17 gennaio 2007

Fame nel mondo vinta dalla tecnica?

Con la rivoluzione industriale e il boom economico l’Occidente è diventato un laboratorio tecnologico grazie al quale oggi il Terzo Mondo può svilupparsi meglio e più in fretta. La tesi del Nobel americano Fogel
Di Robert William Fogel
Oggi i casi più notevoli di rapidità nella crescita economica riguardano i Paesi asiatici e latino-americani, che, insieme, rappresentano più della metà della popolazione mondiale. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, prima il Giappone, poi le «tigri» asiatiche (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong), e in anni più recenti Cina, Malaysia, Thailandia, Indonesia e India, più una dozzina abbondante di altri Paesi dell'Europa Orientale, dell'Asia e dell'America Latina — spesso chiamati «economie di mercato emergenti» — hanno cominciato a crescere, in termini sia di prodotto interno lordo sia di prodotto pro capite, a tassi che hanno superato largamente l'esperienza a lungo termine delle precedenti nazioni leader.
Il Giappone ha fissato il paradigma di questo tipo di crescita. Il suo prodotto interno lordo è aumentato 14 volte in appena 4 decenni, trasformando un Paese impoverito con caratteristiche tipiche delle società arretrate, nella seconda nazione più prospera del mondo. In precedenza, in Occidente, un progresso di tali dimensioni aveva richiesto un secolo e mezzo. Per esempio, cambiamenti analoghi si verificarono in Francia tra il 1820 e il 1969, e in Gran Bretagna tra il 1820 e il 1967.
L'accelerazione della crescita economica nelle economie asiatiche ad alta performance è dovuta in larga misura al ricco e diversificato «pacchetto» di tecnologie a cui oggi è possibile ricorrere; un pacchetto di gran lunga superiore a quello delle prime nazioni leader. I premi Nobel Simon Kuznets e Theodore W. Schultz hanno valorizzato il ruolo delle scorte di tecnologia in relazione alla ripresa europea dopo la seconda guerra mondiale. Kuznets ha anche sottolineato che alcuni progressi tecnologici, come l'energia elettrica, hanno permesso l'aumento della produttività economica in un'ampia gamma di attività. Tuttavia, l'applicazione di quella fonte di energia a usi particolari ha richiesto ulteriori innovazioni. Allo stesso modo, le ricerche effettuate dall'industria chimica, come la creazione di nuovi coloranti per tessuti, di nuovi reagenti per l'acciaio, di nuovi conservanti alimentari, la fortificazione della farina e la realizzazione di fibre in carbonio, hanno spesso rappresentato il punto di partenza per applicazioni inedite in settori industriali remoti e contribuito all'emergere di molte nuove branche della chimica.
La diffusione nel Terzo Mondo della purificazione dell'acqua e dei sistemi di smaltimento razionale del rifiuti urbani, rapida in confronto al suo ritmo penosamente lento in Europa e negli Stati Uniti al tempo della rivoluzione industriale, è un caso eloquente. All'inizio l'urbanizzazione del XIX secolo portò a un aumento della morbilità e della mortalità, perché le città raggiunsero dimensioni tali che fu impossibile fornirle di acqua potabile, eliminare i rifiuti e costruire alloggi. La distribuzione dell'acqua potabile e la rimozione dei rifiuti di città così popolose come Londra, Parigi e New York erano nella seconda metà dell'Ottocento, richiese importanti progressi nell'idraulica e nelle tecniche di costruzione degli acquedotti, delle fognature, delle gallerie, dei canali, dei depositi e degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti. Alcune metropoli assunsero chimici che analizzassero regolarmente il contenuto dell'acqua potabile. E nella sua relazione annuale per il 1871, il chimico della municipalità di New York riferì su impurità nell'acqua distribuita alle zone residenziali — in particolare di piombo, essendo di piombo le condutture usate per rifornire molte strade. Così, l'Occidente è stato una specie di grande laboratorio alle cui scoperte i Paesi del Terzo Mondo hanno potuto attingere, quando sono entrati nella fase di rapida urbanizzazione. È per questo che, invece di essere di ostacolo al miglioramento della salute e della sopravvivenza, come era accaduto in Europa e America nel XIX secolo, il rapido sviluppo urbano del Terzo Mondo dopo il 1945 ha contribuito ad accrescere l 'aspettativa di vita.
La drammatica penuria di alimenti causata dalla seconda guerra mondiale ha accentuato le pressioni per una maggiore offerta alimentare, legate al continuo declino mondiale dei tassi di mortalità e alla conseguente accelerazione dell'incremento demografico. Le nuove riduzioni della mortalità degli anni Cinquanta e Sessanta del '900 si sono fatte sentire soprattutto in Asia, anche col contributo dei massicci programmi postbellici di lotta contro la malaria e fornitura di aiuti alimentari. La forte accelerazione della crescita della popolazione in Paesi come l'India e Ceylon, sommandosi al declino della produzione agricola tradizionale a volte associato ai programmi di aiuto alimentare, ha fatto temere un'imminente catastrofe.
Le teorie secondo le quali la crescita della popolazione stava per scatenare carestie di tipo malthusiano sembrarono confermate dalla grande carestia del Bengala negli anni Quaranta del Novecento, inizialmente attribuita ai cattivi raccolti. Solo negli anni Ottanta fu appurato che la carestia del Bengala, e altre analoghe catastrofi alimentari, in realtà dipendevano non tanto dalla scarsità di alimenti, quanto dallo stato disastroso della rete di distribuzione, spesso col contributo di assurde politiche dei governi.
In realtà, nonostante il raddoppio postbellico della popolazione asiatica in appena qualche decennio, i miglioramenti nelle sementi, nelle tecniche dell'agricoltura secca, nei fertilizzanti e nelle colture, oltre all'aumento della terra coltivata, hanno portato a un sensibile aumento dell'offerta alimentare mondiale. La produzione agricola ha quindi potuto tenere il passo con l'esplosione demografica dello scorso mezzo secolo e perfino permettere l'aumento del consumo pro capite di cibo, che negli ultimi decenni è cresciuto dello 0,6% all'anno. Anche se il fatto che la disponibilità di energia alimentare pro capite sia cresciuta, a livello mondiale, di circa 400 calorie tra il 1965 e il 1989, non significa ch e il problema della malnutrizione cronica nei Paesi poveri sia risolto.
«Avvenire» del 10 gennaio 2007

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