato una stabile occupazione come maestro elementare a Rovegno, in Val Trebbia, dove passerà anche i mesi della guerra civile. Nell’anno in cui compila La parola di Mussolini, fresco di nozze si trasferisce a Roma, restandovi però solo poco tempo, e dà alle stampe una delle sue più importanti raccolte, Ballo a Fontanigorda, destinata ad assicurargli un posto nel pantheon letterario e a consacrare la Val Trebbia come luogo di poesia. La parola «infallibile» di cui esalta i meriti in questa testimonianza non è però solo quella poetica. È la parola che sa pronunciare «un suono convincente che all’istante apre il cuore alla più grande fiducia». A chi appartiene? «Fu la parola di Cesare e di Dante, di Savonarola e di Machiavelli e, oggi unica, è la parola di Mussolini». Infatti è «una parola di ferro, direi una parola armata che conduce gli innumerevoli che sbigottiscono di se stessi, che bramano un condottiero ideale o reale (ed è in quest’ansia la loro nobiltà) che li scagli oltre i limiti di una pace insidiata e perciò insidiosa. Io penso con meraviglia al fatto che tanta potenza scaturisca da vocaboli puri, i vocaboli che tutti comprendono, dal letterato alla tormentata donna di casa, ma che solo le grandi coscienze possono adoperare».
Chi ne possiede il segreto? «Solo i condottieri (e a volte pure i poeti sono tali) ne posseggono forse il segreto. Per certo nessuno lo possedette e, oso dire, lo possiederà al grado del Duce». Dopo la fine della guerra, Caproni diventerà firma di primo piano dell’intellighentia di sinistra su L’Unità, Mondo operaio, Avanti!, Italia socialista, Il lavoro nuovo. Nel ‘48 è a Varsavia a rappresentare gli scrittori progressisti e antifascisti al primo «Congresso degli intellettuali per la pace». Il letterato livornese deve infatti la sua fama anche a quella di cantore della Resistenza in Val Trebbia, dove sono pure gli amati luoghi dell’insegnamento. Nel ‘45 scriveva che aveva molte difficoltà a rientrare a Genova. Avrebbe voluto risiedere per sempre in quei posti dove si era combattuto accanitamente e che solo sentiva come «patria mia».
«La Stampa» del 23 febbraio 2007

Luzi, la vita come poesia

Esce postumo un volume del grande poeta che raccoglie testi e riflessioni critiche
Di Mario Luzi
«Negli anni Trenta pativo l’assenza di carità nel leggere e il giudizio sul mondo di Montale e Ungaretti»
Vi premetterò che c'è una poco manifesta ma reale crudeltà per un poeta a parlare di sé, qualcosa di profondamente iniquo perché inverso al senso della propria natura. Infatti in questo atto egli mette in un'effimera evidenza, riduttiva o meritoria a seconda dei suoi umori, il già fatto, mentre è tutto teso al da farsi, questa è la sua particolarità soggettiva. Si trova dunque in una situazione di squilibrio etico, penoso come una profanità, quando esprime qualche sentenza o conclusione o desume qualche argomento dimostrativo del lavoro lavorato e l'esperienza di esso gli sembra che sia anche un peso poco desiderabile e ingombrante.
Quello che dico come considerazione generale si moltiplica per cento o per mille, se riferito a un autore molto avanzato negli anni, che, con tutta la buona volontà, non riesce a rimuovere da sé il prodotto del tempo vissuto. Il paradosso sottilmente angoscioso della situazione di cui sto dicendo si complica in questo caso di un sentimento di inanità che credo solo a Dante, il quale si è cimentato nel «poema sacro a cui han posto mano e cielo e terra», sia stato risparmiato. E questo sentimento viene dalla dissonanza tra il desiderio di captare il mondo, sia nella sua molteplicità sia nella sua nuda essenza, che il poeta porta in sé come sigillo originario, e la povertà del raccolto.
Interviene la rassegnazione a riconoscere come solamente simbolico il suo lavoro: che può ambiguamente tradursi in esaltazione al pensiero di questa esigenza connaturale dell'umanità di simbolizzarsi...
Ma il bilancio lo stesso inevitabilmente geme. Del mondo, della vita che da sempre in te hanno premuto perché tu le esprimessi, per essere detti e comunicati ai tuoi fratelli. Che cosa è rimasto delle tue molte pagine? Ripeto: un sentimento di sconforto interrotto e alternato da una conquista dell'anima e della conoscenza: che la piccolezza consentita all'uomo rispetto alla grandezza impensabile della vita sia sentita misericordiosamente e accetta ta con umiltà. L'umiltà è forse la sommità della nostra conoscenza.
Ma torniamo un momento all'inizio di questa confidenza: alla necessità intrinseca del «fare» che è appunto un'attitudine o stigma che distingue il poeta. Il poiéin è appunto la sua condizione vitale. Il che non significa «fare per fare», ma produrre qualcosa che prima non c'era, accrescere l'esistente. È vero che esiste un'altra possibilità, che è quella di commentare l'esistente: a questa si devono molti decori e preziosi arricchimenti e possiamo ben intenderlo quest'anno, nell'occasione celebrativa del Petrarca, che fu impareggiabile commentatore dell'esistente, naturalmente non solo, ma, a mio parere, fortemente condizionato da quella sua attitudine primaria e che, per questo, ci appare tanto distante, al punto che le fitte celebrazioni di questo suo anno sono state piuttosto atti dovuti, ma non accrescimenti, come capita invece tutte le volte che si prende in mano Dante, la cui «divinità» incisa nell'autorità dell'opera impedisce la divagazione, il decoro e il prezioso. Un lungo destino di commento è nella nostra tradizione letteraria, indubbiamente, proprio per la sua paternità petrarchesca, ed è anche importante e, per certi aspetti consustanziale: bisogna prendere atto che quando è uno sguardo caritatevole e lucente a leggere in profondo lo stato delle cose e a commentarlo, allora si produce un incremento del nostro conoscere.
Quando cominciai a scrivere negli anni Trenta pativo la mancanza di tale carità e il giudizio duro e negativo sul mondo da parte dei poeti più importanti del tempo, come Montale e Ungaretti, per rimanere nel nostro giardino italiano. In entrambi non c'era spazio per l'esperienza e per la vita nel suo farsi, sia che pensiamo al «no» di Montale, deciso e replicato, a non viaggiare o vivere nel mondo, né mi rassegnavo a definizioni o schemi mentali.
Penso a questo punto anche all'importanza che ebbe la lezione di Bo, la sua particolare modalità di critica, c osì lontana dalla pratica definitoria nella lettura, aperta invece all'ascolto e all'illuminazione del testo, allo scandaglio, per usare una parola che a Bo piaceva molto e che è sua, di qualcosa che non è mai apparente e non finisce mai di essere misterioso dentro il testo. L'identificazione tra letteratura e vita fa sì che la lettera non possa essere considerata un marmo, ma sia suscettibile di continuo incremento di vita in chi la riceve. Si è poeti nel cercare appunto dentro il linguaggio, attraverso l'inesplicabile del linguaggio, questa ragione primaria.
Si trattava, allora, di rigenerare dentro la poesia e il linguaggio una vita che, nella quotidianità, ci veniva negata, umiliata. Nello stesso tempo eravamo invitati a cercare dentro di noi quello che fuori non c'era e quindi a frugare nelle ragioni più interne della letteratura e della poesia.
Bo fu tra di noi chi vide tutto ciò assai nitidamente: Letteratura come vita, che poi diventò quasi un manifesto, era la estrema coniugazione di un'esigenza di dignità e profondità accettabile della nostra vita con una prospettiva di espressione adeguata, non illusoria, non ingannevole, soprattutto non traditrice della nostra richiesta di verità, della nostra introspezione disperata. Dico disperata perché era fatta in un clima di rifiuto.
Cosa chiede Bo alla poesia? Non la ripartizione o la rappresentazione dell'esistente, non la chiarificazione di qualcosa che può essere spiegato con mezzi anche esterni, ma un salto dal conosciuto, dal già dato e donné, verso l'assolutezza irraggiungibile forse, che può balenare prodigiosamente attraverso la parola.
«Avvenire» del 22 febbraio 2007

Ma la cultura umanistica serve ancora?

di Luigi Testaferrata
Ho incontrato, anzi, gli sono stato seduto accanto per tutta la durata del pranzo, un ex allievo che negli anni di piombo capitanava con altri cinque o sei coetanei la contestazione. Io insegnavo al liceo classico, lui frequentava il liceo scientifico della mia cittadina: ma siccome, fino al '74, i due licei erano uniti sotto la stessa presidenza, io che ero il vicepreside di un preside che preferiva starsene rinchiuso nelle sue stanze, ero continuamente a contatto con la fronda, con la protesta per le cose più varie, con la ribellione che aveva più l'aspetto di un malessere, di una malattia giovanile che di una presa di posizione cosciente e motivata. Soprattutto perché, essendo i due licei in una zone della provincia dove il movimento studentesco (in assenza, allora, dei cellulari e di tutti gli altri marchingegni che permettono, ora, contatti immediati) aveva l'andamento di quelle mareggiate che perdono vigore via via che si allontanano dall'alto mare e non hanno quasi più forza quando arrivano a riva: le occasioni di critica e ribellione avevano sempre l'aspetto di cose scadute, ripetute, scimmiottate. Per questo provavo più fastidio che preoccupazione, qualche volta avevo l'impressione di essere derubato del gusto dello scontro e del patteggiamento, mi sembrava di essere non una delle due parti contendenti che possono trarre dal contendere una possibilità di reciproco chiarimento, di mutua correzione, ma un raccoglitore di cocci, un ricucitore di toppe. Il contestatore e i suoi compagni continuavano imperterriti «a portare avanti il discorso», pretendevano a ogni piè sospinto la «piattaforma» sulla quale discutere (senza discutere, naturalmente), «lo spazio politico» dentro il quale muoversi o fuori del quale scappare (il più delle volte per evitare le lezioni e le interrogazioni, per andare a passeggiare in campagna o, in caso di pioggia, a giocare a biliardo). Li persi di vista quando il ministero della Pubblica Istruzione varò i decreti delegati pieni zeppi di ipocrisia e di demagogia ma, apparentemente, aperti e paciosamente ossequienti alla rivolta giovanile e, soprattutto quando (ubbidendo alla massima latina «divide et impera») separò i due licei e nel più piccolo e tranquillo liceo classico le cose ricominciarono ad andare senza tanti sussulti rivoluzionari. Ora l'ex contestatore, un alto dirigente dell'Ufficio delle imposte, mi impartisce una lezione sulle scuole attuali. Soprattutto mi tesse gli elogi sperticati degli istituti tecnici che insegnano le lingue, che preparano all'uso del computer, che attrezzano i giovani con tutto il bagaglio scientifico o parascientifico (o forse esclusivamente tecnico) che li renderà competitivi nel mondo del lavoro, mi dimostra, soprattutto, l'anacronismo della vecchia laurea, la sua piena inutilità. E, come per realizzare una vendetta che aveva in seno dagli anni in cui qualche volta si sentiva represso e ostacolato da me, spara a zero sui licei (sul classico, in particolare), li definisce avanzi di un passato che non ha più senso, di cui bisogna pentirsi e vergognarsi. Lo vedo sicuro e impertinente, sa di avere complici dappertutto, mi inchioda alla mia miseria di umanista fuori circolazione, quando mi lascia è felice di avermi distrutto.
«Avvenire» del 22 febbraio 2007

Famiglia, filo rosso tra le civiltà

«Lo dimostra un archivio etnologico in California, che ha schedato le società esistite dalla preistoria ad oggi»: parla il sociologo Pierpaolo Donati
di Stefano Andrini

«L'idea che la famiglia sia una creazione del cristianesimo è una vecchia tesi dell'Ottocento, propalata dagli studiosi di quel tempo con molta fantasia e poche o nulle informazioni scientifiche. La ritroviamo in Marx e in tanti altri pensatori. Le scienze sociali dell'ultimo secolo hanno appurato che non c'è società senza famiglia, e che la famiglia non è soggetta a leggi evoluzionistiche lineari, in qualsivoglia direzione». Lo afferma il sociologo Pierpaolo Donati. «Il fatto storico della famiglia - aggiunge - è documentato sin dalla notte dei tempi, se si osservano per esempio le tombe sepolcrali dove venivano riposte un uomo e un donna, e magari i figli. A livello scientifico, esiste un archivio etno-antropologico presso l'università della California che ha schedato le informazioni empiriche relative a quasi tutte le società conosciute, da quelle primitive sino al Novecento. Il risultato delle analisi condotte è che la famiglia - concepita come unione stabile di un uomo, una donna e i loro figli (così la definisce l'antropologo francese Claude Lévi-Strauss) - è presente in tutte le società, ovviamente con delle variazioni dovute a fattori culturali e ambientali. Si ha notizia di due sole tribù in cui non si riscontra la famiglia nucleare, ma esse sono scomparse proprio perché non avevano una struttura familiare capace di rigenerare la società».
Perché la civiltà occidentale sembra voler rinnegare oggi uno dei suoi pilastri come la famiglia?
«Non è da oggi, ma da almeno due secoli che la famiglia è oggetto di teorie che sostengono che la famiglia è un retaggio del passato, una necessità strumentale delle economie arcaiche. Però oggi l'attacco è più forte perché la società contemporanea tenta un esperimento inedito, quello di liberare l'individuo (generalizzato in senso astratto) da tutti i legami sociali, pensando che senza tali legami le persone possano vivere più libere e felici. La società postmoderna vuole "immunizzare" gli individui dalla famiglia. Ques to sogno, che in passato è stato tentato su piccola scala, oggi guida la globalizzazione occidentale, spinto in avanti soprattutto da enormi interessi economici».
La definizione di famiglia come società naturale è ancora attuale?
«Oggi più che mai la famiglia è una realtà "naturale", se con questo termine non si intende una cosa fissa, scritta sulla pietra, ma il senso profondo di una relazione fra i sessi e fra le generazioni che costituisce il momento in cui la natura si fa cultura. Il punto è che il diritto naturale deve essere sviluppato su basi culturali appropriate, che oggi mancano perché si preferisce pensare che la famiglia sia solo una costruzione artificiale, che ciascuno può scegliere e fare a piacimento. Un grande inganno, come sanno tutti coloro che fanno questo esperimento».
Ci sono tracce nella storia di altri gravi attacchi alla famiglia?
«Dal Seicento ad oggi, a partire da alcune correnti del mondo protestante insediato nel Nord America, si è sostenuto che, poiché il Vangelo dice che in cielo non ci saranno né mariti né mogli, tanto vale abolire il matrimonio già su questa terra (qualcosa del genere era già stato detto molti secoli prima). Nel Novecento, il tentativo più grandioso di eliminare il matrimonio è stato fatto nell'Unione Sovietica dopo la rivoluzione del 1917. Nello stesso periodo storico qualcosa di simile è stato tentato nei Kibbutz in Israele. È noto che tutti questi tentativi sono falliti. La connessione fra matrimonio e famiglia è riemersa ovunque. Oggi la novità viene dalle società che hanno un welfare più avanzato (come nei Paesi scandinavi), dove sembra che il matrimonio non abbia più valore. In realtà succede che la società, in questi casi, attribuisce ai conviventi le qualità dei coniugi, anche se questi non fanno il matrimonio. Chi ci perde sono le persone, che rimangono prive del bene di una relazione umanizzante e sono esposte a continue e snervanti negoziazioni e riprogettazioni senza radici solide».
Qual è il vero obiettivo della associazioni omosessuali che richiedono i Pacs?
«La pressione di lungo periodo è quella di rendere il matrimonio indifferente all'identità sessuale. Il principio che viene invocato è il seguente: il matrimonio è un bene del quale tutti debbono disporre con uguali opportunità, a prescindere dall'identità sessuale personale. Si invoca questo principio di uguaglianza per evitare "discriminazioni" verso gli omosessuali: ma qui c'è un grande equivoco, perché un conto è discriminare (quando si trattano diversamente cose uguali) e un conto è trattare e rispettare ciascuno per quello che è (i sessi sono differenti). Se si afferma il principio per cui la differenza sessuale non ha più né senso né valore, si arriva a quanto proprio oggi propongono alcuni disegni di legge regionali in Italia, i quali prevedono che ogni individuo possa stabilire e dichiarare alla pubblica amministrazione la propria identità sessuale a piacimento. Ma se le persone cambiano identità sessuale a piacimento, in quale mondo vivranno? Chi si troveranno di fronte?».
Perché gli omosessuali chiedono il matrimonio?
«Gli omosessuali chiedono il matrimonio perché vogliono sentirsi uguali agli altri. Se si ragiona sulla uguaglianza dei diritti si sbaglia strada. Bisogna guardare alla natura della relazione, che è diversa. L'omosessualità potrà essere una relazione di affetto, amicizia, aiuto reciproco e altre cose ancora, ma non è per sua natura sponsale. È un altro tipo di relazione. Spetta agli omosessuali dire di che relazione si tratta».
A difesa della famiglia c'è un'inedita alleanza tra cattolici e intellettuali laici. Che frutti potrà dare?
«I frutti che vedo possibili sono quelli di una nuova razionalità capace di offrire delle ragioni nuovamente illuminanti sul senso della vita umana quando le vecchie ragioni non tengono più. Una ragione post-illuministica che trova il suo significato in esperienze e pratiche di vita capaci di vedere che la sponsalità e la genitorialità sono le prime, più originarie e più fondamentali ragioni di vita per la persona. Non dimentichiamo che il valore della famiglia è e rimane al primo posto in tutte le nazioni, anche in quelle dell'Unione Europea. E non dimentichiamo che la società ha bisogno del matrimonio non per opprimere le donne e i bambini, le persone socialmente deboli, ma per dare loro una migliore tutela. Formulo l'auspicio che i problemi sul tappeto possano trovare risposte in una legislazione di ampio respiro che non si fermi ai problemi settoriali, ma rilanci la famiglia mentre riconosce quei diritti individuali di chi persegue, in altre formazioni sociali, non già dei meri desideri privati, ma dei beni meritori degni di essere tutelati dalla intera comunità politica».
«Avvenire» del 22 febbraio 2007

Se la letteratura trionfa sull'oblio

Una riflessione dello scrittore sul destino
di Raffaele La Capria
Meditazione su «Il ponte di San Luis Rey» di Thornton Wilder
Entro nella libreria e sono subito sopraffatto dalla quantità di libri esposti, ce ne sono troppi, di tutti i generi, decisamente l'offerta supera la domanda, specie in un Paese di non lettori come il nostro. E come faccio tra questa folla di libri a trovare il mio? Vado a cercarlo tra gli scaffali, tra quelli disposti in ordine alfabetico, ma la situazione non migliora. Tra Hemingway, Joyce e Kafka da una parte e Lawrence, Leopardi e Mann dall' altra, tra questi giganti chi riuscirà a notare il piccolo La Capria? Non solo l'editore e il libraio, ma anche l'alfabeto congiura contro di me. Esco un po' avvilito da un senso di esclusione, di cancellazione, di inesistenza in vita, e vado alla fermata dell' autobus. Aspetto per un po' il 64 che non arriva e un pensiero non invitato mi attraversa la testa: «presto moriremo e saremo dimenticati». Dove ho letto queste parole? Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey, riportate sul retro della copertina, poco fa in libreria, dove ho incontrato Ferruccio Berselli. Mi ritornano a mente proprio ora mentre aspetto l'autobus. I pensieri ti attraversano la testa senza chiederti il permesso, anche quelli gravi come questo, vengono nei momenti più impensati. Non ci sono momenti o luoghi particolarmente adatti per pensare che «presto moriremo e saremo dimenticati». Ecco il 64 che arriva, salgo e un ragazzo, uno molto giovane, col codino, mi cede il posto. Ci sono ancora dei ragazzi beneducati, ma è così evidente la mia età? Ferruccio Berselli, Regio Liceo Ginnasio Umberto I°, il classico vecchio compagno di scuola, mi ha riconosciuto subito, dopo più di mezzo secolo. Un incontro un po' strano, a dir la verità, perché mi avevano detto che era morto e io lo credevo morto. Evidentemente avevo capito male e avevo fatto qualche confusione, distratto come sono. Lo credevo morto, come tanti che se ne vanno alla spicciolata, senza farsi troppo notare, e di loro non si sente più. E invece eccolo lì, vivo e vegeto, davanti a me. Mi ha subito riconosciuto, un abbraccio e, come va la vita? Da quanto tempo non ci si vede, hai notizie del tale e del talaltro? Saltano fuori i nomi, non vedo l' ora di salutarlo. L'autobus si ferma, scendo e mi avvio in fretta. Alle undici ho l'appuntamento col dentista e sono un po' in ritardo. Arrivo, mi scuso, mi sdraio sulla poltrona, il dentista mi parla del più e del meno mentre lavora ma non lo sento, sento solo il sibilo del trapano. L'anestesia funziona ma i miei nervi sono tesi, meglio pensare ad altro. E il pensiero dell'amico incontrato poco prima in libreria mi attraversa la testa e mi distrae dal trapano. Lo credevo morto ma non era morto, può capitare. Ma non è questo il punto. Il pensiero che mi colpisce è un altro, è l'indifferenza. La mia, indifferenza prima e dopo. L'indifferenza quando mi hanno detto che era morto e l' indifferenza quando me lo son visto davanti nella libreria. Un minimo di sorpresa, ecco quello che avrei preteso da me. Invece niente, proprio niente. Chissà se la stessa indifferenza toccherà anche a me. Chissà se questa indifferenza è mia, mi appartiene, o è un'indifferenza generale di tutti, un'indifferenza della gente che non si stupisce più di niente perché non crede in Dio e non crede in nulla, l'indifferenza del cuore incurante di ognuno. Ahi! Adesso un po' di dolore dal trapano mi è arrivato, ma più che un dolore è un'avvisaglia, che però mi terrorizza perché se arrivasse il dolore, quello vero, come lo sopporterei? Il dolore del trapano, e non solo quello, è traditore. Ti attraversa come un lampo il cervello senza preavviso, ecco perché anche una minima avvisaglia di quel dolore ti fa paura. Meglio tenerlo lontano, non pensarci. Il dentista si ferma, poi mi chiede se può continuare. Lui continua, il trapano sibila, e continua la mia tensione, l'ansia, la paura del dolore. Per fortuna quel sibilo è finito, per oggi l'ho scampata. Ed eccomi di nuovo alla fermata dell'autobus, e di nuovo quella frase «Presto moriremo e saremo dimenticati»... Presto, che vuol dire presto? Vuol dire che l'ora della morte è ogni momento, anche mentre aspetti l' autobus che ti riporterà a casa? «Presto moriremo e ogni memoria di noi sarà scomparsa dalla terra. Saremo amati per breve tempo e poi dimenticati». Dopo quanto tempo saremo dimenticati? Il giorno dopo, dopo un mese, dopo un anno? E per quanto tempo saremo stati amati? «Per breve tempo». Quanto breve? Breve come il tempo della vita, dei sentimenti, del desiderio? E se la noia o qualcos' altro uccidono l' amore, che sarà allora di noi? Saremo morti in vita, vita natural durante? «Per breve tempo» implica tante cose, non solo il tempo. Ecco l' autobus 64. Distinguo il numero da lontano, scritto sul davanti. Ho ancora la vista buona che mi consente di decifrare il numero di un autobus a cento, 150 metri di distanza. Da vicino leggo bene le pagine di un libro, con gli occhiali naturalmente, ma dopo cinquanta pagine mi stanco. Cinquanta? Voglio misurare con esattezza dopo quante pagine. Certo dipende da quel che si legge. Se leggo Stendhal posso leggere cento pagine senza accorgermene. Lui ha la scrittura veloce. Ma anche Proust che ha la scrittura lenta lo leggo senza accorgermene. La scrittura sarà lenta ma la lettura vola. Lentezza di scrittura e velocità di lettura, non c' è contraddizione. Oblitero il biglietto dell' autobus nell' apposita macchinetta. Ho pensato «oblitero» ma è una parola che non mi appartiene. Linguaggio burocratico-statale, linguaggio da macchinetta d' autobus, non mio. Eppure anche questa parola che non mi appartiene mi attraversa la testa come i pensieri e come quella frase che conclude il libro. Come lo conclude dopo aver affermato che saremo amati per breve tempo e poi dimenticati? Così: «Ma l' amore sarà bastato, tutti quei moti d' amore ritornano all' Amore che li ha creati. Neppure la memoria è necessaria all' amore. C' è un mondo dei viventi e un mondo dei morti, e il ponte è l' amore». Ma sarà vero? Sarà vero che l' amore sarà bastato a vincere l' oblio? E quando anche chi ci ha amato morirà, chi si ricorderà più di noi? E sarà vero che ogni moto d' amore ritorna all' Amore che li ha creati? Qui Amore è scritto con la lettera maiuscola, una lettera che richiede la fede, la speranza... E chi non ce l' ha? Come farà chi non ce l' ha a vincere l' oblio e la morte, a creare quel ponte tra i morti e i viventi? L' autobus corre, tra le case e le vie della città e così corrono i pensieri involontari che attraversano la testa del viaggiatore.
«Corriere della sera» del 23 febbraio 2007

La resa dell’Occidente

Lo studioso francese attacca l’atteggiamento masochista degli intellettuali europei
di Danilo Taino
Pascal Bruckner: l’ideologia penitenziale ci disarma di fronte al pericolo islamista
Per ora, Nicolas Sarkozy conquista gli intellettuali. Ma cosa succederebbe se fossero les intellos a conquistare la mente e l’agenda del candidato alla presidenza francese? E poi, a maggio, «Sarko» vincesse l’Eliseo? Beh, è vero che la Francia non ha mai visto un presidente dare retta ai pensatori, ma una parte del fascino di Sarkozy sta nella capacità di sorprendere. E, comunque, la domanda si forma da sola se si legge il saggio La tirannia della penitenza (Guanda), lavoro di Pascal Bruckner, romanziere, saggista, noveau philosophe che fino a poco tempo fa era attratto da Ségolène Royal, ma adesso - come molti altri della fu sinistra parigina - appoggia l’uomo dell’Ump. Avremmo un neocon al cuore del Vecchio Continente? Bruckner sostiene che l’Occidente e soprattutto l’Europa vivono in gran parte sotto un cielo grigio, nuvole dense create dal senso di colpa per il passato e per la superiorità dell’Ovest in fatto di libertà, democrazia, scienza. Nuvole - denuncia - create e tenute gonfie da un’«ideologia balbuziente», dalla tradizione dell’antioccidentalismo «che va da Montaigne a Sartre e che instilla relativismo e dubbio», e da una élite di sacerdoti del pensiero che incitano all’autoaccusa e alla fustigazione pubblica. «La casta degli intellettuali, alle nostre latitudini, è la casta penitenziale per eccellenza, erede diretta del clero dell’Ancien Régime». È il confronto con l’Islam, ovviamente, il punto critico dell’analisi di Bruckner. Di fronte all’aggressività di una parte del mondo musulmano - in Medio Oriente, in Asia, ma anche nelle nostre società - la cultura dominante europea risponde arretrando, negando nei fatti i suoi valori e spesso facendosi travolgere. Le accuse di colonialismo e di corruzione morale dell’Occidente, che servono ai movimenti radicali islamici per giustificare l’aggressività, trovano un ventre molle tra la maggioranza degli intellettuali e dei politici europei, in particolare in Francia. Se il terrorismo ci colpisce, scatta il riflesso condizionato per il quale qualche colpa l’avremo pure; se Al Qaeda abbatte le Torri gemelle, schiere di «progressisti» ci raccontano che gli americani sono pur sempre responsabili dei mali del mondo. «Così come esistono predicatori di odio nell’islamismo radicale, esistono predicatori di vergogna nelle nostre democrazie, soprattutto fra le élite intellettuali, e la loro capacità di fare del proselitismo non è trascurabile». Il risultato è un abbaglio ideologico tragico che Bruckner - fatte le proporzioni - paragona a quello dei vecchi comunisti, i quali, pur sapendosi innocenti, confessavano colpe immaginarie di fronte alle accuse dello stalinismo. «L’europeo medio, uomo o donna che sia, è un essere straordinariamente sensibile, sempre pronto ad attribuirsi la colpa della povertà dell’Africa, a impietosirsi di fronte alle sofferenze di un mondo di cui si ritiene responsabile, e a chiedersi cosa possa fare lui per il Sud, invece di interrogarsi su cosa il Sud possa fare per se stesso». Da giovane, Bruckner (oggi ha 58 anni) ha scritto due libri assieme ad Alain Finkielkraut, l’intellettuale francese che, nei giorni delle rivolte delle banlieue, creò un caso quando sostenne che le società multirazziali ci mettono poco a diventare anche multirazziste. Ora, di Finkielkraut non condivide la rivalorizzazione assoluta del colonialismo, inteso come nobile tentativo di «portare educazione e civiltà ai selvaggi». Ciò nonostante, ritiene che la questione dell’espansione di conquista, dell’impero - interessi centrali anche dei neocon americani - siano essenziali per capire e spiegare il disorientamento dell’uomo europeo frastornato da globalizzazione, ondate migratorie, minacce alla sua sicurezza. E distingue tra colonialismo, fenomeno politico condannabile, e colonizzazione, che può essere giudicata - dice - solo sul piano storico: sarebbe difficile sostenere, duemila anni dopo, che la colonizzazione della Gallia da parte dei Romani fu negativa o che l’influsso arabo sulla Spagna non abbia contribuito a creare una civiltà ricchissima. Insomma, noi occidentali non abbiamo un debito, sempre e comunque, verso il resto del mondo. È vero che la civiltà europea è stata capace di atrocità. Ma anche di opere sublimi. Soprattutto - qui sta la sua grandezza rispetto ad altre - sa creare gli antidoti alla sua stessa barbarie, riesce ad analizzare se stessa e a migliorarsi perché è aperta. È quel lucido fenomeno caratteristico dell’Occidente che non è tanto la lotta tra il Bene e il Male, ma, nella formula laica di Raymond Aron, la lotta di ciò che è preferibile contro ciò che è detestabile. Ma se la lotta non è tra Bene e Male, lo spirito autocritico non può diventare assoluto, totem in sé: pena la sua trasformazione in dogma. Ed è invece questo, secondo Bruckner, quello che sta succedendo nel Vecchio Continente: «Dal rifiuto dei dogmi nasce il dogma tutto nuovo della demolizione». Messa in politica, fatta entrare all’Eliseo, l’analisi di Bruckner costringerebbe la Francia e l’Europa di oggi a smettere di camminare a testa in giù, a cambiare il loro stesso modo di essere. Perché il senso di colpa è «un alibi per la nostra abdicazione», dietro di esso si nasconde la rinuncia a essere qualcosa nel mondo, addirittura il tentativo di separarsi da esso: si accettano le colpe e ci si carica sulle spalle «il monopolio della barbarie» in cambio della «triste cuccagna del supermercato, del tenore di vita, dell’edonismo». No, Sarkozy che dà retta a les intellos non sarebbe semplicemente un presidente neocon (Bruckner non lo è nemmeno). Costringerebbe il Vecchio Continente e rimettersi in piedi: che è di più.

«Corriere della sera del 22 febbraio 2007

Bruno e Copernico, relativisti ma non contro Dio

Le ragioni della rivoluzione scientifica nel saggio di Nuccio Ordine
di Giulio Giorello
Di fronte a un universo infinito si opponevano al dogmatismo
Il Mamfurio è un personaggio del Candelaio, un’opera di Giordano Bruno. Ricompare nelle vesti di Prudenzio nella Cena de le Ceneri, un’altra opera del maestro di Nola, dove si mettono in scena la nuova concezione del cosmo di Copernico e l’idea di un universo senza confini. Nome quanto mai appropriato, Prudenzio: è definito «più prudente che la stessa prudenzia» in quanto rappresenta «la prudenzia masculini generis». E così si svela quale sia il ruolo negativo dell’educatore secondo Bruno: quello di riportare nei ranghi della tradizione qualsiasi nuova idea, o stile di vita, che abbia il torto di andare contro la costellazione dei pregiudizi stabiliti. Per tutti i cinque Dialoghi della Cena, Prudenzio cercherà infatti di contrastare, o almeno banalizzare, le «novità» introdotte dal Nolano: la «eretica» idea che la Terra si muova - ruotando sul proprio asse e orbitando intorno al Sole -, la convinzione che «non più la Luna è cielo a noi, che noi alla Luna», la dichiarazione del carattere relativo di movimenti sufficientemente regolari, l’assenza di centro assoluto in un Cosmo infinito, la concezione delle stelle come altrettanti soli, centri (relativi) di sistemi planetari non dissimili dal nostro, per non dire dell’interpretazione come metafore, o allegorie, di non pochi passi delle «divine scritture». A proposito delle quali, d’altra parte, Teofilo, portavoce di Bruno nei cinque Dialoghi, soggiunge che «Dio parla per ironia». Gli educatori, invece, no. Dall’ironia si sono esclusi per principio e solo la lettera di (qualsiasi) «scrittura» per loro ha valore. Ciò ne giustifica, per altro, il ruolo: costituiscono il filtro contro cui faticosamente deve farsi strada la novità filosofica, scientifica o politica che sia. Paradossalmente, finiscono talvolta (e al di là delle intenzioni) con l’irrobustire quello che vorrebbero censurare. Quanto merito spetta a Prudenzio (o ai precisians oxoniensi, le cui belle imprese sono da Teofilo riferite nella Cena) nell’aver stimolato la nolana filosofia a sviluppare un argomento di sapore relativistico? Almeno tanto quanto ne spetta al Simplicio personaggio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) di Galileo Galilei.(...) Con questa apparente digressione siamo entrati in merito al volume che Nuccio Ordine ha dedicato alla complessa rete di corrispondenze tra il filosofo Bruno e il poeta Ronsard. Il titolo di un capitolo della prima versione (Albin Michel, Paris 2004) è diventato il titolo dell’intero libro in questa nuova veste: Contro il Vangelo armato - e la ragione è proprio in quel filo rosso dei pedanti che abbiamo sopra delineato. Ordine ci mostra che l’educatore alla Prudenzio (o alla Mr Deasy) è solo l’altra faccia del fanatico religioso che si nasconde dietro la puntigliosa esegesi del testo scritturale. I più svariati propugnatori del Vangelo armato sono accomunati non solo dalla commistione tra fides e religio, ma dalla presunzione di infallibilità e dall’ossessione «pedagogica» di volere plasmare gli altri a propria immagine e somiglianza. Parafrasando Ronsard, potremmo dire che costoro ci vogliono imporre di sognare i sogni concepiti da quelle che ritengono le loro indiscutibili autorità - si tratti di «papisti» o di «ugonotti» in terra di Francia, o di puritans (l’altro nome dei precisians) nella remota Britannia. Sono insieme causa e sintomo di un morbo che produce «un mondo ammalato», per usare un’espressione di Bruno. Il rimedio proposto dal Nolano è l’indagine spregiudicata e irriverente di qualsiasi fondamento (nonché la traduzione di questo atteggiamento nella pratica politica e nel disegno delle istituzioni). Si tratta di una filosofia che difficilmente poteva allora (o potrebbe oggi) venir prospettata come una variante del cristianesimo storico, lacerato all’epoca tra Riforma e Controriforma. È semmai una prospettiva non tanto anticristiana quanto postcristiana - sia sul kosmos sia sulla polis. Giustamente Ordine insiste che in Bruno questa «relativizzazione dei dogmi» si sposa col suo relativismo cosmologico: nell’Universo «senza margini», in assenza di un centro assoluto, l’unico centro possibile è quello di chi osserva. Con il che viene meno la pretesa totalizzante di qualunque fede - sarei tentato di aggiungere che il discorso vale anche per confessioni non prese direttamente in esame dal Nolano. L’analisi di Ordine si focalizza soprattutto su uno dei testi all’apparenza più ambigui di Bruno, lo Spaccio de la bestia trionfante. Lo stesso Nolano, nella Epistola esplicatoria («al molto illustre et eccellente cavalliero signor Filippo Sidneo»), avverte il lettore che utilizzerà l’espediente di «preponere certi preludii a similitudine de musici: imbozzar certi occolti e confusi delineamenti et ombre, come gli pittori; ordire e distendere certe fila, come le tessitrici; e gittar certi bassi, profondi e ciechi fondamenti come gli grandi edificatori». Ma Ordine è uno di quei lettori di Bruno che è capace di penetrare «entro la midolla del senso», grazie al suo sforzo di definire il contesto in cui si inserisce lo Spaccio: un intreccio di temi cosmologici, etici e politici, in un mondo piagato dalla guerra civile. Anche lo Spaccio ha il carattere di un’ouverture - una sorta di grande premessa a un successivo dispiegamento della «moral filosofia» - e proprio per questo, stando ai canoni retorici dell’epoca, può attingere liberamente al repertorio mitologico, secondo un archetipo che risale almeno a Luciano di Samosata. Nello Spaccio, come è noto, il sommo Giove vuol purgare il cielo dalle «quarantotto famose imagini»» che hanno finito col raffigurare i vizi più bestiali. Quello che viene riformato è manifestamente il cielo aristotelico-tolemaico che Copernico aveva iniziato a smantellare. (...) Il programma di Bruno non suoni contraddittorio. Come si è visto - citando lo stesso Amleto - il Nolano spicca tra i filosofi dell’epoca sua per «non essersi limitato ad accettare la realtà del cosmo copernicano, ma averlo sviluppato verso la decisa affermazione di un universo infinito in atto e omogeneo (...) e del resto necessariamente infinito in quanto effetto unico e totale (...) dell’infinita potenza-bontà-volontà divina».
Si tratta di alcuni brani della prefazione scritta da Giulio Giorello al libro di Nuccio Ordine «Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religione» (Raffaello Cortina Editore, pp.350, 28). Sarà presente l’autore. Qui di seguito anticipiamo alcuni brani della prefazione al libro scritta da Giulio Giorello.
«Corriere della sera» deò 22 febbraio 2007